“Lena” e le donne di Caravaggio. Splendori e miserie di artisti e cortigiane nella Roma del primo Seicento

di Sergio ROSSI

E’ appena uscito pei tipi della casa editrice Donzelli di Roma, con una postfazione di Fiora Bellini, il libro di Riccardo Bassani La donna del Caravaggio. Vita e peripezie di Maddalena Antognetti, a ormai 27 anni dall’altro libro dei medesimi autori, sempre edito da Donzelli, Caravaggio assassino. Molto coraggiosamente Bassani, facendo pubblica ammenda, ammette proprio all’inizio del volume che:

«Alcuni documenti inediti proposti in quella sede furono da me trascritti in maniera infedele. Sebbene oggi possa dire che quelle difformità non hanno inficiato la fondatezza delle ipotesi allora avanzate, me ne scuso qui pubblicamente prima di tutto e in particolare con Fiora Bellini, ignara coautrice, con la casa editrice Donzelli e con tutti i lettori di Caravaggio assassino».

Devo dire però che al di là delle inesattezze (per lo più brevi interpolazioni, un paio delle quali, come vedremo, veramente inutili e che finivano effettivamente per inficiare in parte un lavoro comunque di grande interesse), quel libro fu sottoposto ad un vero e proprio linciaggio dalla comunità accademico-scientifica che mal sopportava che degli intrusi si permettessero di invadere il proprio “orticello”.

Linciaggio dal quale io stesso fui sfiorato nel corso di un convegno, solo perché Bassani e Bellini avevano citato in modo positivo un mio precedente lavoro. Spero comunque che la stessa cosa non si ripeta oggi perché quest’ultimo volume (anche se da me non condiviso in numerosi punti) porta degli importanti contributi non solo sulla “Lena donna del Caravaggio” e sull’ambiente storico, sociale e politico della città dei Papi a cavallo tra Cinque e Seicento, ma anche sull’ultimo periodo romano dello stesso Merisi.

Ad esempio, non possono esistere più dubbi sul fatto che la fanciulla prima citata sia da identificarsi con la cortigiana Maddalena Antognetti, anche se vi è ancora chi, contro ogni evidenza ed in nome di una anacronistica pruderie, pretende che la modella del Merisi fosse piuttosto “una honesta zitella da marito”, come a suo tempo sostenuto da Giovan Battista Passeri, quasi che il termine “cortigiana” sia un insulto.

Si trattava invece per lo più di vittime incolpevoli costrette a prostituirsi già a tredici o quattordici anni ed a lottare con tutte le forze in un mondo ipocrita e maschilista. Ed in questo contesto la Maddalena che emerge dal libro di Bassani ha una sua tragica eroicità, perché ci vuole del vero e proprio eroismo per sfidare le convenzioni del tempo e prestare ripetutamente il proprio volto come modella al più discusso e controverso pittore del tempo.

Ma in quale contesto politico, sociale e demografico va collocata l’avventura romana dei protagonisti della nostra storia? Se prendiamo ad esempio gli anni santi del XVII secolo, essi si presentano agli occhi dello storico

«con le caratteristiche di una manifestazione di massa dai livelli mai raggiunti nelle altre epoche dell’età moderna. E per almeno tre dei quattro giubilei ordinari del Seicento le cifre sono davvero rilevanti: in particolare nel 1600, nel 1625 e nel 1650 la città arrivò, secondo le stime più prudenti dell’accoglienza dei visitatori, a quadruplicare il proprio numero sino a raggiungere le quattrocentomila presenze estranee al tessuto urbano costituito dai residenti stabili»[1].

E’ sicuramente anche grazie a questo fenomeno che in un quadro di generale stasi o addirittura di decremento della popolazione urbana in Italia Roma rappresentava invece una lodevole eccezione. Infatti Napoli, la più popolosa città italiana, contava circa 280.000 abitanti nel 1606 e non più di 210.000 esattamente un secolo dopo; Palermo passò dai 105.000 del 1606 ai 110.000 del 1700; Milano vide la sua popolazione diminuire dalle 120.000 unità del 1600 alle 109.000 del 1700; infine Venezia contava 149.000 nel 1586 e circa 137.000 intorno al 1700.

Roma invece fu l’unica grande città italiana che conobbe una crescita di una certa consistenza, passando dai 102.000 abitanti del 1601 ai 135.000 del 1699, fondamentalmente in conseguenza delle sue spiccate capacità di attrarre popolazione dall’esterno e, nella seconda metà del secolo, anche grazie ad un buon andamento demografico naturale[2].

