di Silvia DANESI SQUARZINA
(Ordinario emerito università Sapienza)
Dedico questo breve scritto alla cara memoria di Licia Borrelli Vlad, di cui fui allieva presso l’ICR
Il catalogo della mostra [1] ha una introduzione di Alessandro Giuli, Ministro della Cultura, a cui segue uno scritto del Direttore di Palazzo Barberini, Thomas Clement Salomon, che enuncia il suo programma e che si è scelto il ruolo di ottimo regista dell’iniziativa, delegando le curatrici ai contenuti scientifici. Un comportamento in linea con i grandi direttori di musei europei o americani. Con tempismo impeccabile Salomon ha restaurato la facciata di Palazzo Barberini e ha scelto quattro belle e grandi sale a piano terreno per esporre i 24 dipinti in mostra, sperando di rendere agevole il flusso del pubblico, di cui era facile prevedere l’altissimo numero e che si è rivelato straripante. Il titolo della mostra, Caravaggio 2025, da lui voluto, sottolinea la concomitanza con l’anno giubilare in corso.


Salomon aveva, in prima battuta, saputo sollecitare la curiosità del pubblico presentando uno stupendo dipinto (cat. 9; figg. 1 , 3), mai esposto, segnalato da Roberto Longhi nel 1963 come Il vero “Maffeo Barberini” del Caravaggio [2], un esempio di altissimo livello della ritrattistica di Caravaggio, che, come dice Bellori, comincia a «ingagliardire gli scuri».
Non abbiamo la certezza assoluta che il personaggio effigiato sia Maffeo, il quale fra l’altro aveva gli occhi chiari, come attesta un dipinto a olio di mano di Bernini conservato a Palazzo Barberini [3], ma questo non diminuisce la bellezza della tela.

Ricordo l’emozione con cui vidi il magnifico ritratto presso l’attuale proprietario, grande mercante d’arte, moltissimi anni fa, insieme a Mina Gregori. Quanto alla individuazione del personaggio raffigurato è utile confrontare il volto del presunto Maffeo longhiano con un ritratto marmoreo di Benedetto Giustiniani nella chiesa della Minerva, lato destro, cappella della SS. Annunziata (fig. 2). La fronte, l’ovale del viso, le labbra sono di una somiglianza parlante. Quanto agli occhi, sappiamo da un ritratto attribuito a Bernardo Castello in collezione De Vanna (Bari) [4] che erano marroni. La prima menzione, di non poco interesse, di un ritratto del cardinale Benedetto Giustiniani di mano del Caravaggio si trova nell’«Entrata della Guardarobba» di Benedetto Giustiniani, 1600-1611 ca., n. 98: «Un quadro del Cardinale Giustiniani naturale a sedere di mano del Caravagio. no I» [5], registrazione di pugno del guardarobiere Alfonso Amarotti, post 12 settembre 1601. I confronti con gli inventari successivi sono riportati nella stessa pagina del mio volume e sono i seguenti.
Inventario post mortem del cardinale Benedetto Giustiniani, 1621, n. 122: «un retracto del Signor Cardinale facto dal Caravagio, senza cornice, in grande».
Inventario post mortem del marchese Vincenzo Giustiniani, 1638, II parte, n. 13:
«Un quadro d’una mezza figura, e più col ritratto della buona memoria del Signor Cardinale Benedetto Iustiniani dipinto in tela d’Imperatore di mano di Michelangelo da Caravaggio».
La somma di quanto dicono queste tre menzioni è estremamente esplicita e significativa per fare un confronto con lo splendido ritratto attualmente identificato come Maffeo Barberini [6]. Si noti che la dimensione è la stessa, ossia tela d’Imperatore. Benedetto Giustiniani è chierico di Camera dal 1585, inoltre cardinale dal 16 dicembre 1586, per nomina di Sisto V.
Resta insomma da indagare più a fondo l’attività ritrattistica di Caravaggio, inesplorata soprattutto nella fase giovanile: alcuni nomi (ad esempio il Ritratto di Marsilia Sicca [7]) restituiti dagli inventari restano incerti, anche se sostenuti da documenti.
Inoltre, per la fase giovanile è bene riparlare del Sant’Agostino Giustiniani [8] (fig. 4): premesso che quando un dipinto è menzionato in un inventario è molto difficile essere sicuri che il quadro descritto sia quello che si sta studiando, nel caso del Sant’Agostino, invece, quanto è scritto sulla pergamena attaccata sul retro del dipinto (fig. 5), al momento del ritrovamento, ci consente una individuazione senza dubbio alcuno.


