Rossella Vodret a 360° su Caravaggio: le certezze, le quasi certezze e le ipotesi sui misteri che ancora sussistono

P d L

Questa intervista a Rossella Vodret segue il suo articolo che abbiamo pubblicato due settimane fa (cfr  https://www.aboutartonline.com/rossella-vodret-da-milano-a-parigi-novita-su-caravaggio/) in cui erano già espresse molte delle argomentazioni qui riprese ed ampliate; i temi della diagnostica e della tecnologia applicata allo studio delle opere di Caravaggio, di cui da molto tempo la studiosa si è occupata promuovendo ricerche, esposizioni e conferenze, si intrecciano alle valutazioni relative agli ultimi documenti riemersi dagli archivi sulla figura e sull’opera del grande artista, di cui è da tempo attenta esaminatrice. Questa conversazione, gentilmente concessaci in un momento di pausa lavorativa (causata da un banale incidente), aggiunge un tasselo di notevole rilievo alla indagine che About art sta conducendo su quanto viene emergendo riguardo all’artista milanese.
(Ringraziamo l’ing. Claudio Falcucci per il suo intervento)

-La prima questione che ti vorrei porre riguarda le prove diagnostiche sulle opere d’arte di cui sei una promotrice –in particolare ti sei occupata di  Caravaggio-; lo scopo consiste nello stabilire quale è stato l’iter compositivo di un’opera, o non anche ad accertare quale mano l’abbia realizzata ? cioè a tuo parere si potrà magari arrivare un domani, con un complesso di apparecchiature ancor più sofisticate, anche a una simile eventualità ?

R: No, assolutamente. Non credo proprio che si potrà mai arrivare a definire quale mano abbia dipinto un’opera. Le indagini possono essere d’aiuto nello studio di un’opera d’arte perché ci danno da una parte informazioni sulla materia fisica di un’opera  (per esempio il tipo di tela, di preparazione, la composizione dei colori ecc.) dall’altra, attraverso le radiografie e le riflettografie a infrarosso,  su ciò che non possiamo vedere a occhio nudo perché nascosto al di sotto la pellicola pittorica. Mi riferisco in questo caso soprattutto al processo creativo che ha seguito l’artista per arrivare eseguire la sua opera (per esempio il disegno o le modifiche della composizione). Le macchine possono aiutare, ma mai potranno individuare la mano dell’autore, perché questo è il compito dell’occhio dello storico dell’arte. Spetta allo storico dell’arte avere una visione d’insieme e valutare tutti gli elementi relativi a un’opera d’arte a cominciare dalle caratteristiche stilistiche, dai documenti, dalle fonti biografiche, dall’esame del contesto, dall’iconografia e molto altro ancora. A questo esame fondamentale, si possono aggiungere anche i risultati delle indagini. E’ il conoscitore che può fare un’attribuzione, non certo le macchine.

-Abbiamo registrato nella nostra inchiesta su About Art a questo riguardo, il parere di molti studiosi, tecnici, restauratori; tra costoro Vittorio Sgarbi è stato del tutto tranchant affermando che non servono affatto, Alessandro Zuccari ha affermato che bisogna andarci cauti e che le prove diagnostiche non sono affatto probanti. Cosa ne pensi ?

R: Intanto fammi dire che mi stupisce questa alzata di scudi, questa sorta di demonizzazione della diagnostica, perché, come ho sempre scritto e come ripeto ancora una volta, essa altro non è che uno strumento, utilissimo,  che gli storici dell’arte hanno a disposizione per completare lo studio di un’opera, insieme all’analisi stilistica, ai documenti, al contesto e a tutte le cose cui accennavo prima; dunque è solo uno strumento, e come tale va considerato, non in contrapposizione al conoscitore, ma di cui il conoscitore si può servire, se lo ritiene opportuno.

Tuttavia devo farti notare che una delle osservazioni maggiormente ricorrenti nella nostra indagine ha riguardato il rischio che la diagnostica comporterebbe, cioè di un ridimensionamento dell’analisi del linguaggio pittorico, dello studio dei documenti, della ricerca d’archivio, dei confronti testuali, insomma di quella che è solitamente la prassi che impegna lo storico dell’arte. E’ un rischio che intravedi?

R: Ma assolutamente no, non è così, il ruolo dello studioso o del conoscitore è e resta fondamentale, il primo strumento di conoscenza è il suo occhio, l’occhio del conoscitore. Poi è necessario lo studio e la ricerca … Questo rischio non esiste.

– D’accordo, però ammetterai che i risultati delle analisi diagnostiche occorre pure saperli leggere, perché –come ci ha detto Davide Bussolari- spesso la lettura dei riscontri non è univoca.

