di Rita RANDOLFI
Con il volume dal titolo: Francesco Antonio Franzoni (1734-1818). Un artista carrarese alla corte dei Papi edito da Artemide, Rosella Carloni ricostruisce la personalità di uno scultore che fu anche un imprenditore e un impresario del marmo, celeberrimo per gli animali della sala omonima del Museo Pio Clementino, nonché “intagliatore” e restauratore dell’antico, il cui studio divenne un modello di organizzazione per generazioni di artisti posteriori.
Il libro consta di otto capitoli, più un’ampia ed accuratissima appendice di documenti ed una corposa bibliografia, in cui l’autrice analizza, passo dopo passo, l’evoluzione della carriera del Franzoni, dagli esordi alla morte, evidenziando le importanti relazioni intrattenute con i colleghi scultori, con alcuni dei quali formerà un sodalizio artistico e finanziario, e con i committenti di tutto riguardo, tra i quali vanno annoverati i papi, Pio VI e Pio VII.
Il primo capitolo mette in luce come la fortuna di Carrara sia sempre stata legata alla presenza delle celebri cave di marmo bianco. Fin dal Quattrocento la popolazione locale si dedicò all’attività estrattiva che portò alla nascita dell’Ars Marmoris, la corporazione che riuniva cavatori, scalpellini e scultori. Nel Cinquecento la produzione si ampliò e il commercio si aprì al libero mercato, regolato nel 1564 da Alderano Cybo Malaspina con la creazione dell’Offitium Marmoris.
Nei secoli successivi si affiancò alla produzione del marmo statuario quella dei marmi decorativi, destinati ad arredi e manufatti, che divennero la principale fonte di reddito. Anche la famiglia Franzoni fu attiva in questo settore.
Francesco Antonio (Carrara, 1734 – Roma, 1818), nacque dall’avvocato Pietro Ottavio e da Gerolama Stagnari. Il giovane si formò probabilmente nella bottega di Giovanni Baratta ereditata da Giovanni Antonio Cybei (giĂ aiuto a Roma di Agostino Cornacchini), dal quale imparò l’uso del trapano e l’attenzione ai particolari. Nel 1758 Francesco Antonio si trasferì a Roma, dove lavorò nel laboratorio di Giovanni Battista Lazzarini, che gli affidò la direzione della galleria espositiva. Nel 1768 si sposò con Berardina Toracca, andando ad abitare in via della Purificazione, una strada dove giĂ altri colleghi, come Maini, Rusconi, Della Valle e lo stesso Cornacchini, dimoravano. Fu quindi impiegato, dietro la supervisione di Paolo Posi, per la realizzazione delle acquasantiere, dei cherubini dell’altare maggiore e dello scudo con lo stemma di Siena del portale della chiesa di Santa Caterina dei Senesi.
La raffinatezza di questi interventi indusse il Posi a chiamarlo per il monumento a Flaminia Chigi Odescalchi in S. Maria del Popolo, dove risulta autore dell’aquila, dello scoglio e del vaso.

Negli anni ’60 del Settecento, Franzoni entrò nel team dei restauratori diretti da Giovanni Battista Piranesi. Questi utilizzava i reperti antichi, molti dei quali provenienti da Villa Adriana a Tivoli, in due modi: o reintegrava le statue antiche oppure combinava frammenti antichi in opere nuove, realizzando dei veri e propri pastiches. Franzoni, quindi, oltre a ad acquisire una notevole competenza nel restauro delle antichitĂ , divenne abile nel dare forma ad opere originali a partire da frammenti antichi – si veda ad esempio l’Airone con il serpente ricomposto dal torso di un ibis – , specializzandosi nella rappresentazione degli animali.
Dopo l’elezione di Pio VI, nel marzo 1775, Franzoni ottenne la carica di Intagliatore del Sacro Palazzo Apostolico, dieci anni dopo diveniva anche Intagliatore della Fabbrica di San Pietro, partecipando ai lavori per la Sagrestia Vaticana e alla realizzazione degli orologi della facciata.  L’intagliatore, come precisa l’autrice del libro, era dedito all’esecuzione delle decorazioni e dei rilievi, mentre lo scalpellino era colui che tagliava il marmo.