Nessuno poteva conoscere queste notizie: il personaggio che deteneva il dipinto, venduto a uno spagnolo, era il marchese Pantaleo Vincenzo Giustiniani Recanelli, che nel 1857 era divenuto, dopo una lunga causa, l’erede legale dei resti della collezione Giustiniani e che si era insediato nel Palazzo.
Infatti, le parole scritte sulla piccola pergamena, sicuramente dalla mano del collezionista spagnolo che acquistò il Sant’Agostino, sono le seguenti: «Procedencia del Marqués Recanelli en la calle del gobierno». Queste sono due notizie che nessuno poteva avere: innanzitutto il nome del marchese Giustiniani Recanelli e inoltre l’antico nome della strada in cui si trovava Palazzo Giustiniani, calle del Gobierno, oggi via della Dogana Vecchia. I due studiosi che contrastarono questa individuazione, quando uscì sul Sole 24 Ore (12 giugno 2011), non fecero attenzione ai documenti. Il dipinto non si presentava in condizioni ottime in quanto era stato certamente trattato dalla restauratrice Margherita Bernini che usava quella che lei chiamava la “magica manteca”, un beverone a base di chiara d’uovo; la restauratrice era entrata in contatto con la famiglia Giustiniani attraverso Pietro Angeletti, estensore dell’inventario della collezione del 1793 [9].
Francesca Cappelletti
Le due curatrici, Francesca Cappelletti e Maria Cristina Terzaghi, si sono divise così le tematiche che sorreggono la mostra all’interno del catalogo. Francesca (di cui sono noti i contributi su Paul Bril e sui paesaggisti), direttrice della Galleria Borghese, che collabora istituzionalmente alla esposizione, nel suo breve saggio tratta con padronanza i maggiori collezionisti e la committenza di alto livello sociale che comprava opere del Merisi: il cardinale Benedetto [10] e il marchese Vincenzo Giustiniani [11], la famiglia Mattei [12] e il cardinale Francesco Maria del Monte, alla cui morte numerose tele di Caravaggio passarono, in vario modo, ad Antonio Barberini [13]. Va ricordata qui la personalità rapace di Scipione Borghese, il quale più che comprare amava carpire, vedi il Bacchino malato (cat. 1; vedi oltre, fig. 11), prima tela del percorso espositivo, ritenuto autoritratto dell’artista, proveniente (insieme al Ragazzo con canestra di frutta, anch’esso della Galleria Borghese) dal sequestro (1607) dei dipinti appartenenti al Cavalier d’Arpino, sequestro ordinato da Paolo V Borghese che poi ne fece dono al cardinal nepote Scipione [14]. Si noti che la Cappelletti non si esprime sull’Ecce Homo (cat. 20), caldeggiato dalla Terzaghi.
Maria Cristina Terzaghi
Maria Cristina Terzaghi, studiosa di collezionismo con varie implicazioni, anche verso la vita teatrale, tratta nel suo ottimo saggio la committenza “bassa”, quella di botteghe, mercanti, pittori e amici, secondo una modalità di indagare la vicenda caravaggesca e l’ambiente culturale romano entro cui si muoveva il Merisi che è stata iniziata dalla mostra del 2011 presso l’Archivio di Stato di Roma, intitolata Caravaggio a Roma. Una vita dal vero [15]. Inoltre, la Terzaghi presenta un Ecce Homo (vedi scheda, cat. 20) del 1606-1607 circa / 1609 circa, che attribuisce a Caravaggio. Una recente recensione della mostra [16] lamenta che non è stata fatta una sufficiente riflessione e cita alcuni pareri negativi: Manzitti (2024), Vannugli (che risale al 2021), nonché Spinosa. Alessandro Zuccari mi conferma di essere favorevole alla attribuzione.
Excursus
Ma è indispensabile un excursus per accennare alla biografia di Caravaggio, come è andata chiarendosi negli studi, sempre più voluminosi. Dopo un oblio durato fino al Novecento il Merisi (1571-1610) viene riscoperto e amato. Recentemente è stato appurato che la chiesa campestre dei santi Pietro e Paolo degli Umiliati tra Caravaggio e Vidalengo, in cui si sposarono, il 14 gennaio 1571, i genitori del Merisi, Fermo Merisi (in seconde nozze) e Lucia Aratori, apparteneva in commenda a un personaggio di autorevole statura, lo zio dei due futuri maggiori committenti di Caravaggio, ossia il cardinale Vincenzo Giustiniani Recanelli (1519-1582), generale dei domenicani, artefice delle grandissime fortune finanziarie, nella Curia romana, del cognato Giuseppe, marito della sorella Girolama, e della ascesa dei loro due figli, il cardinale Benedetto e il marchese Vincenzo Giustiniani. Nel palazzo in Roma, via delle Coppelle, appartenuto appunto al cardinale Vincenzo Giustiniani Recanelli, ebbero luogo varie operazioni finanziarie cospicue, frutto delle rendite di beni in località Caravaggio. Recanelli lasciò poi le sue prerogative al cardinale Benedetto Giustiniani.
Tutto questo retrodata notevolmente il rapporto del pittore con la famiglia dei suoi due grandi committenti [17]. Inoltre il fiduciario della chiesa, nonché testimone presente al matrimonio dei genitori del Merisi [18], era il marchese Francesco I Sforza, legato alla Domus degli Umiliati. Francesco era il marito di Costanza Colonna, grande protettrice del pittore per tutta la vita. Dal vasto lavoro documentario svolto da Mario Comincini emerge anche un nome molto interessante, che getta nuova luce su un dipinto menzionato negli inventari Giustiniani, il già citato Ritratto di Marsilia Sicca [19] (il riferimento inventariale tuttavia stranamente viene taciuto dallo studioso): fra le notizie riguardanti lo scapestrato Claudio Bernadiggio, troviamo Marsibilia Sicca [20].
Da fanciulla Marsibilia – Marsilia, appartenente alla prestigiosa famiglia Secco, venne messa a palazzo e fu ancella della marchesa Violante Bentivoglio, moglie del marchese Giovanni Paolo Sforza, la quale le assegnò una dote di 300 scudi. Sposò poi Giovanni Battista Gennari, notaio, e infine, rimasta vedova, sposò Claudio Bernadiggio, il 10 gennaio 1594. Il Merisi potrebbe quindi averla ritratta quando era ancella degli Sforza.
Personaggio collerico che tuttavia si faceva volere bene, il pittore venne sorretto durante la sua infanzia e fino alla tragica morte, da una figura femminile che lo appoggiava e lo proteggeva, Costanza Colonna Sforza, i cui figli venivano allevati dalla sorella della madre di Caravaggio, Margherita Aratori, alla quale la Colonna fece dono di una casa:
«Havendo noi fatta donatione libera, et franca tra vivi à madonna Margherita delli Aratori Nutrice delli Illustrissimi nostri figliuoli di una Casa situata nel luoco di Farra iurisdittione di Caravaggio […]» [21]).
Una nuova considerazione, all’interno di questo excursus, è la seguente: come poteva una donna di paese, quale era la madre di Caravaggio, conoscere la grande bottega di Simone Peterzano, a cui, con contratto del 6 aprile 1584, rinvenuto da Nikolaus Pevsner [22], affidava il figlio, enfant prodige, per quattro anni (1584-1588), con gravosa retta (24 scudi d’oro all’anno, in due rate semestrali, per un totale di 96 scudi d’oro), che la costrinse a vendere delle proprietà di famiglia (aprendo forse così dissidi patrimoniali fra i fratelli).
Avanzo qui una supposizione: forse attraverso Carlo Bascapè, confessore di Costanza Colonna [23] e pertanto importante anello di collegamento, ritengo venga suggerito il nome di Simone Peterzano. Vediamo il severo confessore della Colonna effigiato in un telero del Peterzano, che si trova a Milano nella chiesa barnabita dei santi Paolo e Barnaba, raffigurante il Miracolo dei santi Paolo e Barnaba a Listra, 1573 (dipinto che Roberto Longhi considerava fortemente precaravaggesco; fig. 6) [24].