R: Esiste un problema di base, vale a dire che i macchinari non sono tutti uguali e di conseguenza è vero che possono fornire risultati diagnostici a volte disomogenei. Che cosa occorre fare dunque per ovviare a questo rischio? E necessario che i risultati rispondano a determinati standard qualitativi, ed è esattamente la prima preoccupazione che abbiamo avuto sia per la campagna diagnostica sulle ventidue opere romane avviata come Soprintendenza per il Polo museale romano dal 2009 / 2012, sia in quest’ultima sulle ulteriori tredici opere che sono state oggetto di analisi per la mostra “Dentro Caravaggio” a Palazzo Reale. Insieme con l’ISCR abbiamo stabilito i criteri degli standard qualitativi a cui dovevano rispondere i macchinari utilizzati da chi materialmente eseguiva le indagini, così da superare appunto quelle discrepanze nei risultati che li avrebbero resi incomparabili, cosa inevitabile qualora si utilizzassero macchinari ad esempio di differente lunghezza d’onda, e così via. Dunque la base fondamentale affinché i risultati raggiunti possano essere oggettivi e quindi comparabili è esattamente questa, cioè che ci sia il rispetto degli standard qualitativi.

Per rispondere in modo completo a questa domanda ho chiesto un parere anche a Claudio Falcucci, che ha coordinato tutte le indagini tecniche svolte per la mostra “Dentro Caravaggio” e che qui riporto:

CF: Stabilito questo, bisogna sempre tener conto che la diagnostica artistica, come pure la diagnostica medica, e quella forense sono e rimangono Scienze indiziarie, richiedono cioè sempre un atto interpretativo che consenta di trasformare un asciutto (e sostanzialmente inutile) dato analitico in una vera e propria informazione, atta ad incrementare la conoscenza, nel nostro caso di un dipinto, nel caso della diagnostica medica del quadro clinico del paziente. Il rispetto degli standard qualitativi consente solo di avere a disposizione materiale corretto per avviare queste interpretazione. Il processo interpretativo della documentazione diagnostica è certamente soggettivo, ma certamente non in misura maggiore di quanto non lo siano gli altri processi utilizzati dagli storici dell’arte. In alcuni casi gli indizi possono costituire già da soli prove evidenti di qualcosa, in altri occorrono molti indizi, anche provenienti dagli studi più convenzionali (come ad esempio da fonti, documenti, correlazioni con quanto riscontrato su altre opere…) perché gli esiti della ricerca possano avvicinarsi alla valenza di una prova, secondo un meccanismo comune tanto con le analisi cliniche quanto con i processi forensi. Il processo interpretativo necessita quindi di esperienza, ma soprattutto necessita di capacità e disponibilità al confronto con le esperienze di altri ricercatori: lo storico dell’arte da solo può condurre i propri studi secondo i metodi a lui più consoni, lo scienziato nella sua solitudine può fare altrettanto, insieme possono fare “diagnostica”.

Adesso passiamo a temi inerenti più strettamente alla figura e all’opera di Caravaggio, che studi da anni e che non finiscono di provocare discussioni e polemiche, al punto che le recenti eccezionali scoperte effettuate da valentissimi studiosi presso l’Archivio di stato sembra che abbiano provocato più dubbi che certezze. Intanto devo dirti che mi ha colpito, conoscendo la tua cautela, la tua adesione –mi pare di poter dire senza se e senza ma- alla tesi che Caravaggio sia arrivato a Roma non nel 1592 ma nel ’95 – 96 (come del resto ormai molti studiosi, ma non tutti, credono).

Gaspare Celio

R: Tutto può essere, ma le informazioni che abbiamo riguardo all’arrivo a Roma di Caravaggio mi sembrano abbastanza chiare. Gaspare Celio – che conobbe il nostro Michelangelo e che scrive le sue vite nel 1614, solo quattro anni dopo la sua morte –  ci dice che Caravaggio appena giunto a Roma lavorò presso un “bottegaro detto Lorenzo ciciliano”, che oggi sappiamo essere Lorenzo Carli. La notizia, com’è noto, è riportata anche da Baglione (“… se ne venne a Roma … E da principio si accomodò con un pittore siciliano…) e ripresa nelle note di Bellori al testo di Baglione. Quindi, da un lato i biografi concordano sul fatto che Caravaggio, appena giunto a Roma ebbe come primo referente il pittore siciliano Lorenzo Carli, dall’altro c’è la testimonianza di Pietropaolo Pellegrini –  garzone del barbiere che aveva la sua bottega a pochi passi di distanza da quella di Carli – il quale attesta che conosceva il pittore lombardo dalla Quaresima del 1596, quando Caravaggio lavorava nella bottega del pittore siciliano, suo vicino.  Il garzone è altamente attendibile e dimostra nella sua deposizione di conoscere bene Caravaggio sia perché il pittore era cliente del barbiere sia perché lo descrive dettagliatamente, precisando addirittura la sua cadenza dialettica (“parla alla lombarda”). Sempre da questa testimonianza sappiamo che il pittore si era recato più volte nella bottega del barbiere non solo per tagliarsi i capelli ma anche per farsi medicare la famosa ferita alla gamba. Unendo insieme queste due fondamentali informazioni – 1) il primo referente di Caravaggio fu Lorenzo Carli e 2) Caravaggio lavorava da Carli nella primavera del 1596 – se ne deduce, a mio avviso coerentemente, che Caravaggio arriva a Roma nel 1596 o al massimo qualche mese prima, non credo si possa andare molto indietro rispetto a questa data.