I giubilei però, con il loro enorme afflusso di pellegrini, non solo costituivano una importante opportunità economica e propagandistica, ma erano anche una grossa fonte di preoccupazione per le autorità politiche e religiose per le “tentazioni” cui erano sottoposti i viandanti “Romei” che, al contrario, sarebbero dovuti venire nell’Urbe proprio per espiare i loro peccati. Anche a scongiurare questi pericoli era preposta la congregazione di Propaganda Fide, che muterà il suo nome in De conversis ad fidem adiuvandis ed agirà in stretta collaborazione con il Santo Uffizio, con lo scopo di

«allontanare le meretrici dalle locande, togliere le immagini scandalose, far sì che non si conoscessero alcune cose che “scandalizzano assai detti signori [cioè i nobili pellegrini], principalmente che le donne maritate fanno le puttane, che le meretrici fanno l’amore in certe chiese come in S. Carlo nel Corso, San Lorenzo in Lucina, Sant’Andrea delle Fratte e Madonna del Popolo”»

come scrive Irene Fosi[3] citando anche un documento dell’Archivio per la Congregazione della Propaganda della Fede e come conferma Bassani nel suo libro.

Per questo, il 27 settembre del 1599, ad esempio, il governatore, «d’ordine espresso di Nostro Signore», aveva promulgato un editto inteso a limitare la «troppa libertà» delle cortigiane, proibendo loro, sotto pena «di frusta in publico, e esilio dalla città di Roma, e Stato Ecclesiastico», di «entrare, albergare, magnare, o dormire nelle camere locande, hosterie, alberghi, bettole, o luoghi simili di Roma, e suoi suburbij»; di stare alla «finestra, o in publico con vestiti da huomo scoperti»; di «uscire di notte dalle case loro, ne anco con li proprij vestiti di donna, né sole, né accompagnate». E ancora di entrare «nelle chiese, e luoghi ove siano stationi, perdoni, indulgenze, o feste, se non di giorno» e mantenendo «quella modestia che si conviene, non occupando i luoghi che si devono alle gentildonne, e altre signore, e donne honorate», ponendo particolare attenzione a che non commettessero per strada, e ancor «meno in chiesa, atti dishonesti, o lascivi».

E vi è da rimarcare come le chiese dove più frequentemente le “donne maritate” e “le puttane” si “congiungevano carnalmente”, tanto per usare il linguaggio del tempo, con i nobili pellegrini e non solo, erano proprio S. Maria del Popolo, S. Lorenzo in Lucina S. Andrea delle Fratte e soprattutto S. Carlo al Corso, racchiuse in una sorta di quadrato entro il quale si svolgeranno molte delle vicende riguardanti Maddalena Antognetti, la sorella Amabilia detta Pilla e lo stesso Caravaggio.

In effetti risulta oggi difficile trovare un esatto corrispondente delle “cortigiane” dell’età rinascimentale e barocca. Costoro infatti potevano passare con una rapidità sorprendente dal ruolo di “puttane di strada” a quello di amanti di Cardinali e Principi e viceversa per cui né il termine prostituta né quello di “escort” mi pare possano corrispondere loro in modo preciso. Forse si avvicinano molto di più alle attuali giovani frequentatrici di cene più o meno eleganti popolate a loro volta da miliardari, politici, membri di case regnanti, emiri o addirittura capi di governo, con esiti purtroppo a volte tragici, cui le cronache di questi anni, mesi e giorni ci hanno abituato. Con la differenza, appunto, che le “cortigiane” romane del Seicento erano schedate, in apparenza emarginate, sottoposte ad ogni forma di vessazione eppure godevano contemporaneamente di protezioni inimmaginabili e finivano spesso col fare una vita alla fine più libera e agiata di molte loro coetanee dell’alta o media società.

E così è accaduto anche a Maddalena Antognetti ed a sua sorella Amabilia detta Pilla, le cui vicissitudini sono puntualmente ricostruite nel libro di Bassani e che qui non sto a ripetere. Basti solo qualche breve cenno riassuntivo: Maddalena nasce nel maggio del 1579 e viene battezzata in S. Lorenzo in Lucina qualche giorno dopo; è figlia di Lucrezia e Paolo de’ Rossi (o Rubeis) Antognetti ed ha una sorella, Amabilia, più anziana di lei di due anni. Il padre, mercante di derrate alimentari, godeva di un certo benessere ma la sua morte improvvisa e prematura segnerà inizialmente il destino delle due fanciulle. Pilla sposa nel 1594 un tale Giacomo Fedini, da cui due anni più tardi ha un figlio, Paolo; ma anche il marito scompare improvvisamente senza lasciare traccia. Maddalena, al contrario della sorella, non si sposerà mai ed anzi inizierà poco dopo, presto seguita o preceduta da Pilla (questo non è ancora chiaro) la carriera di “cortigiana” attestata in numerosi documenti.

