Il richiamo d’amore di Elisabetta Sirani. Il “Ri-orientamento” della pittrice bolognese nel libro “Diario di Elisabetta Sirani” di Massimo Pulini.

di Sergio GUARINO

Il richiamo d’amore di Elisabetta Sirani

Era davvero facile, e non solo quando il mondo era giovane, cedere al richiamo d’amore di Elisabetta Sirani. O, per dirla al contrario, era di fatto quasi impossibile resisterle. Le circostanze favorevoli erano (e sono) tante, sovrabbondanti, da confondersi: la vita breve dell’artista (nata e morta a Bologna, 8 gennaio 1638 – 28 agosto 1665), il minuzioso racconto della sua esistenza nelle pagine commosse della Felsina pittrice, ma soprattutto le sue opere, così immediatamente familiari e così insolite, dove la solida base della pittura bolognese della prima metà del Seicento viene portata per mano in un altrove tutto da esplorare, fatto di dramma e di poesia, di delicatezza e di intima solidità, in un dialogo ammirato sia con le opere del padre Giovanni Andrea – un pittore troppo segnato, negli studi, per il suo intrinseco legame con Guido Reni – sia con altri artisti coevi di prim’ordine. Ma, superato l’incanto dei primi tempi di amore, era altrettanto facile (mea culpa) confinare Elisabetta in una ornata cassettina dei ricordi, concedendole – ma di rado – qualche sospiro pseudo-romantico.

Come uscirne (parte prima) ? Come cancellare l’immagine stereotipata di una aggraziata e dotata pittrice, da ammirare ma ahimè da relegare nel camerino delle curiosità, come passare dalla sabbia alla roccia? Sperando che avvenisse quello che per fortuna è avvenuto, laddove la parola fortuna è quanto mai sbagliata, perché si tratta al contrario di un lavoro silenzioso e tenace di recupero filologico: iniziato alla metà degli anni settanta, separatamente, da Ann Sutherland Harris e da Fiorella Frisoni (che sulla pittrice sarebbe poi tornata), proseguito poi negli anni novanta con i primi studi di Adelina Modesti e quindi con la mostra di Bologna del 2004 curata da Jadranka Bentini e Vera Fortunati, con la monografia della stessa Modesti, apparsa nel medesimo 2004, con edizioni successive (2014 e 2023) e altri contributi da parte della studiosa, insieme ad un numero cospicuo di altre ricerche, tra cui vanno segnalati gli interventi di Babette Bohn [1].

Tutti gli aspetti della breve vita e della ancora più corta carriera pittorica della “Sirana” sono stati sottoposti a un vaglio minuzioso, recuperandoli principalmente sulle note di Carlo Cesare Malvasia, che l’aveva personalmente conosciuta e ancor più personalmente sospirata, per quanto potessero concedergli il suo stato di religioso e le norme non scritte di un urbano decoro. Sebbene di fatto relegata in casa, Elisabetta aveva trasformato la propria prigione più o meno dorata in un luogo di felice attività e di fervidi scambi culturali, dove l’Accademia pittorica si combinava con visite illustri e dove la pittrice poteva platealmente dimostrare le proprie variegate abilità, a iniziare dall’immediatezza di una vena creativa che stupiva gli astanti.

Questa attenta ricerca con risultati davvero imponenti sul fronte delle attribuzioni (non sempre condivisibili, per inciso, all’interno di un catalogo che assomma a circa duecento lavori), ha però inquadrato Elisabetta Sirani in una casella, forse eccessivamente rigida, all’interno della storia dell’arte “al femminile”. L’argomento è delicato e può rapidamente diventare spinosissimo: una distesa di sabbie mobili che si rischia di attraversare spingendo una carriola piena di pietre, soprattutto da parte di quanti, come chi scrive, stentano a comprendere (e ad accettare) letture critiche basate su formule preconfezionate, spesso di ascendenza anglosassone. Certo, Elisabetta, già dalle parole usate da Malvasia nella sua biografia, si presta molto bene ad un’analisi che dalla stretta osservazione dei prodotti pittorici si sposti alla globalità del suo essere stata donna e artista, obbligando i suoi primi critici (ma anche i secondi) a calibrare il linguaggio, rivedendo talora (come nel caso di Artemisia Gentileschi) gli stessi termini della teoria artistica [2]. In questo modo però la casella diventa, quasi fatalmente, una gabbia, avviando una coazione a ripetere dell’indagine storico-artistica che rischia di stritolare, o peggio di condannare l’artista ad un’immobilità non salutare.