Ma se per caso un domani riemergesse un documento che attesta la presenza dell’artista a Roma, mettiamo nel 1593 o ‘94 ? Non è un’ipotesi impossibile, no?

R: Mi sembra che fino ad ora altro dato documentario non ci sia e noi come studiosi, come storici, non possiamo che tener conto dei documenti che ci sono. Altra cosa invece è riconoscere che questa nuova datazione lascia aperto il dubbio di cosa abbia fatto Caravaggio nei quattro anni che vanno dal 1592 al 1595/96. Caravaggio non è il tipo che passa inosservato per quattro lunghi anni. Questo in realtà è il problema che siamo chiamati a risolvere, a cominciare dall’enigma relativo al delitto di cui egli si sarebbe macchiato a Milano, di cui parla Celio, e che lo avrebbe costretto a scappare da Milano.

Qui però sai meglio di me che studiosi come Alessandro Zuccari e don Sandro Corradini ed altri contestano che Caravaggio avrebbe commesso un primo omicidio, in primo luogo perché quello che tramandano Celio e Mancini è tutt’altro che chiaro, e poi perché è noto che Celio era stato un avversario di Caravaggio e non è difficile credere che l’abbia voluto diffamare anche dopo morto giocando sul fatto che in effetti a Roma un omicidio il Merisi lo aveva commesso davvero, quello di Tomassoni.

R: Si, conosco bene le idee di Alessandro Zuccari in proposito e sono anche d’accordo con lui che i racconti dei due biografi non sono del tutto chiari, tuttavia bisogna anche ammettere che Gaspare Celio visse proprio in quegli stessi anni e che la biografia la scrive a ridosso di quei fatti, mi è complicato pensare che possa aver inventato o mistificato tutto per puro spirito polemico o vendicativo verso Caravaggio. Mi sembra poi che, anche limitandosi ai documenti e alle fonti biografiche, i due fatti delittuosi siano descritti in circostanze diverse: Celio e Bellori (nelle note a Baglione), parlano dell’uccisione di un amico; Mancini racconta una vicenda più complessa forse uno scherzo [1] nella quale sembrano aver avuto un ruolo diversi personaggi: “puttana…gentiluomo… sbirri” e che costò a Caravaggio un anno di prigione. Una vicenda che mi sembra  ben diversa dal duello con Ranuccio avvenuto, come leggiamo nei documenti, probabilmente a causa di una questione di ingenti debiti di gioco che il pittore non aveva pagato a Tomassoni. In ogni caso si tratta di una di quelle questioni su cui occorrerebbe avere una visione più organica, in primo luogo relativamente alla realtà e al contesto della Lombardia di quegli anni, con una ricerca approfondita negli archivi lombardi.

– Occorre anche dire però che uno studioso puntiglioso come Giacomo Berra ha scandagliato a fondo gli archivi non solo milanesi proprio di quei periodi e di un atto criminale come quello descritto da Celio non ha trovato traccia; questo vorrà pur dire qualcosa.

R: Certo, ho parlato spesso con Berra il quale sicuramente ha fatto davvero un lavoro molto prezioso, ma era da solo. A mio avviso è necessario avviare negli archivi lombardi un lavoro simile a quello intrapreso nell’Archivio di Stato di Roma, che ha dato tanti fondamentali risultati: un lavoro di équipe in cui lavorano fianco a fianco storici dell’arte e archivisti. Come ho fatto io stessa con il lavoro che ha portato alla pubblicazione di Alla ricerca di  Ghiongrat (cfr “Alla ricerca di Ghiongrat. Studi sui libri parrocchiali romani tra il 1600 e il 1630, Roma, 2011, NdA) dopo un impegno durato dodici anni e al quale hanno preso parte ben quindici studiosi, tra storici dell’arte ed archivisti. Per un’indagine a tappeto negli archivi lombardi è necessario il concorso di storici ed archivisti, ma poi non solo in Lombardia; un lavoro del genere sarebbe auspicabile e necessario per Napoli, per Venezia, per la Sicilia, ma anche negli altri archivi romani, a Roma non c’è solo l’Archivio di Stato … credo che per quanto concerne la vicenda di Caravaggio ne uscirebbero novità importanti.