Il ritratto del vescovo Carlo Bascapè è accanto (guancia contro guancia) all’autoritratto di Simone Peterzano, come a segnalare una precisa amicizia tra i due (figg. 7, 8, 9).

Una volta trasferitosi a Milano da Venezia, Peterzano aveva abbandonato la sua fedeltà a Tiziano e si caratterizzava per una totale adesione al rigore di san Carlo Borromeo, di cui Bascapè era segretario [25] e fu poi biografo [26]. Di estremo interesse la pagina in cui Bascapè descrive la teatralizzazione delle cerimonie religiose [27]. Carlo Bascapè si rivela essere personaggio fondamentale.


Keith Christiansen
Il saggio di Keith Christiansen, che apre il lavoro storico-critico del volume, evidenziando come la figura del Merisi diventi spina dorsale degli studi di storia dell’arte italiana, sottolinea il silenzio che avvolge l’opera di Caravaggio fino agli studi di Roberto Longhi a partire dal 1913 [28]. Seppure vale la pena di ricordare che gli articoli di Lionello Venturi su Caravaggio uscirono dal 1909 [29]. Secondo Christiansen, Bernard Berenson e Roger Fry avevano un atteggiamento riduttivo e negativo. La Mostra del Caravaggio e dei caravaggeschi che si inaugurò a Milano, Palazzo Reale, nel 1951 apriva una nuova dimensione [30]. Lionello Venturi, che aveva collaborato a lungo alla scelta delle opere in mostra, si dissociò alla fine e tolse la sua firma. Il conflitto era soprattutto circa la Incredulità di San Tommaso (Messina, Museo Nazionale), che Roberto Longhi attribuiva a Caravaggio, e Lionello Venturi a Alonso Rodriguez. Si creava sempre più un dissapore fra Roma e Firenze, le cui vicende sono ben note, e che segnava negativamente la storiografia artistica italiana, impoverendola in sterili episodi conflittuali.
Christiansen evoca un episodio importante quale la mostra del 1985, New York-Napoli, The Age of Caravaggio, curata da Mina Gregori, Luigi Salerno e Richard E. Spear [31], che apriva una pagina nuova. La grande studiosa contribuì a definire meglio il catalogo di Caravaggio, confermandogli l’attribuzione di Giuliana Zandri [32] dell’affresco nel Casino Ludovisi, commissionato dal cardinal Del Monte, attribuendogli il Cavadenti (Palazzo Pitti, Galleria Palatina), nonché altri capolavori. Nata a Cremona, la sua origine padana la portò a indagare il peso che avevano le opere dei Campi per Caravaggio.
Fu lei che aprì la strada alle indagini diagnostiche, insieme a Roberta Lapucci, con la mostra Michelangelo Merisi da Caravaggio. Come nascono i capolavori che si tenne tra Firenze e Roma nel 1991-1992 [33] (strada poi seguita e ampliata da Rossella Vodret con la mostra Dentro Caravaggio di Milano del 2017-2018 [34], e con il suo saggio nel catalogo di questa mostra). E, soprattutto, cosa importante per tutti noi, Mina Gregori sanò il conflitto Roma-Firenze. Ricordo i suoi ottimi rapporti con Maurizio Calvesi e con me (non posso dimenticare la sua presenza affettuosa e vigile il giorno dell’inaugurazione, il 24 gennaio 2001 in Palazzo Giustiniani, della mostra da me curata Caravaggio e i Giustiniani [35]).
Scrive Christiansen, con mano sicura, che nell’arte di Caravaggio vediamo «un senso profondo della dimensione tragica della vita» e nel suo ottimo saggio trovano spazio aspetti, bibliografia e immagini che non potevano rientrare nel resto del catalogo, completandone la prospettiva storico-critica.
Giuseppe Porzio
Anche a Giuseppe Porzio, come a Christiansen, viene affidato il compito di trattare opere fondamentali che non sono in mostra: in primo luogo quelle del primo soggiorno napoletano (1606-1607), fra cui un assoluto capolavoro come le Sette opere di misericordia e alcune opere successive (fra cui Flagellazione di Cristo di Capodimonte, cat. 21, e Crocifissione di sant’Andrea di Cleveland; Porzio ritiene appartenga a questa fase anche la Salomè con la testa di san Giovanni Battista di Londra). Inoltre tratta altre opere appartenenti ai soggiorni maltese [36] e siciliano (1607-1609); e infine le vicende artistiche dell’ultimo periodo napoletano (1609-1610), che precede la morte del Merisi, in cui si colloca forse l’esecuzione delle tre tele perdute, tra cui una Resurrezione, per la cappella Fenaroli nella chiesa di sant’Anna dei Lombardi.
Sono anni febbrili quelli descritti da Porzio, in cui si incentrano vari dipinti. Emergono due tele di estrema intensità che chiudono il percorso espositivo: Davide con la testa di Golia (cat. 19; vedi oltre, fig. 18) e il Martirio di sant’Orsola (cat. 24; vedi oltre, fig. 19).
Il saggio si chiude, scrive l’autore, per mancanza di elementi certi su questa fase molto nebbiosa [37]. Un’ipotesi proponibile può essere quella che segue.
Caravaggio si imbarcò a Napoli e approdò a Palo, dove venne bloccato in stato di fermo e abbandonato dalla feluca. Il fatale viaggio del Merisi, pare a piedi, da Palo verso l’Argentario potrebbe avere avuto come motivo alcune proprietà, tuttora della famiglia Giustiniani, in quella zona, oppure Caravaggio sapeva, secondo quanto appurato da un recente studio dal suggestivo titolo Polifonia di storie [38], che la feluca faceva un servizio di spola regolare fra Napoli e Porto Ercole, e quindi è lì che lui sperava di riafferrarla, dato che era carica di suoi dipinti che dovevano ottenere il perdono papale, ma il ricongiungimento rimase senza successo: la feluca, mentre Caravaggio moriva, tornava a Napoli riportando indietro le sue opere che finirono, per fortuna, nelle mani di Costanza Colonna nel Palazzo Cellamare, compreso il David con la testa di Golia (un Golia autoritratto del Merisi, destinato a Scipione Borghese come prezzo del perdono), esposto ora in mostra come prestito della Galleria Borghese (cat. 19; vedi oltre, fig. 18).
Anche il pagamento al corniciaio Annibale Durante attesta che il David e Golia di Caravaggio entrò in quel frangente nella collezione di Scipione. Le notizie più attendibili circa il destino delle tele caravaggesche rimaste sulla feluca le abbiamo dalla Nunziatura Apostolica di Napoli attraverso Deodato Gentile, vescovo di Caserta, il quale fece recuperare a Scipione le opere a lui destinate. Deodato scrisse a Scipione il 29 luglio 1610 che