Come uscirne (seconda parte)? Cambiando prospettiva e ricominciando dall’inizio, senza dimenticare affatto i notevolissimi e irrinunciabili traguardi raggiunti dagli studi sopra ricordati. E’ quello che fa Massimo Pulini in “Il diario di Elisabetta Sirani” (NFC edizioni, Rimini 2025, con una “narrazione” di Stefano Antonio Marchesi sul processo per avvelenamento seguito alla morte dell’artista), un volume ricco di immagini che, senza bisogno di annunciarlo, procede ad un deciso “ri-orientamento” della pittrice bolognese sulla base del suo celebre diario, o meglio della Nota delle Pitture fatte da me Elisabetta Sirani che Carlo Cesare Malvasia aveva integralmente trascritto nella Felsina pittrice in calce alla biografia [3].

Come è ovvio, l’elenco è sempre stato un indispensabile strumento per chiunque abbia affrontato lo studio dell’artista emiliana: in questo libro però la ri-trascrizione della Nota – segnalata anche visivamente da un differente colore delle pagine dedicate – diventa una cronaca illustrata del percorso della Sirani, affiancando le citazioni, scalate lungo gli anni, con le immagini dei dipinti corrispondenti, spesso corredate dai disegni, mentre si stagliano su un fondo bianco, così da renderle facilmente distinguibili, le descrizioni delle opere finora non identificate o non rintracciate.

E già questo sarebbe un merito non da poco, consentendo di seguire agevolmente l’evoluzione della carriera di Elisabetta attraverso una sorta di visivo “stato degli studi”, comprensivo di un importante nucleo di proposte inedite, frutto di una capillare conoscenza da parte dell’autore di raccolte private e del mercato antiquario nonché delle collezioni museali, dove lo studioso rintraccia e riferisce alla Sirani opere che fino ad adesso avevano attribuzioni differenti (e talora fuorvianti). Qui forse – ed è questo uno dei pochi appunti che si possono fare al volume – non giova l’assenza di un elenco delle opere, che avrebbe reso più agevole rintracciarle all’interno del libro.

Pulini non si limita a questo, ma in linea con la sua produzione di testi critici (attività parallela a quella di artista, nata negli anni ottanta del Novecento sviluppando “dialoghi visivi” tra pittori del secolo XVII e poi proseguita su raffinati sentieri), premette al diario della pittrice un elaborato studio che si discosta dai consueti schemi accademici – senza tralasciarne le regole – e si addentra in una articolata lettura poetica e storica, un continuum dove la vita di Elisabetta Sirani viene ricordata e trasmessa attraverso i poliformi aspetti di un’esistenza intrisa, come quella di tutti noi, di desiderio e di disincanto, di tenacia e di angoli più segreti e oscuri.

L’“essere donna” della pittrice, che ovviamente ritorna in ogni pagina, viene così sottratto a una categoria “oppositiva” per farsi situazione esistenziale, certo non tranquilla né pacata, che sfocia in una esaltata creatività e in particolare nel desiderio della pittura. Non è un caso, credo, che il volume si apra con l’immagine della Porzia in atto di ferirsi la coscia, tornata a Bologna nel 2008 [4] (fig.1): uno degli ultimi quadri di Elisabetta, eseguito per il mercante di sete Simone Tassi, firmato e datato 1664 (un anno prima della morte).