Per ritornare sulla datazione dell’arrivo a Roma nel 1596, vorrei che mi chiarissi come si spiega a tuo parere un così repentino cambiamento di stile –ed anzi, prim’ancora che di stile, di testa- nel giro di pochi anni, tale da portare il Merisi da un tema del tipo del ‘Ragazzo che sbuccia il melangolo’ ad uno come il ‘Martirio di san Matteo’.

R: Lasciamo da parte il Ragazzo che sbuccia il melangolo che non ho studiato direttamente (anche perché non mi pare che l’originale sia stato riconosciuto con certezza dalla critica) e consideriamo invece il Ragazzo con il canestro di frutta, che a mio avviso, allo stato attuale degli studi, è la prima opera conosciuta del nostro pittore e poi i dipinti successivi fino alla cappella Contarelli. E’ vero, è in continua, rapidissima evoluzione e, hai ragione, è proprio la testa che cambia; ma per capire Caravaggio dobbiamo trascendere le nostre tradizionali categorie perché siamo di fronte ad un uomo, un artista, del tutto particolare, velocissimo e assolutamente geniale. Lui è sempre un passo avanti a tutti gli altri e continua a stupirci. In una manciata di anni passa da una pittura di tipo tradizionale, in cui disegna la composizione a pennello sottile o a carboncino su una preparazione chiara,  a una nuova tecnica sperimentata negli ultimi anni del ‘500  e messa a punto nei quadri Contarelli. Per la sua prima opera pubblica – quadri enormi da consegnare nel giro di poco tempo – Caravaggio deve elaborare in fretta un nuovo metodo di lavoro: usa la preparazione scura delle tele lasciandola a vista nelle ombre, nel fondo e  nei profili a risparmio con cui divide le varie campiture di colore, questo gli da il vantaggio di poter dipingere solo le parti in luce abbozzando appena quelle in penombra. In altre parole, a partire dalla Contarelli nelle parti in ombra e sul fondo non c’è pittura, ma solo preparazione scura in qualche caso appena velata: di fatto non esegue le figure nella loro interezza, ma solo le parti raggiunte dalla luce, nel resto c’è il vuoto: un gran risparmio di tempo … Una tecnica complessa, dunque, che richiede una impostazione e una visione creativa fuori dal comune. Si tratta di far emergere dal buio solo le parti delle figure raggiunte dalla luce e non tutto il resto, un’intuizione questa che richiede, a priori, una lucida e geniale progettazione del risultato finale. In questo modo le sue esecuzioni diventano velocissime, una caratteristica di cui si accorsero anche i suoi contemporanei, come Van Mander che nel 1603/1604 scrive: “… ma quando ha lavorato un paio di settimane, se ne va a spasso per un mese o due …”.  Caravaggio non abbandonerà più questa tecnica esecutiva che, soprattutto dopo la fuga da Roma, sembra diventare una lotta continua tra luce e ombra, quasi fosse il riflesso della sua vita tormentata. Con il degenerare della sua esistenza l’ombra e il buio mano a mano prendono il sopravvento sulle parti in luce, tanto che nelle sue ultime opere, penso soprattutto al Martirio di s. Orsola, i protagonisti dei dipinti, tratteggiati con poche pennellate chiare, sono ridotti a povere larve inghiottite dal buio.

Allora ammettiamo pure che sia arrivato a Roma nel 1595-96 e non prima, quando cioè in città era vivo l’esempio di personalità religiose di straordinario livello e carisma, come Filippo Neri, morto proprio nel 1595, o il francescano minore Angelo dal Pas, morto l’anno dopo, o Camillo De Lellis; considerato che Caravaggio era occupato nella bottega di Carli, è probabile che abbia risentito dell’atmosfera del tempo e magari in un clima del genere possa aver dipinto quadri religiosi tra cui magari quella figura di Madonna che appare sotto  la Buona Ventura capitolina?

