P d L
Eugene Berman (San Pietroburgo, 1899 – Roma, 1972), pittore, scultore, scenografo, illustratore, scrittore, collezionista, insomma un Artista a 360 gradi e con la A maiuscola, aveva nel cuore l’Italia, ed “amava immaginarsi romano, veneziano, vicentino o anche napoletano, insomma italiano”, ma venne tanto apprezzato all’estero quanto poi “malamente corrisposto” nel nostro paese. Monica Cardarelli, impegnata da tempo con la sua Galleria il Laocoonte ed affiancata da Marco Fabio Apolloni, a far riemergere da un oblio spesse volte ingiustificato movimenti e figure di artisti che operarono tra la fine dell’800 e i primi decenni del XX secolo, e che meritano invece riconsiderazione e attenzione, ha impegnato con vera acribia la sua abilità di storica dell’arte in un lavoro di ricerca davvero gravoso, teso al recupero e alla rivalutazione dell’artista russo di nascita ma naturalizzato italiano, un lavoro che ora vede la luce, nelle edizioni del Laocoonte, sottoforma di due amplissimi volumi. Ne esce la figura di un Artista, “all’avanguardia delle Avanguardie” che ebbe un ruolo di primo piano nelle vicende artistiche della prima metà del ‘900 attraversando con bravura e intelligenza un periodo certo tra i più turbolenti socialmente ma altrettanto affascinante culturalmente ed artisticamente. Cortesemente l’Autrice ha accettato di rispondere ad alcune nostre domande
La collezione rivelata e l’opera riscoperta di Eugene Berman (1899 – 1972)
A cura di Elisabetta Scungio, Sara De Angelis, Monica Cardarelli
Museo archeologico nazionale dell’Agro Falisco e Forte Sangallo – Civita Castellana – Viterbo
VENERDI’ 10 GENNAIO 2025 – ore 16:00
-Eugene Berman. Il tesoro di Civita Castellana, Edizione del Laocoonte 2024, è il titolo dei due volumi che hai dedicato all’artista russo di nascita, con cittadinanza americana, e naturalizzato in Italia. Quando e come nasce quest’idea?
Nel 2019, quando ho cominciato le ricerche su Eugene Berman (1899 – 1972) per la catalogazione di tre suoi disegni a china. Erano bozzetti che l’artista aveva realizzato per la rivista “Life” nel 1962, per illustrare l’inserto dedicato ai miti dell’antica Grecia, e che sarebbero entrati a far parte della mostra Novecento Classico. Scavando nel passato dell’artista sono giunta a Civita Castellana, dove è confluita non solo la sua collezione di reperti antichi, ma anche un voluminoso nucleo di opere di sua mano.
Sono particolarmente grata alla direttrice del museo archeologico dell’Agro Falisco – Forte Sangallo, Sara De Angelis, che ha accolto sin da subito e con grande entusiasmo e lungimiranza il progetto della mia ricerca, consentendomi di catalogare e fotografare l’intero nucleo di opere di mano dell’artista, più di 8.000 immagini. Sono inoltre altrettanto grata a Stefano Petrocchi, già direttore della Direzione Generale dei Musei del Lazio e alla nuova eletta direttrice Elisabetta Scungio, che prontamente ed entusiasticamente hanno consentito la pubblicazione della mia ricerca nei due volumi, il primo dedicato ai dipinti e fogli sciolti e il secondo dedicato alla miriade di album e taccuini di disegni, schizzi e progetti dell’artista.
-La tua attività di studiosa e ricercatrice si è da sempre caratterizzata nella cura di una serie di eventi alla Galleria del Laocoonte, ma anche in musei pubblici, soprattutto su nomi e movimenti di artisti primonovecenteschi; è sotto questo aspetto che vanno letti i motivi che ti hanno spinta oggi a un’impresa davvero tanto ragguardevole quanto audace per non dire azzardata, cioè ricostruire la vicenda umana e artistica di una personalità che dire eclettica è dir poco come Eugene BERMAN, se è vero che -come compare nella nota in copertina- “ .. nel nostro paese è stato malamente corrisposto” ?