La fama dell’artista è indubbiamente legata all’allestimento del Museo Pio Clementino, nel quale non fu attivo solo come artista, ma anche come organizzatore e intermediario nelle forniture di materiali pregiati e di marmi colorati. Il suo nome è indissolubilmente legato al così detto “zoo di marmo” della Sala degli Animali, dove emergono le sue qualità professionali, l’attenzione al dato naturale, la perizia tecnica, la perfezione dell’esecuzione.

Ma Francesco Antonio riscosse anche un notevole successo come restauratore, basti ricordare i suoi interventi nella sala della Biga e alla biga stessa.

Le sue opere furono pubblicizzate dalla stampa romana dell’epoca (Diario ordinario, Giornale delle Belle Arti, Annali di Roma) e ricevettero le lodi degli studiosi e dei viaggiatori del Grand Tour (Zoëga, De Lama, Campello). Anche Antonio Canova andò a visitare il suo studio, restandone profondamente impressionato. La Carloni sottolinea come ogni intervento di restauro per il Museo veniva sottoposto al giudizio di Giovanni Battista Visconti con il quale Franzoni sviluppò un rapporto di fiducia, testimoniato da numerose lettere. Altrettanto proficui furono le relazioni con altri colleghi come Vincenzo Pacetti, con cui diede vita ad un vero sodalizio artistico e commerciale durato circa quarant’anni anni, o i fratelli Cartoni, con Carlo Albacini, Thomas Jenkins, Robert Fagan e Giovanni Pierantoni con il quale strinse una sincera amicizia.
L’artista fu anche un abilissimo commerciante di marmi, il cui valore veniva riconosciuto dalle perizie dei Visconti e dei Pierantoni che tenevano conto della rarità del soggetto, della qualità della scultura e dell’iconografia, che doveva risultare identificabile. Nel 1788 Franzoni fu ammesso alla Congregazione dei Virtuosi al Pantheon, come “ornatista in marmo”.
La stima che Papa Pio VI nutriva nei suoi confronti si riflette nel suo coinvolgimento in altri cantieri pontifici, come i giardini del Vaticano e del Quirinale, il Campidoglio, villa Giulia e il Pantheon. Negli anni Novanta partecipò persino alla costruzione e alla decorazione della chiesa di San Paolo a Tor Tre Ponti (Latina), nell’ambito della riqualificazione dell’area pontina voluta dal pontefice.
La Carloni dedica un intero capitolo agli impegni di Franzoni per i Braschi: nel palazzo di piazza Navona l’artista intagliò diversi camini, un trumeau ed i capitelli dello scalone monumentale, dedicandosi persino al restauro di alcune statue, come la cosiddetta Livia, e contribuì con altri scultori alla realizzazione del deser che lasciava strabiliati gli ospiti.
Franzoni eseguì, ancora dietro la supervisione di Paolo Posi, il ciborio della chiesa parrocchiale di S. Maria a Pofi (Frosinone), dove dimostrò di rinunciare al dinamismo tardo barocco, in favore di una composizione più equilibrata, improntata ad una maggiore chiarezza formale.
L’autrice del volume scandaglia i resoconti del carrarino costituiti da una parte descrittiva, in cui venivano valutati il soggetto dell’opera, la qualità del marmo e il grado di conservazione e una  tecnica nella quale erano riportati i materiali impiegati, il numero di aiutanti coinvolti, il tempo di lavoro e le spese sostenute. Ogni intervento era basato su un rigoroso metodo filologico e sul confronto con il Visconti e con l’architetto Simonetti. Nell’atelier del Franzoni i giovani “fissi” e gli operai a giornata lavoravano ogni giorno per circa 9 ore, eseguendo anche copie di piccole dimensioni di opere antiche celebri. Lo studio, collocato al pianterreno della casa di via della Purificazione, indossò le vesti di un vero e proprio esercizio commerciale, costituendo un modello organizzativo per le officine artistiche romane di fine Settecento.