R: E’ certo che può avere risentito del particolare clima emotivo dovuto alla presenza a Roma di religiosi così carismatici, ed è anche possibile che possa essere stato lui, come ha ipotizzato Giorgio Leone, ad abbozzare la Madonna sotto la tela poi utilizzata per la Buona Ventura. In questo drammatico periodo iniziale del soggiorno a Roma, quando cioè viveva in condizioni di estrema povertà, spesso riutilizzava tele già iniziate, come in questo caso. Ma la verità è che di questi lavori del periodo giovanile sappiamo davvero poco, per non dire nulla, e ci sono numerosi interrogativi che mi assillano. Sappiamo ad esempio che nel 1596, subito dopo il suo arrivo a Roma, lavorava nella bottega di Lorenzo Carli, dove però, stando ai documenti dell’ASR, è entrato che aveva già ben venticinque anni; ma a venticinque anni un pittore di solito era già pienamente autonomo, non andava a lavorare sotto un padrone per pochi spiccioli in una bottega di “opere grossolane”. Figuriamoci un pittore che aveva una così alta considerazione di se stesso come Caravaggio. Senza contare che nel contratto firmato col Peterzano veniva stabilito che Michelangelo dopo il periodo di formazione di quattro anni sarebbe uscito dalla sua bottega “sufficiens et expertus” e in grado cioè di lavorare in maniera autonoma (cfr. contratto con Peterzano, da ultimo Macioce 2010, p. 56-57). Dunque, perché otto anni dopo essere uscito dalla bottega di Peterzano, di fatto fa ancora il garzone in una bottega non sua? L’interrogativo per ora rimane, però mi sembra piuttosto stimolante quanto ha detto Claudio Strinati nell’intervista sulla tua rivista, quando ha affermato che Caravaggio fosse arrivato a Roma “… già formato come pittore e bravo nel dipingere, ma secondo me non svolgeva questo lavoro” (Cfr https://www.aboutartonline.com/claudio-strinati-dal-coro-caravaggio-ce-rivedere/ ).  Credo che sia un’idea che vada presa in considerazione.

– Un ulteriore enigma da sciogliere, in effetti, come del resto quello cui hai fatto cenno prima anche tu dei quattro anni dal ’92 al 96, diciamo così di buco. Ti chiedo: hai potuto farti una qualche idea in proposito?

R: Il problema di cosa abbia fatto e cosa sia accaduto in quel torno di anni è tutt’altro che risolto. Sto maturando una mia idea che peraltro era stata avanzata a suo tempo dal grande Luigi Spezzaferro e cioè che Caravaggio avesse fatto il soldato nella guerra di Ungheria.

Cioè, vuoi spiegare meglio?

R: Una delle cose che mi ha fatto pensare o meglio che mi ha fatto riprendere in considerazione questa ipotesi avanzata a suo tempo da Spezzaferro –il quale, non dimentichiamolo, ebbe spesso intuizioni davvero geniali- è quel disegno che rappresenta il coltello e la spada con cui venne sorpreso Caravaggio in uno dei suoi tanti arresti e che si trova documentato all’Archivio di Stato di Roma. E’ vero che erano tempi in cui l’uso delle armi era frequente, ma  chi è che, all’epoca, andava in giro armato non solo di spada, ma anche di un lungo coltello? Ho chiesto a Mario Scalini, grande esperto di armi, mi ha risposto che lo facevano di solito i soldati, abituati a combattere in battaglia con le due armi contemporaneamente.  Una possibile conferma a questa ipotesi può venire analizzando le modalità della vicenda che portò alla morte di Ranuccio Tomassoni. Chi erano i compagni di Caravaggio in quel frangente? Due soldati: il capitano bolognese Petronio Troppa che aveva combattuto proprio nella guerra di Ungheria (come anche un altro soldato che negli atti giudiziari testimonia sull’accaduto) e Onorio Longhi, suo grande amico, il quale tra il 1596 e il 1598 aveva combattuto in Spagna con Filippo II. Soldato con il grado di caporale era anche il bolognese Paolo Aldati, amico di Troppa, che viene citato negli interrogatori giudiziari in relazione al duello. Anche le vicende dell’uccisione di Ranuccio riportate nei vari documenti sembrano confermare che il nostro Michelangelo sapeva bene dove colpire un nemico per ucciderlo. Nello scontro con Caravaggio Ranuccio perde e, scappando, cade a terra, il pittore lo raggiunge e mentre è a terra lo colpisce precisamente “nel pesce della coscia”, presumibilmente all’arteria femorale. Ranuccio muore dissanguato in pochi minuti. Quasi un’esecuzione. Senza contare le notizie che abbiamo sul carattere diciamo aggressivo di Caravaggio, sul suo continuo ricorso alla spada, sulle numerose aggressioni, per non dire poi sulle armi che si trovavano in casa sua e che sono registrate nell’inventario dei suoi beni, un vero e proprio arsenale.  Penso che non si possa escludere l’idea che Caravaggio, negli anni di cui non abbiamo notizie, abbia prestato servizio come militare nella prima fase guerra d’Ungheria (1593-1596) combattuta dall’Impero asburgico contro i Turchi (questa tesi è stata accennata nell’ultimo libro firmato da Rossella Vodret con Paolo Jorio, Luoghi e misteri di Caravaggio, Cairo editore, Mi, 2018; ndA). Certo, per ora è solo un’ipotesi che necessita di una verifica e di un approfondimento, soprattutto attraverso accurate ricerche documentarie, ma penso che valga la pena.