1. Elisabetta Sirani, Porzia in atto di ferirsi la coscia, Bologna, Fondazione Cassa di Risparmio

Il soggetto è raro, all’interno della succinta iconografia sulla moglie di Bruto (rivolta semmai al successivo momento del suicidio) e in linea con il racconto plutarchesco fissa l’attimo in cui la figlia di Catone si colpisce, mentre le ancelle ignare sono nell’altra stanza, per dimostrare il proprio stoico coraggio di fronte al dolore, chiedendo implicitamente di partecipare alla congiura anticesariana, essendo in grado di affrontare ogni pena in caso di esito negativo.

Questo quadro, di rara potenza pittorica, torna ad essere, correttamente, non un’esaltazione di virtù “maschili” (di Porzia come personaggio storico e di Elisabetta come artefice) bensì un segno eclatante della “fermezza inflessibile con la quale rispondeva ad un ottuso diniego che la cancellava dall’azione e dalla Storia” (Pulini); dunque non una contrapposizione, non una “virile woman” (Modesti), ma una donna (e un’artista) che dichiara la propria dignità, sottraendosi con intelligenza e audacia alla logica del confronto: un superlativo assoluto ben più potente e efficace di un superlativo relativo.

Prosegue il racconto, che inizia con i ricordi che si affollano, nel torrido agosto bolognese del 1665, quando la fine è vicina, una fine così innaturale da far sospettare avvelenamenti e intrighi (di cui, come accennato, narra in calce al volume Stefano Antonio Marchesi, sulla scorta dei documenti processuali). Si torna indietro, nel 1658, al “quadro grandissimo per li PP. della Certosa, entro il quale vi è il Battezo di Christo nel Giordano” (Nota, n. 20), l’imponente Battesimo di Cristo (cm 380 x 490, fig.2) tuttora nella Certosa bolognese, che Elisabetta dipinge quando ha solo vent’anni, dimostrando una sapienza artistica con ben pochi precedenti a quell’epoca della vita.

2. Elisabetta Sirani, Battesimo di Cristo, Bologna, Certosa

La commissione era del 28 febbraio 1657 e concedeva due anni per la conclusione. Ne bastò uno solo o poco più: l’artista si mise con giovanile coraggio ad un intenso lavoro, come testimoniano i disegni preparatori (stupendo quello dell’Albertina), dove si recupera una procedura operativa “reniana”, chiaramente trasmessa da Giovanni Andrea.

Entra qui dunque in scena il padre: le sfumature, a tratti molto ingombranti, del rapporto privato e artistico tra padre e figlia sono numerose e non facilmente riassumibili in breve spazio. Giovanni Andrea comprende di certo subito il talento raro di Elisabetta: siamo noi a non comprendere appieno come mai, di fatto, la costringa a una vita di reclusione, né basta ribadire la grettezza dell’animo maschile nel secolo diciassettesimo (e in altri secoli).

3 Giovanni Andrea Sirani, Amorino che coglie le rose, Roma, Pinacoteca Capitolina

Forse è il risultato della somma di diverse ragioni che, da sole, non sarebbero state sufficienti e di cui la principale – e di certo non l’unica – risiede prosaicamente nel denaro. Il pittore bolognese soffre di artrite e ha assolutamente bisogno di un valido aiuto per completare le commissioni, pertanto non può privarsi di Elisabetta, anche per opere dal formato ridotto, come alcuni Amorini – che talora diventano Gesù bambino e il piccolo Battista – dipinti a coppie o singolarmente, dove distinguere le mani diventa più arduo: a tale proposito ritengo (non concordando del tutto in questo caso con l’autore del libro) che alcuni esemplari – come l’Amorino che coglie le rose della Pinacoteca Capitolina, di provenienza Sacchetti [5] (fig.3) – siano da riferire al solo Sirani padre.