«la felluca in q[u]el romore tiratasi in alto mare se ne ritornò a Napoli […] riportò le robbe restateli in casa della S.ra Marchesa di Caravaggio» [39].
Alessandro Zuccari
Alessandro Zuccari, con il linguaggio limpido e misurato che gli è peculiare, riassume la sua posizione nel suo saggio Caravaggio e la spiritualità del suo tempo, posizione che fu anche quella di Maurizio Calvesi [40] e di Giulio Carlo Argan [41]. Rileggendo l’introduzione di Roberto Longhi alla famosa mostra del 1951 a Milano viene da pensare che il grande maestro dei “conoscitori” avesse una posizione affine, anche se con maggiore distacco:
«Però, quando si avverta la disperata serietà morale della meditazione caravaggesca su temi di ben più grave momento, come la religione e la storia, chi non sarà tratto a pensare che quella sua carica di rivoluzione permanente non venisse di più in alto e di più lontano?» [42].
Questa linea di pensiero ebbe come acceso oppositore Ferdinando Bologna [43], ma ormai nessuno dubita più che vada smontato il mito postromantico di “pittore maledetto” e ancora più la distanza inconciliabile col naturalismo dei novatores [44], e che l’artista vada restituito e compreso nella traccia innanzitutto del soggetto e della collocazione nelle maggiori chiese delle sue opere, e che l’educazione da lui ricevuta in famiglia fosse di sincera, normale religiosità. Si vedano il fratello Giovanni Battista sacerdote, l’orientamento borromaico espresso nei dipinti degli anni milanesi dal suo maestro Simone Peterzano, la sua committenza ecclesiastica e infine i suoi comportamenti, quali la sua presenza nella cerimonia delle Quarantore [45] e la prova ben chiara che nella Pasqua del 1605 riceveva la comunione, vedi negli Stati delle Anime di San Nicola ai Prefetti (Vicariato di Roma) [46].
Michelangelo pittore abitava infatti in vicolo san Biaggio, ora via del Divino Amore, adiacente a via della Lupa, dall’ 8 maggio 1604 col garzone Francesco nella casa di Prudenzia Bruni, di proprietà di Laerzio Cherubini, che gli commissionava la Morte della Vergine. Il Merisi volle modificare il soffitto della sala e si impegnò nel contratto al ripristino. Negli ultimi mesi della locazione il Merisi non pagò l’affitto, e quindi il verbale di sfratto ci dà notizie degli oggetti che gli appartenevano [47].
Si aggiunga infine il ruolo che Caravaggio sovente assumeva, ruolo che io chiamerei di tragico, consapevole testimone, in scene di uccisione di santi, come quella di san Matteo nella cappella Contarelli in san Luigi dei Francesi, o come l’immagine della Presa di Cristo (committenza Mattei) con la lampada alzata a evidenziare i volti. Come scrive anche Gianni Papi nelle pagine che seguono nel catalogo della mostra.
Altri importanti temi sfiorati dal saggio di Zuccari sono il pauperismo francescano e l’ambiente dell’Oratorio dei Filippini.
La scuola romana mostra una unitarietà interpretativa nelle tematiche di Caravaggio. Zuccari cita Argan: nella Vocazione di san Matteo (chiesa di san Luigi dei Francesi):
«Con Cristo e Pietro entra una lama di luce: investe le figure, accende nel buio le stoffe, le piume, i volti. È un raggio della luce fisica, ma è anche un raggio della grazia: la realtà è svelata e bruciata dalla luce improvvisa» [48].
Non si dimentichi come l’importanza data ai documenti d’archivio da Adolfo e Lionello Venturi viene oggi testimoniata dall’immenso lavoro di Stefania Macioce che ha messo a disposizione degli studiosi le trascrizioni [49].
Gianni Papi
Estremamente interessante è la relazione di Gianni Papi, Note e proposte sulla ritrattistica di Caravaggio. Tale attività secondo Bellori era iniziata già negli anni trascorsi in Lombardia, e dipingere “teste” consentì al Merisi di sopravvivere alla povertà dei primi anni romani, quando egli frequentava le botteghe di Lorenzo Carli e Antiveduto Gramatica. Scrive Papi:
«Il naturalismo di Caravaggio […] rifugge da ogni idealizzazione dei modelli […] dissemina nei suoi dipinti molti autoritratti, ma anche volti ben riconoscibili di persone prossime alla sua esistenza».
E infatti la prima opera in mostra, il Bacchino malato (cat. 1; vedi oltre, fig. 11) proveniente dal sequestro Arpino, quadro precocemente descritto dal Mancini («[…] fa un Bacco bellissimo, lo tiene Costantino [Spada] ed era sbarbato»), è un autoritratto del Merisi.
Il prezioso lavoro fatto da Papi è la individuazione e la elencazione degli autoritratti e anche dei modelli riconoscibili nelle opere che ci sono pervenute. Anche Tiziano, anche Peterzano amavano autoritrarsi, ma in Caravaggio tale rituale assurge al valore di una sua intensa testimonianza di fronte ai contenuti della scena raffigurata. Secondo Papi sono tutti autoritratti i volti che vediamo: quello al centro nel Concerto di giovani in mostra (cat. 6), nel Giove, e anche nel Nettuno e nel Plutone nudi dipinti sul soffitto del camerino già Del Monte, poi Boncompagni Ludovisi, nel San Francesco (Ottavio Costa, cat. 8).
Lascio al lettore la interessantissima elencazione che contribuisce con forza ai significati profondi della mostra. Basti sottolineare che il pallore mortale della Sant’Orsola (cat. 24; vedi oltre, fig. 19) trafitta dal re degli Unni, crudele pretendente, è uguale al pallore del volto di Caravaggio che apre la bocca in un grido di dolore. Sia detto anche che la prima ad attribuire al Merisi questo meraviglioso e tormentato dipinto fu nel 1975 Mina Gregori [50], di cui Papi è allievo, mentre Vincenzo Pacelli trovò i documenti e li pubblicò nel 1980 insieme a Ferdinando Bologna [51].
Francesca Curti
L’ottimo saggio di Francesca Curti, Le donne ritratte da Caravaggio nei documenti dell’epoca, fa finalmente ordine nei numerosi nomi di donna che ruotano attorno a Caravaggio. Cortigiane, curiali, modelle per i suoi dipinti. I dati nuovi rinvenuti nei documenti d’archivio vengono puntualmente confrontati con la bibliografia esistente, con assoluta precisione. Leggo questo saggio con occhi particolarmente affettuosi, dato che Francesca ha concluso con me alla Sapienza sia i cinque anni della laurea in Storia dell’arte, sia il Dottorato. Apprezzata dai colleghi, è molto legata al gruppo dell’Archivio di Stato a Roma.