Passerei ora ad un altro argomento piuttosto divisivo che riguarda il tema delle repliche e delle copie in Caravaggio. Si sa che Roberto Longhi ha sempre negato la possibilità che Caravaggio potesse realizzare più versioni identiche di un’opera, e se non sbaglio fu il compianto Maurizio Marini già negli anni ’80 ad affermare che si dovesse riconsiderare la questione, tuttavia il tema è ancora molto dibattuto. Ti chiedo: sulla base di quanto emerso con la mostra Dentro Caravaggio si può arrivare a dire qualcosa di definitivo in proposito? E in ogni caso, dopo tanti anni di studi, esposizioni e convegni che hai organizzato sul caravaggismo, quale idea personale ti sei fatta?

R: Certo la questione è divisiva e la domanda è impegnativa. Personalmente sono sempre stata scettica sul fatto che Caravaggio facesse copie, non è certamente il tipo di artista che ripeteva due volte la stessa raffigurazione, tant’è vero che le due versioni della Buona Ventura sono differenti per non parlare della prima e seconda versione del Martirio di s. Matteo, oppure dei due dipinti con San Matteo e l’Angelo.

In tutti questi casi le seconde versioni sono completamente differenti dalla prima. Tuttavia ora dobbiamo fare i conti, per così dire, con quanto ci dice Gaspare Celio, che in ogni caso –amico o nemico- è il suo primo biografo. Da lui apprendiamo una cosa fondamentale sulla quale occorrerà ancora approfondire e discutere, cioè che il cardinale Del Monte cercava un pittore per fare delle copie e che Prospero Orsi gli presenta per svolgere questo compito proprio Caravaggio. Se a questo poi aggiungiamo che Mancini scrive che Caravaggio aveva fatto alcune “copie di devozione” per Pandolfo Pucci da Recanati mi pare che il tema relativo alle sue repliche e/o copie, soprattutto per quanto riguarda il periodo giovanile, non possa ritenersi chiuso.

– Insomma, cominci a propendere per la tesi che Caravaggio replicasse se stesso o che autorizzasse qualcuno a farlo?

R: Cominciamo col dire che bisogna essere molto attenti a dire che i dipinti che presentano lo stesso soggetto siano effettivamente tutti originali di sua mano e tuttavia non mi sento di negare completamente che tra questi “doppi” giovanili ci sia anche qualche opera che possa essere originale. Personalmente comincio a pensarlo. Del resto, come ci dicono le fonti, la sua vita nei primi anni romani era molto difficoltosa e dunque per stretti motivi di sopravvivenza potrebbe avere anche replicato per il mercato qualcuno dei suoi primi lavori.

Non credi che possa anche aver potuto autorizzare qualcuno del suo stretto giro a rifare alcun sue opere? Era un’idea avanzata a suo tempo da Maurizio Marini che in effetti sosteneva che in certi casi potessero essere intervenuti insieme a lui Mario Minniti o magari lo stesso Prosperino.

R: Non è tanto questo, secondo me, ossia non è tanto che lui autorizzasse o no altri a replicare o a intervenire nei suoi lavori, io credo che si debba prendere bene in esame la particolare congiuntura in cui Caravaggio visse. Prima dell’incontro con il card. Del Monte, come dicevo e come è noto, quando era particolarmente “bisognoso e ignudo”, penso che, per sopravvivere, possa aver replicato, per venderle, alcune delle sue prime opere (probabilmente le due versioni della Buona Ventura sono tra queste).  Diversa è la situazione dopo la sua fuga da Roma. Nel 1606 Caravaggio è al culmine della sua carriera e della sua fama, tutte le grande famiglie, non solo romane, volevano le sue opere. C’era una richiesta enorme che non era possibile soddisfare, visto che, come sappiamo bene, non aveva una sua bottega, non esistevano suoi allievi (tranne il garzone Francesco, forse Cecco del Caravaggio), niente di tutto quello di cui tradizionalmente si avvalevano i maestri pittori più importanti. Allora non è difficile pensare che per “riempire” questo vuoto e soddisfare le richieste dei tanti committenti si siano inseriti pittori come l’amico Prospero Orsi, ma soprattutto Bartolomeo Manfredi, il quale lo imitò a tal punto che, come scrive Baglionemolte opere sue furono tenute di mano di Michelagnolo, ed infin gli stessi pittori, in giudicarle, s’ ingannavano”. Quindi sembra di capire che Manfredi avesse avviato una produzione di dipinti che venivano spacciati sul mercato per opere di Caravaggio e, per di più,  che i pittori dell’epoca non riuscivano a distinguerle da quelle originali  del grande maestro lombardo. Anche Bellori insiste su questo fatto precisando addirittura che Manfredisi trasformò nel Caravaggio”. Sono affermazioni che in qualche modo lasciano interdetti. Se neppure i più valenti artisti contemporanei del Merisi erano in grado di capire quali opere erano di Manfredi e quali di Caravaggio, mi viene da pensare, per fare un battuta: se non ci riuscivano neppure gli artisti di allora, come possiamo pensare di farlo noi oggi?