Nel ’98 Amabilia rimarrà incinta del capitano delle guardie pontificie (bargello) Ovidio Marchetti, suo protettore e presto anche persecutore, che godrà contemporaneamente dei favori di Maddalena, pare inizialmente estorti con la forza; proprio per questo, secondo l’uso dell’epoca, verrà successivamente accusato di “incesto”. Pilla darà alla luce nel marzo del ‘99 una bambina, Apollonia, che verrà registrata con l’insolita dizione di figlia di un’amica “cuiusdam amici cuius nomen ignoratur”. Nel novembre dello stesso anno anche Maddalena partorirà una “filia incerti patris”, Flavia, che presto scomparirà dalla sua vita, frutto di una sua relazione segreta (ma nemmeno tanto) con il potentissimo cardinale Alessandro Peretti Damasceni di Montalto, nipote di Sisto V.

Allontanatosi quest’ultimo, nella vita di Maddalena entrerà un altro influente personaggio, il fiorentino Ainolfo dei Bardi, cavaliere di Malta e capitano della compagnia dei cavalleggeri, da Bassani ritenuto il vero padre del bimbo che Maddalena darà alla luce il 15 dicembre del 1602, cui verrà dato il nome di Paolo e di cui si assumerà la paternità un certo Giulio Mastini, nobile urbinate e sodale dell’Ainolfi.

Solo pochi mesi prima Amabilia era stata aggredita per strada da un’altra celebre cortigiana di cui Caravaggio (che forse ne è stato anche amante) ha lasciato un ritratto ora andato distrutto[4]: si tratta di Fillide Melandroni, che spalleggiata dalla zia e da una serva, aveva apostrofato l’Antognetti come “vacca, poltrona, buggiarona (cioè bugiarda), fottuta in c..o”, tentando poi di malmenarla, come risulta dalle denunce dell’aggredita e da vari testimoni, tra cui la stessa Lena, soccorsa in aiuto della sorella e strattonata violentemente e gettata in terra benché fosse incinta.

Ora, curiosamente, Bassani non ricorda come la stessa Fillide, due anni prima, fosse stata protagonista di un’altra aggressione, ancora più violenta perché avvenuta addirittura brandendo un coltello, contro altre due cortigiane, Prudenzia e Caterina Zacchia; dico curiosamente, perché testimone e probabile causa della lite era stato proprio quel Ranuccio Tomassoni che sarà ucciso da Caravaggio nel 1606[5]: e dunque questo strano incrocio tra la Melandroni e le Antognetti, tra il Tomassoni e  Caravaggio, i quali ultimi nessun documento mette in relazione prima del tragico duello, è sicuramente qualcosa da approfondire, anche alla luce di una misteriosa postilla di Giulio Mancini su cui presto tornerò.

Intanto, spostandoci a rapidi passi in avanti, ritroviamo la nostra Lena in un documento che di certo la riguarda e nel quale viene esplicitamente definita come cortigiana, ossia una relazione del 2 novembre 1604 che recita:

«Questa notte andando alla cerca con la mia compagnia, quando sono stato in piaza Catinara ho trovato una certa Lena romana, che era ammantata con un ferraiolo, et erano sette ore sonate; et perché detta dona e cortigiana io l’ho mandata prigione a corte Savella».[6]

Ancora qualche mese ed il 15 luglio del 1605 la Antognetti, accompagnata dalla fedele serva Porzia, denuncia al Tribunale del Governatore che 15 giorni prima il notaio Gaspare Albertini, suo convivente more uxorio, per motivi di gelosia ed accusandola di continui tradimenti, l’aveva sfregiata in volto, non sappiamo se in modo permanente, anche se la giovane si era difesa sostenendo che “per amor suo aveva lassato ognuno[7].

La sera di venerdì 29 luglio del 1605, invece, a

«un’hora di notte in circa Mariano Pasqualoni, notaio presso il Tribunale del cardinal vicario, entrava nella cancelleria della corte criminale del governatore di Roma per denunciare di esser stato “assassinato” da Michelangelo da Caravaggio pittore».

Infatti, poco prima, mentre stava passeggiando a piazza Navona davanti al palazzo dell’Ambasciatore di Spagna in compagnia dell’amico Galeazzo Roccasecca, era stato raggiunto a sorpresa da «una botta in testa dalla banda di dietro» che lo aveva fatto subito cadere in terra.