Il nome più noto che appare nel saggio è quello di Fillide Melandroni, che corrisponde a un ritratto di fanciulla dai tratti delicati e con pettinatura da cortigiana (i documenti ci restituiscono un carattere molto vivace) di estrema qualità, purtroppo perduto, di cui pubblicai una bella foto a colori (fig. 10), tratta da una rivista tedesca di anteguerra, nel catalogo della mostra Caravaggio e i Giustiniani (Roma, Palazzo Giustiniani – Berlino, Altes Museum, 2001) [52].
Un ritratto di cortigiana chiamata Fillide appare in un documento testamentario reso noto dal grande Don Sandro Corradini [53], da cui si evincono nessi del Ritratto di Fillide con il letterato Giulio Strozzi, che restò poi in rapporti con la famiglia Melandroni anche dopo la morte di Fillide, poeta di una certa levatura e amico di Giovanni Battista Marino (segnalo una lettera in cui il Cavalier Marino pregava l’amico Giulio Strozzi di fargli avere un suo ritratto «di buona mano» da inserire nel suo museo «tra i simulacri immortali de’ più famosi uomini di questo secolo», in cambio di un ritratto che Marino aveva già donato all’amico nel momento della sua partenza da Roma [54]).
Per quanto riguarda le frequentazioni di Fillide si noti il nome di Ulisse Masetti, “spenditore” del cardinale Benedetto Giustiniani. Va aggiunto che nella chiesa di santa Maria della Scala vi era una organizzazione di protezione e riabilitazione delle cortigiane di cui il cardinale Benedetto Giustiniani era promotore. Nella collezione Giustiniani troviamo un Ritratto di Fillide [55], ossia probabilmente quello “pagato” da Giulio Strozzi. Di non poco interesse notare che forse i due fratelli Giustiniani, committenti di opere somme come l’Incredulità di san Tommaso o come l’Amore vincitore, dopo la fuga da Roma del Merisi ne compravano opere sul mercato dell’arte. Tali opere, non direttamente commissionate all’artista, recano talvolta l’espressione «si crede», precisazione che forse risaliva a un mitico inventario redatto nel 1631 (data in cui Andrea Giustiniani viene nominato erede), che fece da modello all’inventario del 1638. Tra queste opere acquistate sul mercato aggiungiamo Marsilia Sicca [56], una cortigiana famosa, l’Avvocato Prospero Farinacci [57] e qualcos’altro, che si devono senz’altro a un conoscitore quale era il marchese Vincenzo Giustiniani.
Oltre a Fillide, su cui permane un piccolo margine di incertezza, segue, nel saggio di Francesca Curti, una interessante lista di cortigiane e curiali, nomi con cui si designava un livello un po’ più alto di una semplice prostituta. Fra questi nomi emerge, in quanto diversa, una ragazza onesta di nome Lena, che posava come modella per Caravaggio, col solo motivo di guadagnare qualche soldo e ben custodita dalla madre Elena, in difesa della cui rispettabilità ci risulta l’ennesimo intervento impetuoso di Caravaggio. Interessante anche trovare il nome di Cassiano dal Pozzo, grande intellettuale e autore del Museo Cartaceo, come acquirente di arredi di proprietà di Domenica Calvi detta Menicuccia, una delle fanciulle trattate da Francesca Curti.
Claudio Strinati
Claudio Strinati, avendo curato nel 2010 un’importante mostra su Caravaggio che presentò ben 26 dipinti del Merisi negli splendidi spazi delle Scuderie del Quirinale, con la direzione di Antonio Paolucci [58], è in grado di offrire un riepilogo dell’ascesa dell’interesse verso Caravaggio. Per l’Italia, ovviamente Strinati esamina la mostra firmata da Roberto Longhi del 1951 [59] e va anche indietro nel tempo, verificando gli studi anteriori dello stesso Longhi e di altri studiosi, a partire da un grande storico dell’arte come Hermann Voss, che molto si è occupato del Merisi all’interno della pittura barocca a Roma [60]. Tutti eventi da inquadrare con il fenomeno del naturalismo che coincide col termine caravaggismo, e quindi un insieme di evoluzioni sia del gusto del pubblico sia della storiografia.
Strinati sottolinea le affermazioni di Voss, per il quale Naturalismus significa «dipingere con il modello in scrupolosa aderenza con la immediata percezione della realtà» (in linea con quanto osservava poi Longhi in merito all’arrivo nell’Urbe del Merisi «con quel diavolo in corpo della pittura naturale» [61]), quindi tornando a dichiarazioni rilasciate da Caravaggio stesso: «un bravo pittore è quello che sa dipingere bene le cose della realtà», e i discepoli non sono tali nel senso accademico. E infatti, aggiunge Strinati, pare che Merisi non avesse allievi nel senso proprio della parola.
È da queste premesse che parte la disamina delle fasi successive degli studi, la nascita della rivista «Paragone» fondata da Roberto Longhi, e la nascita della rivista «Commentari», espressione dell’Università di Roma.
Via via gli studi in Italia e all’estero affrontano i diversi livelli di lettura da usare per Caravaggio: i problemi attributivi, l’indagine sui documenti, lo studio delle diverse fasi espressive, l’esecuzione delle copie, e le indagini di tipo tecnico coadiuvate dagli strumenti offerti dalla modernità. Strinati ricorda infine tutte le strade percorse per indagare l’opera di un genio, chiudendo la sua relazione con la menzione della già citata mostra a cura di Mina Gregori, Michelangelo Merisi da Caravaggio. Come nascono i capolavori (Firenze e Roma, 1991-1992).
Stefano Causa