– Certamente sai che esistono vari ‘doppi’ che rivendicano –alcuni per la loro grande qualità- l’autografia caravaggesca, pensiamo alla Cattura di Cristo, al Ragazzo morso dal ramarro, ai vari San Francesco in meditazione, per non dire del Ragazzo che sbuccia il melangolo e così via. Per cercare di definire una volta per tutte la questione, non sarebbe il caso di mettere i dipinti più interessanti a confronto, magari dopo accurate analisi diagnostiche ?

R: Certo che sarebbe una ottima idea, ma penso che ottenere i prestiti per una mostra di questo genere sarebbe veramente molto difficile. Tutti ricordiamo il caso del confronto dei due s. Giovanni nel 1990…. [Cfr G.Correale (a cura di), Identificazione di un Caravaggio. Nuove tecnologie per una rilettura del San Giovanni Battista, Venezia 1990, ndA]

Le due versioni del Ragazzo morso dal ramarro spesso compaiono entrambe come originali del Merisi; tu pensi che la versione in Fondazione Longhi sia un originale?

R: Si tratta effettivamente, a mio avviso, del caso oggi più appassionante dei ‘doppi’di Caravaggio.

Sx National Gallery; dx Fondazione Longhi

Trovo il dipinto Longhi molto interessante, ma andrebbe accuratamente restaurato perché è coperto da una patina di sporco veramente considerevole che altera la percezione del dipinto. Spero che Mina Gregori e la Fondazione Longhi prendano presto questa decisione. E’ un quadro su cui approfondire la ricerca e gli studi…

– A proposito di riscontri analitici, una delle cose che ha fatto maggiormente discutere a questo riguardo è il modus operandi di Caravaggio, cioè il fatto che preparasse i suoi dipinti ricorrendo alla grafica, in una parola che disegnasse; noi abbiamo registrato nel nostro giro di conversazioni pareri differenti e distanti su questo tema, tu, al contrario, hai scritto nel catalogo della mostra Dentro Caravaggio che “il mito (che non disegnasse, ndA) è stato definitivamente sfatato”. Ne sei convinta?

R: Certo, basta vedere cosa appare sotto la pellicola pittorica visibile nelle prime opere a cominciare proprio dal Ragazzo con il canestro di frutta. Il disegno tradizionale fatto a carboncino o pennello sottile sulla preparazione chiara in riflettografia ad infrarosso è molto evidente, direi che si vede anche a occhio nudo. Non so come si possa arrivare a negare questa evidenza. E così anche nelle altre opere giovanili con preparazione chiara, per esempio nella  Buona Ventura, nella Maddalena Doria e nella Fuga in Egitto.

Riposo dalla fuga in Egitto (Part.)
Riflettografia (part)

– Alcuni studiosi hanno sostenuto sulla nostra rivista che il disegno quando c’era semmai era di tipo veneto, cioè consistente in tratti di colore corposo che delineavano più o meno le figure.

R:  Nelle prime opere il disegno è di tipo tradizionale, come si può chiaramente vedere nelle opere che ho appena citato. L’uso di pennellate di colore corposo per delineare le figure si trova solo nelle opere successive, quando la preparazione diventa scura e, per impostare gli elementi compositivi, il disegno tradizionale diventa poco visibile. Caravaggio è costretto allora a modificare la sua prassi esecutiva: per impostare la composizione usa sia le incisioni sia un largo disegno a pennello. In seguito, dopo la Contarelli, fanno la loro comparsa (oltre alle incisioni e il disegno a pennello) anche gli abbozzi chiari, come nella Giuditta Costa o anche rossastri, soprattutto dopo la fuga da Roma.

Vorrei ora conoscere il tuo parere su pubblicazioni che hanno fatto e fanno ancora parecchio discutere per una interpretazione non tradizionale di alcuni capolavori caravaggeschi; mi riferisco in primis al volume di Sara Magister (Cfr Caravaggio. Il vero Matteo; Campisano editore, Roma 2018) che propone –in modo molto argomentato, va detto- un differente approccio alla Chiamata di san Matteo della Cappella Contarelli suggerendo che il pubblicano cui si rivolge il gesto di Cristo sia il giovane chino a contare i soldi.