Anche Pio VII Chiaramonti espresse il suo apprezzamento nei confronti dell’artista, visitandone lo studio il 28 settembre 1801. Sono gli anni in cui si diffuse una vera e propria moda per i vasi antichi, e Franzoni ne produsse alcuni di alta qualità , impreziositi da decorazioni in metallo dorato e in materiali preziosi, come l’alabastro. Canova, per conto del Papa, ne selezionò alcuni da dare in dono a Napoleone per l’incoronazione del 1804.
Sempre il Canova incaricò il fratello di Francesco Antonio, Giuseppe di restaurare diciassette sculture del Museo Capitolino, tra cui i celebri Centauri Furietti, il Fauno di rosso, Agrippina sedente e i Figli di Niobe. Si trattava di interventi di manutenzione con piccole integrazioni e patinature, che restituivano alle opere un aspetto unitario.
Giuseppe operò anche come  perito, guadagnandosi la fiducia del cardinale Ercole Consalvi, che gli affidò la valutazione del Sileno con tigre per il Museo Chiaramonti. Collaborò, inoltre, con Vincenzo Pacetti, redigendo alcune stime che riguardavano sculture contese come il Fauno Barberini e la Pallade di Velletri. Fu in contatto con mercanti stranieri come Friedrich Müller, agente del principe Ludwig di Baviera, per cui curò nel 1809 la vendita della statua di Germanico, restaurata con l’aiuto del fratello. L’opera, molto apprezzata per il realismo del drappeggio, fu acquistata per 1650 scudi ed è oggi conservata nella Gliptoteca di Monaco. Negli stessi anni, Giuseppe promosse vendite a clienti tedeschi tanto era apprezzato negli ambienti culturali come il salotto di Caroline e Wilhelm von Humboldt in via Gregoriana. Per la baronessa stuccò le parti rovinate del puteale di San Callisto, oggi conservato nel Museo di Tegel a Berlino.
Nel 1816, i fratelli Franzoni, insieme a Pacetti e ad altri scultori romani, offrirono le proprie antichità alla Camera Apostolica; la commissione, presieduta da Canova, acquistò soltanto un Fauno giacente e un busto femminile per il Museo Chiaramonti. Successivamente, altre opere dei Franzoni furono vendute al duca d’Alba.
La Carloni dedica un capitolo alla figura di Luigi Marconi che, da umile impiegato divenne banchiere e mecenate grazie alle abilità economiche e alle relazioni politiche. La sua collezione a Frascati, curata da Francesco Antonio Franzoni, testimonia il gusto neoclassico e antiquario dell’epoca napoleonica. Nonostante la successiva dispersione delle opere, la raccolta Marconi rimane un esempio significativo di collezionismo borghese romano dell’età di Pio VII.
Dopo la morte di Francesco Antonio, sopraggiunta il 3 marzo 1818, Giuseppe continuò la bottega e nel 1816–1817 partecipò al restauro delle sculture del tempio di Egina per Ludwig di Baviera, in collaborazione con Thorvaldsen, Kauffmann, Pulini e Pinciani. Il suo lavoro, lodato per la precisione ed il rispetto delle parti antiche, gli valse la stima di Thorvaldsen, che nel 1826 gli affidò la realizzazione di una Notte ispirata al celebre bassorilievo del maestro danese.

Il volume si chiude con un’analisi particolareggiata dell’inventario dei beni di Francesco Antonio, che possedeva una quadreria costituita per lo più da dipinti di paesaggio popolati di animali, una piccola biblioteca e una vasta raccolta di marmi, gessi e terrecotte valutata da Francesco Massimiliano Laboureur.
L’ampia e rigorosa ricostruzione della personalità di Franzoni, così come l’autrice la restituisce, rappresenta un tassello importante per la conoscenza della scultura, dell’organizzazione di un atelier, delle logiche del mercato antiquario, delle metodologie di restauro del XVIII secolo. Il documento rintracciato, analizzato e trascritto con precisione diventa, nelle mani dell’autrice, lo strumento per eccellenza, imprescindibile per interpretare in modo scientifico i fatti ed i comportamenti di un’epoca, la cui narrazione è arricchita da un notevole e ricercato apparato iconografico a commento di ogni notizia riportata. Una monografia, dunque, che racchiude anni di studio dedicati dall’autrice al Franzoni e al suo entourage.
Rita RANDOLFIÂ Roma 2 Novembre 2025