Nel suo vivace saggio, Stefano Causa cita Longhi e definisce Caravaggio un pittore umano e non umanistico. Dopo cenni introduttivi, Causa, agilmente, introduce l’attenzione ricevuta dal Merisi dal mondo del cinema, a partire dal Caravaggio, il pittore maledetto di Goffredo Alessandrini interpretato da Amedeo Nazzari, 1941, e via dicendo, fino alle parole di Pierpaolo Pasolini, senza trascurare il neorealismo. Quando si inaugura la mostra del 1951, firmata da Roberto Longhi, al cinema escono Bellissima di Luchino Visconti e Miracolo a Milano di De Sica, mentre la rivista «Paragone» diviene tribuna privilegiata.
Causa, estremamente favorevole alla proposta di Maria Cristina Terzaghi di aggiungere alle opere certe di Caravaggio l’Ecce homo di Madrid (Icon Trust), conclude usando un titolo di Alessandro Zuccari e definendo “un cantiere” quanto viene fatto e scritto attualmente su Caravaggio.
Rossella Vodret
Erede degli studi di Mina Gregori sulla diagnostica, Rossella Vodret offre al lettore del catalogo un panorama completo delle indagini sempre più approfondite sulle opere d’arte e su Caravaggio in particolare. Nata nell’Ottocento, la diagnostica artistica offre risultati sempre più importanti per la conoscenza delle tecniche e dei materiali usati dal pittore, a partire dalla trama della tela, che poteva avere tessiture e intrecci di varie modalità. Gli strumenti di indagine provenivano in parte dagli studi medici, e quindi dalle radiografie, e inoltre dall’uso di una strumentazione sempre più complessa e sempre più ricca di risposte: macro fotografie, micro fotografie, fotografie, luce radente, fino ai raggi X.
Leggendo il saggio della Vodret si ricava l’impressione delle enormi possibilità oggi offerte allo studioso dalla diagnostica, e nel caso di Caravaggio si trae l’impressione che egli sapeva dominare e scegliere gli strumenti più adatti ai suoi obiettivi, dal tipo di tela alla qualità della preparazione per gli effetti che voleva ottenere. Quindi la diagnostica non è fine a sé stessa, ma ci conduce a capire importanti sfumature di comportamento dell’artista.
Dopo i due volumi Caravaggio opere a Roma. Tecnica e stile del 2016 [62] relativi a 22 capolavori romani, i risultati maggiori delle ricerche condotte da Rossella Vodret hanno avuto come esito ulteriore la mostra e il catalogo Dentro Caravaggio [63], Milano, Palazzo Reale del 2017-2018 (sponsor la fondazione Bracco) in cui ben ventuno dipinti erano esposti, accompagnati da materiali che consentivano al visitatore di entrare in un mondo para scientifico e comprenderne le regole. Questo vasto materiale divenne poi oggetto di un volume monografico stampato nel 2021 dal titolo Caravaggio 1571-1610 [64]. Le opere sono state indagate e comparate sotto tutti i punti di vista, parallelamente all’indagine storico-critica.
Sono ricordati in questo saggio grandi studiosi come Lionello Venturi, Cesare Brandi, Denis Mahon che avviarono, da veri pionieri, le prime indagini radiografiche della cappella Contarelli e dei capolavori del Merisi. Il saggio è estremamente articolato e delinea i punti cruciali rilevanti, quindi oltre a dare la situazione degli studi vengono elencati i temi fondamentali, con le varie fasi cronologiche: Roma (1596-1606), poi la fuga di Caravaggio nei feudi Colonna (estate 1606), il primo soggiorno a Napoli (fine settembre / inizio ottobre 1606 – giugno 1607), Malta (giugno / luglio 1607 – ottobre 1608), la Sicilia (ottobre 1608 – ottobre / novembre 1609) e infine il secondo soggiorno napoletano (autunno 1609 – giugno / luglio 1610). I temi fondamentali sono i supporti, le preparazioni, gli abbozzi, le incisioni, le immagini nascoste.
Un lavoro di dimensione estremamente vasta che si avvale di un costante dialogo con studiosi come Keith Christiansen, della consulenza di specialisti come Claudio Falcucci, e che dimostra soprattutto una padronanza estrema acquisita dalla studiosa dopo anni di lavoro, e una modalità di approfondire e conoscere il modo di lavorare del Merisi facendoci notare una continua evoluzione.
Alcuni dei dipinti esposti in mostra
Per concludere, accenno a qualche spunto, a commento dei prestigiosi prestiti, che mi pare meriti attenzione. Un obiettivo della mostra è sottolineare il rapporto fra le opere esposte e Palazzo Barberini: questo viene raggiunto attraverso numerose tele che erano nella collezione del cardinal Del Monte presso il Giardino di Ripetta (fino alla sua morte, 1626, poi ereditate dai nipoti Uguccione e Alessandro Del Monte e vendute), e successivamente acquistate da Antonio Barberini nel 1628 durante la vendita all’incanto svoltasi in varie fasi, come ricostruito da W. Chandler Kirwin [65]. Inoltre si aggiunga che Loredana Lorizzo [66], grazie a nuovi documenti emersi dall’Archivio del Banco di Santo Spirito, in Roma, segnala numerosi interessanti nomi di acquirenti fra cui Taddeo Barberini, il cardinale Francesco Barberini, Ascanio Filomarino e anche il prestanome Monsignor Prospero Fagnani, che poi cede ai Barberini: è il caso del Concerto, cat. 6 (per il successivo dono da parte di Antonio Barberini al marchese di Créquy, 1634, vedi le notizie nella scheda di catalogo firmata da Domenico Antonio D’Alessandro, già segnalate da Maurizio Marini); lo stesso passaggio attraverso Prospero Fagnani, prestanome, avviene, scrive la Lorizzo, per la Caraffa di fiori, sempre del Merisi, citata come tale dalle fonti e non rinvenuta.
Il Bacchino malato (cat. 1; fig. 11) che apre il percorso della mostra appartiene alla fase della vita di Caravaggio che, per non spendere, e non solo, usava sé stesso allo specchio come modello. Come già detto, apparteneva al sequestro Arpino (numero 54 nell’elenco delle opere sequestrate) [67], e quindi già questo consente una ovvia datazione, retrocessa grazie all’annotazione di Mancini che fa il nome di Costantino (Spada), rigattiere.

