di Greta LEONI
Dal 30 maggio al 2 giugno il Museo Diocesano Francesco Gonzaga di Mantova si prepara ad accogliere, con il prestigioso patrocinio della Camera di Commercio Cremona – Mantova – Pavia, la mostra “Tesori da Collezione”. A partire da giovedì 29 maggio, data d’inaugurazione, la suggestiva Sala delle Colonne diverrà il palcoscenico di un affascinante confronto tra opere di pittura e scultura d’arte antica, che vedrà dialogare la preziosa collezione permanente del Museo con una selezione di opere inedite provenienti dalla galleria milanese Ars Antiqua e dalla raccolta, per la prima volta disvelata al pubblico, dell’appassionato cultore mantovano Walter Toajari.
Il percorso espositivo si articolerà attraverso un ampio e significativo arco temporale, dalle radici profonde dell’alto Medioevo fino alla fervente stagione artistica a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, attraversando le eleganze del Settecento e concludendo con un ritrovato capolavoro ottocentesco.
I visitatori avranno l’occasione di ammirare opere che spaziano dalla sacralità austera delle sculture lignee di alta epoca alla rinnovata centralità della figura umana ed all’armonia formale tipiche del Rinascimento, stagione che vede, ad esempio, nella Sacra Famiglia con San Giovannino di Bastiano da Sangallo detto Aristotile (Firenze, 1481 – 1551), mirabile nel trasmettere la dolcezza dei legami familiari con una maestria compositiva ineccepibile o nella delicata interpretazione della Natività offerta dal pennello del fiorentino Francesco del Brina (Firenze, 1529 – 1586), capace di condurre lo sguardo verso una spiritualità intrisa di luce e grazia, esempi di profonda devozione.
La mostra abbraccerà sei secoli di storia dell’arte italiana ed internazionale, con la presenza di illustri artisti come i già citati Bastiano da Sangallo e Francesco del Brina, ai quali si affiancheranno, tra i molti, Tommaso Bona, Enea Salmeggia detto il Talpino, Giovanni Bordone, Leandro Bassano, Luigi Gentile, Carlo Francesco e Giuseppe Nuvolone, Cesare Fracanzano, Giovanni Stefano Danedi detto il Montalto, Vincent Malò, Viviano Codazzi, Jan Miel, Maximilian Pfeiler, Abate Paolo, Carlo Antonio Tavella, Francesco Lavagna e Adrien Manglard.
Congedandosi dalle armoniose proporzioni e dal sublime equilibrio rinascimentale l’occhio dello spettatore andrà poi a spalancarsi dinnanzi alle sontuose e drammatiche porte del Seicento, dove la certezza del secolo precedente cedette il passo ad una più complessa indagine sull’esistenza, dove la luce e l’ombra danzarono in un balletto incessante, e dove l’arte si fece veicolo di passioni intense, di spiritualità tormentata e di un’esuberanza che non temeva l’eccesso. In un’epoca di fervore religioso e di profonda esplorazione dell’animo umano, il tema della Passione di Cristo ha rappresentato una fonte inesauribile di ispirazione per gli artisti. In questo contesto, due opere, pur nella loro diversità stilistica e di intenti, offrono spunti di riflessione sul modo in cui la sofferenza e la dignità di Cristo venivano interpretate all’alba del “Secolo d’Oro”: Il Cristo morto trasportato da angeli di Giuseppe Cesari detto il Cavalier d’Arpino (Arpino, 1568 – Roma, 1640), olio su tela, cm 92 x 70, reduce dal plauso internazionale riscosso nelle recenti esposizioni di Mesagne, Basilea e Seoul dedicate all’universo caravaggesco, e l’Ecce Homo di Enea Talpino detto il Salmeggia (Bergamo, 1565 – 1626), olio su tela, cm 84 x 61, tema che godette di straordinaria fortunata artistica nel panorama lombardo a cavallo tra XVI e XVII secolo come testimoniano le acute versioni del Giampietrino, di Luini, di Solario, di Procaccini e di Crespi.