4 Elisabetta Sirani, Salvatorino, Bologna, Pinacoteca Nazionale

D’altronde il controllo di Giovanni Andrea sembra davvero esteso e Pulini pone l’accento sulle opere “segrete” di Elisabetta, eseguite al di fuori della rigida struttura paterna (esemplata su quella di Guido Reni) per motivi non chiari, quali la costituzione di una riserva economica in vista di una futura indipendenza[6]: questo ne spiegherebbe la mancata registrazione nella Nota, come accade ad esempio per il piccolo Salvatorino della Pinacoteca Nazionale di Bologna, proveniente anch’esso dalla Certosa e finito sullo scadere del Settecento in casa Malvezzi (fig.4).

Restava ormai poco da vivere. Elisabetta Sirani aveva nel frattempo creato un’importante Accademia domestica (questo non rientra nella Nota, ovviamente), dove altre donne artiste si formano: le sue sorelle e soprattutto Ginevra Cantofoli.

5. Elisabetta Sirani, Visione di san Filippo Neri, Bologna, Santa Maria di Galliera

Proprio a Ginevra, nel 2006, Massimo Pulini aveva dedicato un pioneristico studio, che ora, con correttezza, dichiara di voler rivedere alla luce dei contributi che hanno spostato alcuni lavori dal catalogo della Cantofoli a quello di Luigi Gentile (il fiammingo Lois Cousin): questa circostanza che collateralmente spinge a sperare in un approfondimento dei rapporti della stessa Elisabetta con l’ambiente artistico romano, di cui mi sembra di avvertire un’eco nella Visione di san Filippo Neri, una pala del 1662 (cm 272 x 178) realizzata “per il sig. Fabri dottor di Leggi” (Achille Fabri, docente di diritto) e passata dall’originaria collocazione a Santa Cecilia di Croara alla sede attuale di Santa Maria di Galliera (fig.5).

Tra l’articolato testo critico, una sorta di ritmata lettura poetica, e la trascrizione commentata della Nota l’autore infine inserisce un breve scritto dedicato al “Canonico innamorato”, perché senza Carlo Cesare Malvasia, la sua passione per l’arte e il suo evidente amore per Elisabetta, la Nota forse non sarebbe stata pubblicata: Pulini sostiene – ed è un’ipotesi verosimile –  che sia stato proprio l’autore della Felsina pittrice a commissionare alla pittrice (senza farne mai cenno) le quattro Allegorie (Onore, Liberalità, Virtù e Fama) che ancora nel 1694 erano tra i beni a lui appartenuti, testimonianze metaforiche di un sentimento sincero.

Sergio GUARINO  Roma  11 Maggio2025

NOTE

[1] Si rimanda, all’interno di una estesa letteratura sulla pittrice emiliana negli ultimi tre decenni, alla “Bibliografia essenziale” in calce al volume qui esaminato e, per un più esteso elenco, a quella presente nelle edizioni dei volumi monografici di Adelina Modesti; tra gli interventi recenti di Babette Bohn cfr. le pagine dedicate alla Sirani in Women Artists, Their Patrons, and Their Publics in Early Modern Bologna, University Park, 2021.
[2] Cfr. Adelina Modesti, Il Pennello Virile’: Elisabetta Sirani and Artemisia Gentileschi as Masculinized Painters? in Artemisia Gentileschi in a changing light (ed. Sheila Barker), London 2017, pp. 131-146.
[3] Felsina pittrice, ed. 1841, II, pp. 393-400.
[4] Olio su tela, cm 101 x 138, Bologna, Fondazione Cassa di Risparmio; nei decenni precedenti era stato sul mercato antiquario tra Roma e gli Stati Uniti e da ultimo presso la Miles Foundation di Houston.
[5] Nel corso di una revisione delle liste Sacchetti, che saranno oggetto di un più articolato studio, è emerso che “un’Amore, che siede sopra un cuscino con rose in mano” si trovava nella raccolta della famiglia almeno dal 1658 (e forse anche qualche anno prima, un dato che, se confermato, toglierebbe ogni residuo dubbio).
[6] Sulla delicata questione economica cfr. Raffaella Morselli, Il diario di lavoro di Elisabetta Sirani e la gestione familiare dei suoi profitti, in Amica Veritas, a cura di Antonio Vannugli, Roma 2020, pp. 307-320.