Osservazioni sotto il profilo iconografico le troviamo in Calvesi [68] e in Hermann-Fiore [69], a cui si aggiunge l’evocazione di Lomazzo come abate della Val di Blenio. Ci si domanda se il colore verdognolo del volto, che ha fruttato l’appellativo “malato”, sia dovuto a un’alterazione della preparazione o sia invece una precisa intenzione dell’artista.
Il Narciso (cat. 7; fig. 12) viene accolto nella mostra ma con riserva e con la scritta “attribuito”: un dipinto di grande qualità che venne incluso come autografo nella famosa esposizione longhiana del 1951.

Nel 1913 si trovava presso lo storico dell’arte Paolo D’Ancona, figlio del grande studioso della letteratura italiana Alessandro D’Ancona. Un dipinto di geniale invenzione che è giusto restituire, come da tempo proponeva anche Rossella Vodret, al Merisi, e porlo nel gruppo di opere che ha per tema la serenità dell’idillio, come pure il Concerto (cat. 6), conservato al Metropolitan di New York.
Si noti come l’artista sa declinare le diverse tematiche dell’esistenza e va detto che la scelta delle opere in mostra cerca di dare un esempio di ciascuna corda espressiva. Il gioco, i bari, la zingara rappresentano la deroga, mentre il dramma è tratto dalle Sacre Scritture e dalla vita dei Santi.
La Santa Caterina di Alessandria (cat. 10; fig. 13) era del cardinale Francesco Maria Del Monte, comprata successivamente da Antonio Barberini, insieme ai Bari (cat. 5) [70], e ora si trova presso il Museo Nacional Thyssen-Bornemisza di Madrid.