Trasferitosi a Roma nella bottega di Niccolò Circignani, il Cavalier d’Arpino lavorò alle Logge Vaticane, distinguendosi rapidamente nel panorama manierista romano per creatività ed abilità tecnica, tanto da essere ammesso all’Accademia di San Luca (1583) e tra i Virtuosi del Pantheon (1586). Ottenne numerose commissioni nella capitale, tra le quali spiccano Trinità dei Monti, Palazzo Santori, Sant’Anastasio dei Greci e, a Napoli, presso la Certosa di San Martino. Sotto il pontificato di Clemente VIII Aldobrandini divenne uno dei pittori più richiesti a Roma, gestendo una prestigiosa bottega a Torretta, dove lavorò anche il celebre Caravaggio, di cui fu considerato maestro. Nel 1599 fu eletto principe dell’Accademia di San Luca, ricevendo la commissione per gli affreschi del transetto di San Giovanni in Laterano. Tra i suoi più prestigiosi committenti figurarono l’aristocrazia capitolina, le case reali di Spagna, Francia e l’imperatore Rodolfo II. Il nostro Cristo morto, che pare qui trascendere verso una dimensioni quasi astratta, presenta spiccate analogie con opere dello stesso soggetto conservate presso il M. Roy Fisher Fine Art Museum di New York e la Fondazione Cavallini Sgarbi.



Non meno significativa fu la vicenda biografica ed artistica del Salmeggia, così elogiato dal poeta e trattatista comasco Girolamo Borsieri in una lettera inviata al collezionista Scipione Toso:
«V’ha il Salmetia, il quale allo incontro contento dell’imitar la delicatezza e la semplicità di cui adoperava i pennelli nel principio del passato secolo, move a mirar devotamente ciascuna sua imagine fino inemici della stessa devotione».
Nato in un borgo della Val Seriana, si affermò progressivamente in ambito locale, a Bergamo e successivamente a Milano, lasciando opere significative in luoghi cardine come il Duomo e la Certosa di Garegnano. Il suo successo, affiorante in un contesto artistico milanese sempre più competitivo dominato dalle figure di Cerano, Procaccini, Cavagna e Lolmo, testimonia la sua notevole capacità artistica, che affondava le radici nella pittura di Giovan Battista Moroni, la cui influenza rimase costante pur arricchendosi con le novità apprese durante i suoi percorsi formativi, tra cui un presunto viaggio a Roma (1597) che gli valse l’appellativo di “Raffaello bergamasco”. Il nostro Ecce Homo appare sicuramente riconducibile ad una fase più matura della sua attività, come denotano il forte patetismo del volto, le espressioni minacciose dei carnefici e l’ambientazione scura con violenti contrasti luminosi, lezioni mirabilmente apprese dai pittori “pestanti”, nei confronti dei quali Salmeggia dimostrò un’accentuata sensibilità, fatta poi confluire anche nella Flagellazione (1609) in Santa Maria della Passione a Milano.


Il tema sacro non si consuma unicamente nelle varie raffigurazioni di Cristo in qualità di unico soggetto effigiato, ma si estende altresì agli episodi narrati nei Vangeli. È in questo contesto che si inserisce la pregevole collezione di Walter Toajari, che annovera tra i suoi capolavori due dipinti di rara qualità e bellezza, nati, ancora una volta, in seno alla prolifica cultura artistica seicentesca.
Louis Cousin, pittore fiammingo italianizzato in Luigi Gentile (Ninove, Bruxelles, 1606 – Roma, 1667) impugnò il pennello dando vita ad una vibrante e personalissima Annunciazione, olio su rame ovale, cm 26 x 34, che spicca per la peculiare brillantezza dei colori, soprattutto per ciò che concerne i blu ed i rossi dei panneggi, oltre ad un’inarrivabile finezza nel tratto ed una meticolosa orchestrazione scenografica, dimostrando l’indiscutibile vicinanza stilistica ed esecutiva con l’Annunciazione già realizzata per Papa Innocenzo X Pamphilj, per cui realizzò altre opere incentrate sulla stessa tematica sacra, rendendo di fatto possibile la provenienza della nostra proprio da quella raccolta. Esemplare a tal proposito la citazione del Passeri, che ricorda il successo ottenuto proprio dai dipinti in formato ridotto:
“In figure piccole era d’assai valore, perché oltre il finirle con diligenza grande le faceva d’assai buongusto, e vaghe, e nel fare i ritratti prevaleva al pari e forse più d’ogn’altro, perché si vedeva in quelle una certa esattezza di disegno et di componimento poco praticato da quelli che sogliono dipingere in piccolo”.


