Frida Kahlo, la critica. Tra stampe e ristampe la brutta copia (o fotocopia?) di una mostra.

di Giorgia TERRINONI

Devo premettere che, fino ad ora, mi sono tenuta abbastanza alla larga dalle esposizioni organizzate al Museo Storico della Fanteria di Roma.

In una manciata di tempo: Impressionisti, Andy Warhol, Joan Mirò, Antonio Ligabue, Salvador Dalí, altre che probabilmente mi sfuggono, ora Frida Kahlo…e prossimamente: Pablo Picasso, Paul Gauguin e molto altro! È evidente che si tratta di una programmazione piuttosto ambiziosa per un museo periferico, non perché esso si trovi realmente alla periferia della città – infatti, ha sede accanto alla Basilica di Santa Croce in Gerusalemme – ma perché non ha alcun appeal in quanto museo e/o spazio espositivo per l’arte contemporanea.

Delle mostre sopra elencate io non ne avevo vista nessuna per pregiudizio: se voglio vedere Dalí non vado al Museo della Fanteria. Tra l’altro, lo scorso anno, il Cristo di Port Lligat è stato esposto per diversi mesi nella chiesa di San Marcello al Corso e in pochi ne erano al corrente. Roma funziona così! In ogni caso, mossa da curiosità e pensando che alla peggio avrei fatto un salto nella chiesa adiacente – mi diverte molto passeggiare lungo quel tripudio di superstizione che emana dalle reliquie in essa contenute – sono andata all’anteprima stampa della mostra Frida Kahlo Through the Lens of Nickolas Muray. Ammetto che dopo forse quindici minuti sono scappata a farmi una passeggiata tra le reliquie che, paradossalmente, apparivano meno posticce degli oggetti in mostra!

Durante la presentazione alla stampa, la curatrice Vittoria Mainoldi – credo resident presso questo spazio espositivo il cui statuto è assolutamente fluttuante – ha spiegato che l’esposizione intende esplorare il legame tra Nickolas Muray, fotografo ungherese naturalizzato americano, e la pittrice messicana, ma soprattutto restituire un’immagine della femminilità e della personalità di Frida Kahlo attraverso lo sguardo del fotografo/amico/amante.

Nel comunicato stampa, poi, vien detto che siamo in presenza di una mostra internazionale…e che vorrà dire? Inoltre, Muray viene descritto come uno dei maggiori fotografi della prima metà del XX secolo. Per carità, i suoi ritratti sono anche belli, ma ho idea che siano altri i grandi della fotografia!

Comunque, evitiamo di sottilizzare ulteriormente ed entriamo nel merito.

Partiamo dalle foto che, insieme al documentario sulla tormentata storia d’amore tra Frida e Diego, sono l’unica cosa che si salva. Si tratta di circa 50 scatti in bianco e nero e a colori, realizzati tra il 1937 e il 1946, che ritraggono la pittrice messicana in diverse situazioni, pubbliche e private, rivelando i tratti ampiamente romanzati della sua personalità e mettendo in risalto la sua bellezza volutamente insolita e provocatoria. Le foto provengono tutte dall’archivio di Nickolas Muray ma, per lo più sono delle stampe digitali realizzate dopo il 2000. Quindi non sono vere fotografie, sono ristampe digitali d’immagini analogiche. Non mi voglio impelagare su questioni relative al valore artistico delle ristampe o inerenti all’autenticità ma, forzando un po’ la mano si può dire che le immagini esposte sono poco più che dei poster. E, dal momento che siamo in presenza di una mostra fotografica, si dovrebbe presumere di aver a che fare con immagini originali oppure con ristampe di una certa entità, perché la fotografia ha delle qualità materiali che la valorizzano o, al contrario, la appiattiscono. Tuttavia, possiamo dire che sono delle belle copie!

A questo punto, però, il resto dell’esposizione si dipana solo attraverso brutte copie di nessun valore artistico e, forse, nemmeno documentario. Vi sono le copie – direi quasi che si tratta di fotocopie – delle lettere che Muray e Kahlo si sono scambiati nel corso della loro relazione e le stampe di alcuni dipinti di Frida. Di fronte alle stampe dei dipinti potremmo pensare di aver toccato il fondo, ma siamo ancora molto lontani!