R: Solo recentemente ho letto il libro di Sara Magister di cui si è molto parlato e che ho trovato molto stimolante.  Tuttavia devo dire che la tesi sostenuta dalla valente studiosa mi lascia perplessa. Anche non volendo dar credito a Bellori e Sandrart che identificano Matteo con l’uomo con la barba (andrei comunque cauta a smentire l’identificazione dei due biografi secenteschi …), non credo che possa essere il pubblicano Matteo il giovane chino a contare il denaro perché la luce illumina chiaramente l’altra persona. La luce è un aspetto importante per la corretta interpretazione del personaggio, considerando che in epoca controriformistica nei dipinti a carattere religioso, la luce rappresenta la grazia divina. Basti pensare al ruolo della luce che colpisce il volto di Marta nella Marta e Maddalena di Detroit, di Matteo nel Martirio, di Giuditta nel quadro Barberini, di Pietro e Paolo nei due dipinti della Cappella Cerasi e così via …

-Stefania Macioce, con cui abbiamo conversato non molto tempo fa, ha sostenuto una tesi che mi trova molto d’accordo circa il fatto che i pareri sulla vita e l’opera di Caravaggio ed ora anche sull’importanza delle analisi diagnostiche possano essere condizionati anche da esplicite o implicite rivalità e perfino da schieramenti avversi, proponendo che siano superati dalla cooperazione tra le varie discipline e dalla interdisciplinarietà; tu che ne pensi?

R: Sono assolutamente d’accordo sul fatto che occorra interdisciplinarietà e concorso tra le varie discipline, del resto è quello che auspico anch’io da tempo, è assolutamente necessaria la collaborazione tra diverse professionalità –storici dell’arte, archivisti, storici, restauratori e tecnici diagnostici – per affrontare al meglio e cercare di risolvere seriamente i fondamentali problemi della storia dell’arte

– Avviandoci alla conclusione di questo incontro chiedo il tuo parere come storica dell’arte delle ultime attribuzioni di opere alla mano di Caravaggio.

R: Non conosco direttamente il dipinto della Galleria Borghese che è stato esposto di recente ad Arezzo, attribuito a Caravaggio da Claudio Strinati, che raffigurerebbe Bartolomeo Manfredi.  Mi sembra un’opera di grande qualità e la proposta di Claudio è, come sempre, stimolante e certamente da approfondire.  Quello che posso dire che non credo si tratti del ritratto di Manfredi il quale nel 1606, quando Caravaggio lascia Roma per sempre, aveva solo ventiquattro anni, era quindi decisamente più giovane rispetto al personaggio raffigurato nel dipinto Borghese.

Un’ultima domanda non posso evitare di portela sulle due Maddalene esposte al museo Jacquemart Andre a Parigi nella mostra Caravage à Rome. Amis & Ennemis, curata da due studiose esperte come Francesca Cappelletti e Cristina Terzaghi. So che propendi per l’autografia della Maddalena della versione cosiddetta Gregori. Puoi spiegare i motivi ?

R: Intanto posso dirti che trovo la versione Gregori più interessante della versione Klain dal punto di vista stilistico, ma confesso che mi riservo di approfondire la questione andando avanti con gli studi.

– Cioè vuol dire che anche la versione Gregori resta sub judice per te?

R: Diciamo che ho ancora qualche dubbio, legato anche allo stato di conservazione della Maddalena Gregori, che ha molto sofferto per i drastici interventi subiti in passato. Vorrei ricordare che le fonti ci parlano di due dipinti raffiguranti la Maddalena: la prima che secondo Bellori era ‘a mezza figura’, dipinta da Caravaggio nel periodo trascorso nei feudi Colonna e la seconda che si trovava, invece, sulla feluca su cui si era imbarcato Caravaggio tornata a Napoli alla fine di luglio del 1610 dopo aver lasciato il pittore a Palo. Tutto può essere, ma non credo che si tratti della stessa Maddalena che a distanza di quattro anni si è spostata dai feudi Colonna a Napoli.  La Maddalena che era sulla piccola barca – insieme con i due S. Giovanni e tutte le “robbe” del pittore rimaste sulla feluca – fu consegnata a Costanza Colonna che abitava a Napoli nel palazzo di Chiaia, lo stesso da cui era partito Caravaggio per tornare a Roma. Credo che la Maddalena che si trovava sulla feluca possa essere identificata con la versione Gregori.

sx Versione Klain; dx Versione Gregori

Sarebbe cioè databile al 1610, che è poi la tesi avanzata da Gianni Papi che parla per l’appunto di due versioni della Maddalena in penitenza.

R: Si, e tuttavia –di qui le perplessità che ancora ho- le evidenze tecniche mi dicono qualche altra cosa che devo capire meglio. Penso però che con lo studio e la ricerca  questi dubbi si scioglieranno. L’importante per me è essere sempre aperti alle diverse soluzioni, non chiudersi nella torre d’avorio delle proprie convinzioni.

P d L Roma febbraio 2019

[1] Cfr. da Ultimo Riccardo Gandolfi, A. Zuccari, I primi anni di Caravaggio a Roma,  in “Dentro Caravaggio”, Catalogo della mostra, a cura di R. Vodret,  Milano 2017: , Puttana scherzo (?) et gentilhuomo scherzo (?) ferì il gentiluomo et la puttana sfregia sbirri ammazzati volevan saper che i compagni; fu prigion un anno et lo volser veder vender il suo […] a Milano fu prigion, non confessa, vien a Roma nè volse […]