L’intensità cromatica contraddistingue anche la sublime tela raffigurante Santa Maria Maddalena che lava i piedi di Cristo, cm 128 x 105, per mano di Carlo Francesco Nuvolone (Milano, 1608 -1662), scelta non a caso come immagine di copertina della mostra. Formatosi presso la prolifica bottega fondata dal padre Panfilo, portata avanti assieme al fratello Giuseppe (1619 – 1703), e influenzato dagli insegnamenti di Giovanni Battista Crespi detto il Cerano, Carlo Francesco manifestò sin dalla giovane età una rara delicatezza ed una discreta introspezione psicologica dei sentimenti e delle espressioni umane, rese con pennellate fluide e atmosfere di intima dolcezza. Le espressioni dei personaggi, spesso malinconiche o contemplative, colti in momenti di profonda devozione o affetto, incanalano una gamma sottile di emozioni, che permeano dalla tela attraverso sguardi, gesti e pose. La sua capacità di infondere pathos nelle scene che dipinge è evidente non solo in quest’opera, ma emerge silenziosamente anche in altre prove appartenenti al suo vasto corpus artistico (si vedano, ad esempio, il Sogno di Giuseppe nella Chiesa di Sant’Agostino a Como, o ancora la Testa di giovane donna in collezione privata).


Lasciando alle spalle l’eco delle preghiere e la solennità biblica, veniamo catturati da un’esuberanza inattesa espressa dall’imponente Capriccio architettonico con Piazza San Pietro e altre vestigia romane, olio su tela, cm 149 x 200, che con la sua intrinseca libertà e la sua audace composizione, sfida ogni rigore ed ogni convenzione, rendendo di fatto gli autori della tela, il bergamasco romanizzato Viviano Codazzi (Bergamo, 1604 – Roma, 1670) in collaborazione con il fiammingo bambocciante Jan Miel (Beveren-Waas, 1599 – Torino, 1663), demiurghi di uno scenario immaginario che fonde in uno degli esiti meglio riusciti della loro carriera il genere del capriccio e quello del vedutismo. Roberto Longhi non esitò a insignire il Codazzi del titolo di “Caravaggio della veduta”. E a ben guardare quest’opera, la mente non fatica a convalidare tale ardita asserzione.
Dinnanzi ai nostri occhi si dipana un’immensa, immaginifica cartolina, dove Piazza San Pietro, fulcro e simbolo della Cristianità, si fa anfitriona di un consesso di monumenti che trascendono la logica spaziale e temporale. Qui, in una sinfonia di architetture e storia, l’Arco di Costantino dialoga armoniosamente con il Tempio di Antonino e Faustina, mentre la mole augusta del Colosseo si erge a custode di un passato glorioso. La Colonna di Traiano e la Colonna di Marco Aurelio svettano quali effigi di imperatori e di imprese memorabili, e i Dioscuri, con la loro statuaria possenza, sembrano vegliare su questo pantheon visivo. È in questa fantasmatica, eppure così vivida, ricostruzione che il genio del Codazzi, unito all’abilità nella resa della figura umana di Miel, si rivela pienamente, capace di trasfigurare il dato reale in una visione che, pur nella sua idealizzazione, pulsa di una verità artistica inequivocabile, degna del paragone che il Prof. Alessandro Agresti suggerisce con la Veduta di Piazza San Pietro conservato al Prado di Madrid, utile a datare la tela alla prima metà del XVII secolo, ovvero prima che Miel si recasse a Torino come pittore di corte per Carlo Emanuele II di Savoia (1658).
Ad elevare ulteriormente il pregio e l’intrinseca rilevanza di questa tela si profilano di capitale importanza gli studi in corso volti a discernere l’identità dello stemma, effigiato nell’angolo destro inferiore; esso, infatti, potrebbe ricondursi all’emblema araldico di Niccolò III, Giovanni Gaetano Orsini, sommo pontefice dal 1277 fino alla sua dipartita nel 1280: considerando poi la presenza, sebbene non ininterrotta, di Ferdinando Orsini e del suo erede, Virginio Orsini, nell’Urbe tra la fine del quinto e del sesto decennio del XVII secolo, emerge con forza l’ipotesi che uno di questi nobili personaggi possa aver rivestito il ruolo di committente dell’opera.