Si, purtroppo è proprio così, Eugene Berman fu “malamente corrisposto” dal nostro paese. L’artista, anche se nato a San Pietroburgo amava immaginarsi romano, veneziano, vicentino o anche napoletano, insomma italiano, “un po’ come Stendhal quando si diceva milanese”, come Berman stesso aveva scritto o “come in certi momenti si sono sentiti italiani Mozart, Goethe, Byron, Shelly e tanti altri”. Sin da giovanissimo aveva sognato di vivere in Italia, ammirato dalla sua arte, Classica, Medievale, Rinascimentale, Barocca, e quando vi giunse per la prima volta, a 23 anni, sentì di essere finalmente approdato nella sua terra promessa. Vi si trasferì dopo la dolorosa perdita della moglie, Ona Munson (1903 – 1955), attrice Hollywoodiana, nota al grande pubblico per aver interpretato il ruolo di Belle Waitling nel colossal Via col vento (1939).
Stabilita la sua dimora a Roma, al terzo e quarto piano di Palazzo Doria Pamphili, seguitò a viaggiare in Italia percorrendola in lungo e largo.
Ne cantò in pittura le bellezze, e non certamente come i souvenirs di un turista, ma come il succo concentrato di secoli di sapere e conoscenza. Nella sua dimora romana trasferì il suo tesoro più grande, la sua collezione di reperti archeologici ed etnoantropologici, più di 3.000 pezzi, tutti donati all’Italia, il suo unico vero amore, ricevendone in cambio un ingiusto e crudele oblio.
E’ veramente affascinante il contesto in cui Berman si formò vale a dire la Russia prerivoluzionaria: si parla di lunghe vacanze, esaltanti salotti letterari, riunioni famigliari in splendide ville, ed uno zio -che lo adottò dopo la morte del padre- che viveva “nel lusso più sfrenato”; la tua ricostruzione è accuratissima ma in qualche modo mi colpisce il fatto che non sembra esserci neppure una lontana percezione della tempesta in arrivo con la Prima guerra mondiale e poi con la rivoluzione bolscevica.
Eugene Berman, nasce da una famiglia di origine ebrea, il patrigno, Efim Shaikevich, era un facoltoso industriale, nonché direttore della Banca internazionale di Commercio della Russia. Le feste che era solito dare nel suo sontuoso appartamento a San Pietroburgo accoglievano non solo ricchi uomini d’affari, ma anche scrittori, ballerini, attori e musicisti. Frequenti erano inoltre i viaggi che tutta la famiglia faceva in Europa. Eugene Berman padroneggiò sin dalla sua giovinezza la lingua francese e tedesca, cui più tardi aggiunse quella inglese e naturalmente quella italiana. Anche la frequentazione del teatro, per concerti, balletti e opere era assidua e costante. Una condizione economica e culturale di assoluto privilegio, che inizialmente risentì solo in modo marginale degli accadimenti politico-economici dell’epoca. Tuttavia, anche gli Shaikevich subirono il contraccolpo della Rivoluzione. Costretti a riparare a Parigi, ridimensionarono, anche se non in maniera drastica, la loro condizione di privilegio.
La figura che emerge in quel contesto e che sarà sempre una sorta di faro per l’artista è il fratellastro Anatole, un vero Dandy, il cui profilo sembra ritagliato precisamente da quello dei protagonisti dei romanzi del movimento decadente del tempo; perché Berman restò così colpito dalla personalità del fratellastro ? e questo non segnò in qualche misura anche il suo percorso artistico, se è vero che a fronte di quanto a livello culturale stesse accadendo in quel torno di anni (sono gli anni delle avanguardie) egli scelse la strada dei Neoromantici, un ‘non movimento’ -se mi consenti questa espressione-, che in effetti ebbe una risonanza assai limitata, con al massimo due o tre adepti ?
Berman letteralmente adorò Anatole, primogenito di Efim Shaikevich, e le ragioni di questo sentimento sono molteplici, non solo la personalità carismatica di questo fratellastro, coltissimo, raffinato, bello ed elegante, ma anche alcuni fatti contingenti: Anatole era più vecchio di Eugene di ben vent’anni, tanto da poter essere considerato più un padre che un fratellastro, a questo si aggiunge che proprio quando Eugene perde suo padre a sei anni, Anatole si separa da sua moglie e dal suo unico figlio André, di poco più piccolo di Eugene. Così, in modo del tutto naturale Eugene si lega ancor di più ad Anatole e quest’ultimo a lui, considerandolo il suo vero discepolo ed erede spirituale. Da Anatole Berman erediterà l’amore per l’Italia, per il collezionismo e per il lusso, come ebbe a dire il fratello di sangue di Eugene, Leonid, anch’egli diventato pittore proprio grazie alla spinta di Anatole.
