Più che un errore giudiziario; una “tragica incompetenza” la sentenza sul tizianesco “Gentiluomo con cappello”.

di Gloria GATTI

Che la campana abbia suonato per “Il Gentiluomo con cappello” di incerta paternità e ancor più dubbia attribuzione a Tiziano Vecellio, persino per i giudici del Supremo Collegio, e che sia stato confermato per lui un provvedimento di confisca ex art. 174, comma 3, del Codice dei Beni Culturali, in quanto esportato illegalmente, in Svizzera, benché posto sotto sequestro in Italia, oggi poco importerebbe se non fosse perché quella campana, ha tristemente suonato per tutti.

La premessa, infatti, contenuta nella sentenza della Corte di Cassazione (Cass. Pen, sez. III, n. 9101/2023) del 3 marzo scorso che è bene riportare integralmente recita:

“È opportuno muovere dal chiaro indirizzo esegetico di questa Corte, secondo cui sui beni culturali vige una presunzione di proprietà pubblica con la conseguenza che essi, sulla base di una oramai ultrasecolare tradizione normativa, appartengono allo Stato italiano in virtù della legge (legge n. 364 del 1909; regio decreto n. 363 del 1913; legge n. 1089 del 1939; articoli 826, comma 2, 828 e 832 del codice civile), la cui disciplina è rimasta sostanzialmente invariata anche a seguito della introduzione del decreto legislativo n. 42 del 2004. Sono fatte salve ipotesi tassative e particolari, nelle quali il privato che intenda rivendicare la legittima proprietà di reperti archeologici o comunque di beni qualificabili come culturali deve fornire la relativa, rigorosa prova, dimostrando, alternativamente che: 1) reperti gli siano stati assegnati in premio per il loro ritrovamento; 2) i reperti gli siano stati ceduti dallo Stato; 3) i reperti siano stati acquistati in data anteriore all’entrata in vigore della legge n. 364 del 1909. Le Sezioni civili di questa Corte (Sez. 1, 10 febbraio 2006, n. 2995, in motivazione) hanno affermato che la legislazione di tutela dei beni culturali, in particolare dei beni archeologici (ma il principio vale anche per gli atri beni di interesse storico-artistico), è informata al presupposto fondamentale, in considerazione dell’importanza che essi rivestono (anche alla luce della tutela costituzionale del patrimonio storico – artistico garantita dall’art. 9 Cost.), dell’appartenenza di detti beni allo Stato, per cui l’art. 826, comma 2, cod. civ. assegna al patrimonio indisponibile dello Stato “le cose d’interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico, da chiunque e in qualunque modo ritrovate”: disciplina confermata dalla legge. n. 1089 del 1939, artt. 44, 46, 47 e 49, cui rinvia l’art 932, comma 2, cod. civ.
E tale presunzione di proprietà statale non crea un’ingiustificata posizione di privilegio probatorio perché siffatta presunzione si fonda, oltre che sull’ id quod plerumque accidit anche su una “normalità normativa” sicché, opponendosi una circostanza eccezionale, idonea a vincere la presunzione, deve darsene la prova (così, in motivazione, Sez. 3 n. 42458 cit.)”.

Se non si trattasse di una sentenza della Suprema Corte, ma di una emessa in una landa desolata di una soppressa sezione distaccata di un qualche tribunale minore ai confini del penisola, la decisione dovrebbe essere classificata nella categoria errori giudiziari, quelli che noi avvocati siamo costretti sempre a evidenziare come improbabili ma, tuttavia, come una possibile variabile discendente dal fatto che il potere giurisdizionale è, per ora, ancora in mano a degli esseri umani, e come tali fallibili per natura e che questi possono, talvolta, errare anche grossolanamente.

Resta, però, che è la prima volta, pur nella tragica incompetenza degli organi di giustizia nella materia dell’arte e dei beni culturali, che un dipinto viene equiparato a un reperto archeologico la cui proprietà è regolata dal capo VI del Titolo primo del Codice dei Beni Culturali (artt. 88-93).
Soltanto le cose indicate dall’art. 10 da chiunque ritrovate nel sottosuolo o sui fondali marini appartengono allo Stato.

I dipinti e le sculture, di proprietà dei privati, almeno per il momento, anche qualora per dichiarazione ex art. 13 del Codice diventino Beni Culturali, restano di proprietà privata e conservano i diritti previsti dell’art 832 C.C.. che prevede che

“il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico”

Lo Stato può divenire proprietario di detti beni solo nel caso in cui ai sensi dell’art. 70 del Codice eserciti la facoltà di acquisto coattivo al valore dichiarato nella richiesta di esportazione, ovvero a seguito esercizio del diritto di prelazione in caso di vendita di beni vincolati ai sensi degli artt. 60-62 del Codice.

Benché il mercato dell’arte e dell’antiquariato non sia mai stato considerato strategicamente rilevante e coinvolga così pochi players da non essere un centro di interesse di lobbying da essere ascoltati, ogni individuo, che possiede “una cosa”, oggi, in uno stato democratico dovrebbe indignarsi e persino protestare davanti alla spregio della proprietà privata, garantita dalla Costituzione e contenuto in quella sentenza, perché come scriveva Ernst Hemingway, “ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto”, come lo è quell’anonimo Gentiluomo con il cappello che oggi dovrebbe essere simbolo di una Costituzione lacerata e umiliata da quella giustizia che dovrebbe invece proteggere e riparare tutto e tutti dai torti subiti.

Gloria GATTI  Milano  26 Marzo 2023