Proseguendo in questo percorso artistico di opere ancora inesplorate si giunge poi alla contemplazione del Parnaso, olio su tela, cm 73 x 134, dell’insigne pittore pistoiese Lazzaro Baldi (Pistoia, 1624 ca – Roma, 1703), su cui seguirà un articolo del Prof. Alberto Crispo che verrà pubblicato sulla stessa rivista d’arte About Art , capolavoro intriso di mito e poesia facente parte del trittico oggi parzialmente esposto nelle sale della Galleria Spada di Roma e databile intorno alla prima metà degli anni Ottanta del XVII secolo. Un’opera dinnanzi alla quale l’animo del visitatore si eleva percependovi il fruscio delle foglie di alloro e l’eco delle Muse radunate attorno alla melodia armoniosa della lira di un iridescente Apollo. In questo contesto aulico del Museo Diocesano la tela si rivela un punto di convergenza straordinario: la presenza delle altre due tele del trittico (un tempo ubicato nella casa dell’artista stesso come riporta l’inventario dei beni stilato dopo la sua morte il 18 aprile 1703) nella Galleria Spada a Roma testimonia il legame indissolubile tra l’artista e la Città Eterna. Baldi, avendo assorbito la lezione del celebre maestro Pietro da Cortona, fu accolto nel 1652 tra le schiere elette degli accademici di San Luca, soglia che apriva al riconoscimento ed alle più prestigiose commissioni, come quella ottenuta nel fastoso Palazzo del Quirinale, residenza pontificia dove dispiegò la sua arte in tre affreschi destinati alla galleria di Alessandro VII, dando vita con mano sapiente e visione profonda alla Creazione di Adamo ed Eva, al Diluvio universale e all’Annunciazione. Già in queste opere, espressione della sua prima maturità artistica, si palesa un distacco dall’impetuoso e dinamico linguaggio barocco che caratterizzava il Berrettini, per abbracciare cadenze più placide e classiciste affini alla maniera di Carlo Maratta. L’occhio del Baldi, attento e perspicace, non si limitò a seguire un’unica scia, volgendo lo sguardo anche alle prove di artisti quali Giacinto Brandi e il Baciccio, accogliendo così gli sviluppi della tradizione lanfranchiana e le suggestioni della scuola neoveneta, in una sintesi che arricchiva la sua tavolozza espressiva.

Il percorso espositivo, in grado di tessere un dialogo in perfetta armonia tra le inedite opere proposte dalla galleria Ars Antiqua e l’originaria e preziosa collezione del Museo Diocesano di Mantova, si concluderà con la proposizione di un’opera che negli ultimi decenni è stata avvolta nel mistero della sua assenza e che in questa occasione ha riabbracciato per la prima volta la luce, vantando un curriculum degno delle più prestigiose collezioni internazionali, testimonianza eminente, sia per la profondità del suo contenuto che per l’eccellenza della sua qualità stilistica, della pittura di storia che fiorì rigogliosa, soprattutto in ambito milanese e lombardo, negli anni della Restaurazione.
Si tratta di una monumentale tela, sia per dimensioni che per soggetto, di Carlo Arienti (Arcore, 1801 – Bologna, 1873), olio su tela, cm 210 x 243, che trascende la mera rappresentazione storica delle orme consuete di Machiavelli o Guicciardini, attingendo consapevolmente ad una fonte di ben altra risonanza emotiva: il dramma alfieriano de La congiura de’ Pazzi, chiave di volta per comprendere la vibrante forza drammatica che pervade il dipinto. Il momento immortalato non è un frammento qualsiasi della storia, ma l’apice della tensione narrativa, tratto dalle scene I e II del V atto della tragedia. Al centro della composizione, con una bellezza che prelude alla tragedia, si erge Raimondo Pazzi (personaggio di finzione, ma ispirato a Francesco nella realtà storica), sul punto di abbracciare il suo destino. La sua figura è bilanciata da un contrasto di forze: da un lato, la moglie Bianca de’ Medici, con i figli, incarnazione dell’angoscia e della premonizione funesta resa attraverso il suo gesto di trattenere il marito con terrore negli occhi; dall’altro lato vi è la maestosa figura del vecchio padre, Guglielmo (nella realtà storica Jacopo), che sprona il figlio verso l’ineluttabile.