Eugene Berman aveva vissuto a Parigi nel momento della sua massima esplosione artistica, ma già molto prima si era formato sull’esempio dei grandi maestri dell’arte italiana, tanto in pittura che in architettura. Aveva visitato musei, contemplato monumenti, studiato e ammirato sopra ogni cosa le architetture palladiane. La sua arte, contrariamente a quanto semplicisticamente si possa immaginare, è più all’avanguardia dell’ultima avanguardia, la sua pittura, non solo per i soggetti scelti, ma per la tecnica utilizzata, sperimenta novità assolute. Usa la sabbia per le sue Piramidi egizie, gocce d’acqua raggia per i fondali del suo Narciso e per le sue nature morte, vecchi dipinti su cui dipinse a sua volta visionarie vedute e spazi senza tempo.
Come si diceva in quegli anni (gli anni del simbolismo, fauvismo, cubismo, futurismo, espressionismo, dadaismo, suprematismo ecc), emergevano personalità di straordinaria rilevanza nel campo delle arti in generale, che Berman ebbe modo di frequentare diventando con molti di loro anche amico, parliamo di Picasso, Braque, Dalì, Man Ray, De Chirico, ma poi Christian Dior e Gertrude Stein, Igor Stravinsky, Serge Diaghilev e George Ballanchine, insieme a collezionisti e galleristi di primo piano come Julien Levy o Russel Hitchckok o Duncan Phillips per non dire del critico James Thrall Soby, o di Gian Carlo Menotti, e potrei citare ancora molti nomi.
Ti chiedo però se il fatto che quello che tu hai definito “il suo habitat”, vale a dire “il mondo raffinato e lussuoso in cui era stato abituato fin dall’infanzia”, non finì per limitarne poi gli interessi, i gusti, le propensioni, in una parola la visione estetica.
È assolutamente un luogo comune che il privilegio sia limitante, inoltre ci tengo a precisare che Eugene Berman conobbe bene anche la privazione. Quando a diciotto anni fu messo in prigione dai bolscevichi per tre mesi, una volta liberato, secondo quanto scrive il fratello Leonid, Eugene non fece un solo lamento. E a Parigi diciannovenne cominciò subito a guadagnarsi il pane dipingendo.
La sua visione dell’arte, inoltre, ebbe orizzonti vasti, partendo dalle origini fino alle ultimissime novità. Berman tenne a battesimo diversi artisti che sperimentarono soggetti e tecniche nuove, come Vera Strawinsky o James Leong.
Vorrei adesso una tua riflessione personale, per quanto breve, sul ‘carattere’ di Eugene Berman; mi pare da quello che scrivi che non doveva essere un tipo ‘facile’, per così dire, ed anzi leggo dalle tue note che ebbe scontri e liti con diversi dei suoi amici fino a rotture eclatanti, ad esempio con la stessa Gertrude Stein, con Soby, e poi perfino con Bertolt Brecht, con Giancarlo Menotti e con il Direttore dell’American Ballet Oliver Smith … cosa puoi dire in proposito, magari che non amava essere contraddetto?
No, non direi proprio che Eugene Berman non amava essere contraddetto. Le incomprensioni o le liti di cui riferisci si sono manifestate con personaggi dal carattere non propriamente accomodante e pacifico. Brecht, per esempio è stato leggendariamente irascibile e la Stein notoriamente volubile e suscettibile. Con Menotti poi non ebbe liti, semplicemente il suo comportamento fu una delle cause del mancato compimento della commissione della fontana di Spoleto, ai cui progetti Berman aveva lungamente lavorato! Smith invece si appropriò della sua opera, costumi e scenografie per Romeo and Juliet, spacciandole per sue. Per quanto riguarda Soby si deve dire che dopo aver preferito Berman a tutti gli altri artisti di cui si fece sostenitore, parlo del gruppo dei Neoromantici, dopo averlo definito uno dei pochi artisti che avrebbe sopravvissuto alle generazioni future, dopo avergli dedicato mostre, articoli e interi capitoli nei suoi scritti, improvvisamente lo escluse dal suo panorama, non rispondeva più neppure alle sue telefonate, solo per inseguire, come giustamente dichiarò Berman “l’etichetta di avanguardia”. Berman era piuttosto un uomo integro nei sentimenti, credeva nell’amicizia e nel rispetto di certi valori, come la lealtà, la fedeltà e l’educazione, per questo era spesso deluso dal comportamento altrui.