Ricostruzione dello studio dell’artista

Dobbiamo prima passare per la ricostruzione dello studio dell’artista nella Casa Azul, che il comunicato ci dice essere fedele e in scala reale: e in che altro modo dovrebbe essere, infedele e in miniatura? Tra l’altro, lo studio non è in scala reale perché è più piccolo di uno sgabuzzino. È che gli oggetti esposti – libri, pennelli, sedia, ecc. – hanno le loro reali dimensioni. Ma lo studio dell’artista era spazioso e completamente diverso.

Arriviamo poi ad abiti e gioielli: Frida Kahlo era solita indossare l’abito tradizionale Tehuana, tipico della società matriarcale dell’istmo di Tehuantepec. Il Tehuana è composto da tre parti: una grande camicetta quadrata, una gonna lunga e un elaborato copricapo che mostra solo il viso. La reinterpretazione che Kahlo fa dell’abito tradizionale è sia un tributo alle sue origini indigene per parte di madre sia un’affermazione d’inedita femminilità, oltre che un modo per celare/proteggere il suo corpo martoriato.

Riproduzioni di gioielli di Frida Kahlo

Per i gioielli, poi, l’artista aveva una vera e propria passione e ne indossava di molto appariscenti, anche combinandoli tra loro: perle intagliate precolombiane – che collezionava e con le quali realizzava lei stessa delle collane – orecchini a lampadario oppure a cerchio con nappe, numerosi anelli e altri gioielli lavorati a filigrana in stile spagnolo e portoghese. In mostra ci sono alcune copie di abiti e gioielli.

Gli abiti sono noti, in quanto figurano nelle fotografie che ritraggono Frida, ma anche in molti dei suoi quadri. Ora, poteva forse essere interessante esporre dei veri abiti Tehuana per porli a confronto con la reinterpretazione datane dalla pittrice, ma la scelta curatoriale è la stessa per tutti i manufatti presenti in mostra: bisogna rifare ! A questo punto mi sorge spontanea una domanda: dal momento che si tratta solo di rifare, non si poteva almeno lavorare a rifare bene? Gli abiti sono più brutti e più dozzinali di un vestito da carnevale comprato su Amazon per pochi euro. Quanto ai gioielli, sulle bancarelle di via dei Giubbonari se ne trovano di meglio confezionati.

Evito di soffermarmi sui contenuti multimediali e sulla sezione dedicata ai francobolli. Un’ultima nota va all’allestimento che scimmiotta l’eccesso cromatico che caratterizza l’iconografia messicana e anche quella che ruota intorno a Frida Kahlo. Ma lo fa senza cultura, senza sensibilità, senza penetrare l’identità di un paese in cui la bellezza è tale anche perché è violenta. E così si finisce per dipingere una delle sale color salmone!

Come dicevo sono scappata. Ho preso la metro e mi sono ritrovata su un treno il cui interno era completamente rivestito di pubblicità sulla mostra. Ora, questo trambusto pubblicitario mi ha fatto pensare che evidentemente sono stati investiti abbastanza denari per pensare, realizzare e promuovere l’esposizione. Il biglietto è tutto sommato accessibile e sento spesso persone che riferiscono di mostre viste al Museo della Fanteria. Non ho idea di quali siano i numeri, in termini di visitatori e di biglietti emessi, ma immagino che qualche incasso le mostre lo portino. E, con una certa amarezza anche in qualità di professionista dell’arte, mi vien da pensare che sono davvero dei soldi mal spesi, sia quelli della macchina organizzativa – che è in parte statale – sia quelli dei visitatori.

Da alcuni anni le mostre a carattere etnografico, antropologico e anche documentario associate all’arte vanno abbastanza di moda. Si veda, tanto per fare un esempio, la programmazione del Mucem di Marsiglia. Al Mudec di Milano nel 2018 fu organizzata una bellissima mostra su Frida Kahlo, il cui obiettivo era proprio quello di evitare ricostruzioni forzate, interpretazioni sistematiche o letture biografiche troppo comode. Non dico di studiare, ma almeno di dare un’occhiata a quel che viene fatto bene nel mondo. Altrimenti bisognerebbe seguire il suggerimento di Wittgenstein, perché «su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere».

Giorgia TERRINONI  Roma 16 Marzo 2025