Si noti che la raffigurazione della Santa offerta dal Merisi è rispettosa della revisione del Martyrologium Romanum fatta da Cesare Baronio (Oratorio dei Filippini), come osservato da Zuccari [71]. Infatti la ruota è infranta dalla folgore divina e il vero strumento del martirio, ossia la spada, insanguinata, con cui Caterina viene uccisa, è indicata dal dito della Santa.
Giuditta e Oloferne (cat. 12; fig. 14) è un celebre dipinto che proviene dalla collezione di Ottavio Costa (socio di Juan Enríquez de Herrera) [72] e ora, dopo vari passaggi, appartiene a Palazzo Barberini. La modella è senza dubbio la ben nota e bellissima Fillide Melandroni.

Vale la pena di sottolineare un piccolo particolare estremamente significativo nella resa del volto compiuta dal Merisi, che sapeva sempre introdurre qualcosa di innovativo: l’eroina, eretta e coraggiosa, denota l’intensità dello sforzo compiuto solo con un piccolo corrugare della fronte. Alla sua destra Abra attende con un sacco in mano la testa recisa.
La prima versione, su tavola di cipresso, della Conversione di Saulo (cat. 13; fig. 15) per la cappella Cerasi in santa Maria del Popolo, generoso prestito di Nicoletta Odescalchi (a cui è pervenuta per via ereditaria), offre spunti di riflessione sulle cause del rifiuto:

Tiberio Cerasi, il committente, era morto, quindi gli agostiniani decidevano per lui; indubbiamente la composizione è molto affollata, ma la figura di Cristo che appare in alto a destra, trattenuta dalle braccia di un meraviglioso angelo adolescente, è un brano di pittura incomparabile. La prima versione della Crocifissione di san Pietro, anch’essa su tavola, e anch’essa destinata alla cappella Cerasi, è perduta.
La Cattura di Cristo (cat. 14; fig. 16), oggi a Dublino, National Gallery of Ireland, e proveniente dalla collezione di Ciriaco Mattei, deve la sua identificazione a Francesca Cappelletti e Laura Testa.

Fu fondamentale la collaborazione delle due giovani studiose, che lavoravano da tempo sugli inventari Mattei [73], con Sergio Benedetti [74]. Inoltre, grazie a loro due venne chiarito l’equivoco, presente negli inventari, che attribuivano l’opera a Gerrit van Honthorst. Nella drammatica scena, che pone al centro il fatale bacio di Giuda che consente il riconoscimento di Cristo per l’arresto, vediamo la mano di Caravaggio che regge la lampada che illumina la scena e il suo volto, novello Diogene, come scrisse il compianto Maurizio Marini.
Il San Giovanni Battista nel deserto (cat. 15; fig. 17) del Nelson-Atkins Museum of Art di Kansas City, di attribuzione longhiana, fa parte, insieme al San Francesco in estasi di Hartford (cat. 8) e alla Giuditta e Oloferne di Palazzo Barberini (cat. 12), tutti esposti in mostra, del nucleo di opere che appartenevano al banchiere genovese Ottavio Costa.

Costa era un collezionista del Merisi e possedeva, in società con Juan Enríquez de Herrera, una delle più importanti banche di Roma tra la fine del Cinquecento e l’inizio del secolo successivo: il Banco Herrera & Costa, del quale pubblicai l’inventario dei beni [75], che fu integrato e approfondito dagli studi dell’erede Josepha Costa Restagno [76] e dalla tesi di Dottorato di Maria Cristina Terzaghi, di cui fui relatore, poi pubblicata da «L’Erma di Bretschneider» [77].
Il David con la testa di Golia (cat. 19; fig. 18), prestito della Galleria Borghese, palesemente venne dipinto al momento di impetrare a Scipione Borghese la grazia: il volto di Golia decapitato è un ritratto di Caravaggio che chiede perdono, e l’allusione è troppo evidente e fa porre la datazione vicina alla partenza per Palo, vicina all’itinerario del fatale tentativo di ritorno nella città dei pontefici. Il volto di Davide, che traspira non tanto trionfo, quanto malinconia, sembra partecipe dell’istanza di grazia.

Il Martirio di sant’Orsola (cat. 24; fig. 19) [78], tema famoso nell’interpretazione narrativa che ne diede Carpaccio, qui è riassunto nel suo punto focale attraverso lo sguardo ravvicinato del Merisi. L’essenzialità della scena raffigurata ci porta allo spietato pretendente rifiutato che si vendica e colpisce con una freccia la Santa.

Lo sguardo che Orsola, morente, rivolge al dardo che la penetra e il suo drammatico pallore la accomunano al volto disperato di Caravaggio che riassume e testimonia la crudeltà che può emergere nell’animo umano. Questo è un esempio fra i più palesi di come l’artista attingeva alla sfera universale del dolore, identificandosi con la vittima.
Il dipinto aveva sofferto per una errata esposizione al sole, come testimonia la missiva di Lanfranco Massa indirizzata a Marco Antonio Doria. Grazie all’ottimo restauro eseguito in occasione della mostra da Fabiola Jatta e Laura Cibrario sono state ritrovate delle figure che non erano più percepibili e che fanno da quinta alla tragedia in atto.*
Silvia DANESI SQUARZINA Roma 11 Maggio 2025
* Ringrazio con tanta amicizia Francesca Rusconi che mi ha aiutata per la bibliografia e le note.
NOTE