Inoltre, sempre sul lato della sua personalità, quale fu effettivamente il suo rapporto con le donne? Sappiamo del suo matrimonio con Ona Munson, un’attrice americana che prima delle nozze ebbe molti amanti maschili e soprattutto femminili, ma sappiamo anche da suo fratello Leonid che Eugene “non ebbe mai relazioni con donne”.
L’obiettivo delle mie ricerche è sempre stato quello di inquadrare e far conoscere l’opera degli artisti cui mi sono dedicata, la definizione della sfera sessuale è per me assolutamente irrilevante. Se sia stato omosessuale, bisessuale, eterosessuale, fluido o altro, questo, al di là delle illazioni e dei chiacchiericci, nessuno può confermarlo con certezza. Inoltre, ritengo corretto rispettare la volontà di riservatezza dell’artista. Già da adolescente Berman aveva dichiarato al fratello, desideroso di sapere della sua vita amorosa, di non voler condividere né con lui né con altri la sua sfera sentimentale.
IL Teatro fu probabilmente l’occupazione che diede maggiori soddisfazioni in termini di critica e anche in termini economici a Berman. Il critico Raffaele Carrieri lo definiva “il più grande scenografo vivente”.
Poi a un certo punto pensò che era arrivato il momento di dedicarsi di più o solamente alla pittura; cosa avvenne effettivamente? E soprattutto come reagì al doppio rifiuto che gli opposero per la partecipazione alla Biennale di Venezia nel ‘ 50 e nel ’51, definendolo “pittore frivolo”.
Eugene Berman è stato un artista poliedrico, in grado di dipingere un quadro, affrescare un muro, creare un costume di scena, progettare scenografie, arredi, grafiche per illustrare libri, locandine e riviste, come pure l’architettura di una fontana monumentale. Si considerava però un pittore e anche se la lunghissima e brillante attività di scenografo e costumista gli diede fama e ricchezza egli desiderò da sempre dedicarsi solo ed esclusivamente alla pittura. L’esclusione dalla Biennale di Venezia fu certamente una delusione per l’artista che, come detto, si sentiva italiano, ma questo non lo fece desistere dal suo intento di lavorare ed esporre in Italia, ed è esattamente quello che fece in tanti anni, anche senza passare per la Biennale di Venezia.
Un discorso a parte merita il cosiddetto “Tesoro di Civita Castellana”, che è il sottotitolo dei tuoi due volumi dedicati a Berman; cosa puoi dirci di questa passione che portò Berman ad accumulare una collezione di pezzi straordinari?
Eugene Berman già da adolescente accompagnava Anatole alla ricerca di opere d’arte per la sua collezione, che vantava firme d’eccezione tra cui Canaletto, Dosso Dossi, Guardi e persino, pare, un dipinto di Giorgione, i tesori di un altrettanto prezioso appartamento sulla prospettiva Nevskij a San Pietroburgo. Noto a tutti per il fasto degli arredi – tutta la camera da letto di Anatole era appartenuta a Caterina II – e per gli inusuali colori delle pareti, blu cobalto, rosso e giallo. Fu questo luogo una sorta di faro per Berman che, come detto, accumulò nei due piani di Palazzo Doria Pamphilij la sua ricca e variegata collezione, creando attorno a sé un ambiente che corrispondeva perfettamente alla sua intima personalità di uomo colto, raffinato, estremamente curioso di conoscere ogni cosa di ogni luogo.
Arricchita negli anni fino a raggiungere la ragguardevole cifra di 3.000 unità, “la collezione di Papa Eugenio”, come soleva definirla la sua fedele domestica, Armida Pellegrini, fu donata, per sua volontà testamentaria all’Italia, e più precisamente come recita il testamento “ad una istituzione che goda della esenzione dalle tasse o imposte di successione a condizione che detta istituzione conservi l’intera collezione intatta, accessibile al pubblico e debitamente conservata, esposta e sistemata”. Sono passati più di cinquant’anni dalla morte dell’artista ed è un vero peccato che queste sue volontà non siano state ancora rispettate e compiute.
P d L Roma 9 Gennaio 2025