L’importanza intrinseca di quest’opera, a lungo indagata dal Prof. Fernando Mazzocca, ne decretò la meritata notorietà, culminata nella pubblicazione in occasione della fondamentale mostra a Palazzo Pitti del 1973-1974 dedicata al Romanticismo storico, circostanza nella quale fu segnalata la persistente dimora nel luogo d’elezione: la villa di Sant’Albino a Monza, proprietà dell’illustre famiglia Porro Schiaffinati. Il dipinto, infatti, si identifica senza dubbio con quello che, esposto con fragoroso successo di pubblico e critica alla rassegna annuale dell’Accademia di Belle Arti di Brera, era stato commissionato dal Conte Alfonso Porro Schiaffinati, un giovane aristocratico ritratto nel 1834 dallo stesso Arienti. Risulta palese, dunque, il legame privilegiato che dovette intercorrere tra l’artista e questa figura di nobile illuminato e di orientamenti liberali, il cui patriottico ardore e la fraterna amicizia con Garibaldi gli valsero l’appellativo di “Conte rosso”. Il suo precoce interesse per la pittura storica germogliò, verosimilmente, dai contatti con Francesco Hayez, che lo scelse come modello per tele di capitale importanza (si pensi al Carmagnola del 1820-1821, dove Alfonso prestò le sembianze al protagonista o al monumentale Maria Stuarda che sale al patibolo del 1827, dove compare nella figura dell’aitante paggio alle spalle della regina). Il pittore di Arcore, che sarà elevato al primo posto nella biografia a lui dedicata nel 1873 da Cesare Masini anche per l’impegno ideologico e le opere realizzate per il Palazzo Reale di Torino, si annovera, al pari di Hayez, tra i protagonisti del Romanticismo storico. Proprio nelle Memorie di quest’ultimo, infatti, Arienti venne consacrato ed innalzato al vertice di quella schiera di artisti che, nella Milano dell’epoca, diedero lustro all’arte, lodandone la superiore valenza, la profonda conoscenza della composizione, l’eleganza nel disegno e la bravura nel dipingere. Tra le sue tele più preziose, Hayez citò proprio la tela qui esposta, descritta come un
“bellissimo quadro che si ammira ancora nella villa di S. Albino presso Monza del conte Porro Schiaffinati”, e gli Angeli del Calvario, “vasto dipinto, il cui bellissimo soggetto fu tratto dal sonetto del Monti, commissione del cav. Gargantini“.
Che la Congiura de’ Pazzi fosse considerata non solo il capolavoro dell’Arienti, ma una vera pietra miliare nella pittura storica, è attestato dal suo percorso trionfale: già celebrato con fragore all’Esposizione di Brera del 1837, il dipinto fu poi inviato dallo Schiaffinati all’Esposizione Universale di Parigi del 1855 ponendo, in tal modo, con la sua inestimabile magnificenza, il suggello finale e simbolico di questa esposizione di “tesori da collezione”.
La mostra verrà inaugurata giovedì 29 maggio alle ore 18.30 e sarà visitabile gratuitamente tutti i giorni dalle ore 11.00 alle ore 20.00.
Durante la serata inaugurale si terrà un breve conferenza che vedrà intervenire il conservatore del museo Dott. Marco Rebuzzi, il collezionista Walter Toajari, i galleristi Dott. Federico e Arch. Francesco Bulgarini e l’architetto Gianluca Nicolini, consigliere e membro del comitato scientifico del Complesso Monumentale della Pilotta, che illustrerà un’inedita tela raffigurante Madonna con Bambino realizzata da Pomponio Allegri (Parma, 1521 – 1593), figlio di Antonio Allegri detto Il Correggio, della quale verrà ripercorsa l’intera vicenda, dalla collocazione originale parmense alle spoliazioni napoleoniche.
Greta LEONI Milano, 25 Maggio 2025