«Il ferito ammise di non essere riuscito a riconoscere il suo aggressore, ma dichiarò anche di non aver dubbi sulla sua identità, non avendo questioni in sospeso se non “con detto Michelangelo, perché a queste sere passate havessimo parole sul Corso lui et io per causa di una donna chiamata Lena che sta in piedi a piazza Navona passato il palazzo ovvero il portone del palazzo del s[igno]r Sertorio Teofilo che è donna di Michelangelo”. Mentre asseriva di essere stato colpito con la spada, il Pasqualoni mostrò la ferita al cancelliere, il quale prese nota di aver rilevato “in eius capite a parte sinistra vulnus cum magna sanguinis effusione et carnis incisione”».

Quanto alla definizione “donna del Caravaggio che sta in piedi a Piazza Navona”, è ormai accertato che questo significa solo che la giovane abitava ai piedi della piazza e non che si prostituiva “in piedi” nella piazza, come per lungo tempo si è voluto intendere.[8]

Indubbio merito di Bassani è comunque quello di avere per primo messo in relazione questo episodio con lo sfregio al volto subito dalla Antognetti, che deve essere avvenuto proprio in simultanea con l’alterco in via del Corso tra Caravaggio e Pasqualoni, o forse potrebbe esserne addirittura stata la causa. Dalle carte non sappiamo infatti cosa i due si siano effettivamente detti, ma secondo la ricostruzione del Bassani deve essere stato il notaio ad offendere per primo il pittore, probabilmente accusandolo di “empietà” ma sottraendosi poi al guanto di sfida, forse solo verbale, che questi gli aveva lanciato, talché Caravaggio, colpito nell’onore, si era poi sentito autorizzato ad aggredire il rivale, ancorché in modo proditorio e non molto consono all’uomo d’onore che egli si sentiva di essere.

Non possiamo qui nel dettaglio seguire gli ulteriori sviluppi dell’intricata vicenda, del resto assai nota e per altro ben ricostruita dal Bassani, se non per ricordare la riappacificazione dei due contendenti avvenuta con atto pubblico consumatosi

«in uno dei luoghi più rappresentativi del potere romano, quello che, fin dai primi giorni del suo pontificato, Paolo V aveva scelto quale sua residenza preferita, il Palazzo Apostolico sul colle del Quirinale. Tutto si svolse significativamente nell’anticamera del cardinal Scipione Caffarelli Borghese il nipote del papa, da pochissimi giorni elevato alla porpora e che lo zio già progettava di proporre alla carica di Segretario di Stato. È documentato che quel giorno nel Palazzo Apostolico del Quirinale erano presenti sia il cardinal Scipione Borghese, sia Paolo V e lì fu redatto l’atto ufficiale per acclarare l’avvenuta riappacificazione».

Piuttosto sarebbe più importante appurare l’esatto ruolo svolto dal Pasqualoni nella vicenda. Nel libro viene smontata definitivamente la ricostruzione di Giovan Battista Passeri secondo cui il primo sarebbe stato un giovane dabbene spasimante della Lena, anch’essa “onesta zitella” insidiata dal dissoluto pittore che l’aveva scelta a modella per la Madonna dei Pellegrini ma d’altra parte nessun documento mette in relazione il notaio sia col Merisi che con la Antognetti prima del loro scontro in Piazza Navona.

Dunque il reale motivo del conflitto che lega i tre personaggi rimane al momento non chiarito, anche se l’ipotesi più plausibile è che il Pasqualoni nell’aggredire verbalmente Caravaggio in via del Corso abbia agito per così dire per conto terzi, pagandone poi per intero le conseguenze.

Nel libro che sto recensendo non viene alla fine chiarito quale sia stato l’esatto rapporto tra Caravaggio e la Lena: se infatti quest’ultima, come tutto lascia supporre è stata non solo la modella ma anche l’amante carnale – per usare un termine dell’epoca – del pittore, almeno a partire dal 1605, questo spiegherebbe molte cose: la gelosia violenta dell’Albertini, la gelosia altrettanto violenta dello stesso Merisi, le dicerie probabilmente subito sorte ma altrettanto rapidamente messe a tacere e smentite ufficialmente dallo stesso pittore, circa il fatto che egli avrebbe dato alla Madonna dei Pellegrini in S. Agostino e poi alla Madonna dei Palafrenieri le fattezze non di una semplice cortigiana ma addirittura della propria amante e del figlio di lei nelle vesti di Gesù Bambino.

Di quest’ultimo, come ho accennato in precedenza, si era assunto la paternità il nobile Giulio Mastini, ma non si può escludere (e di questo sembra convinto Bassani) che egli sia stato solo un padre “di copertura” e che il piccolo Paolo fosse invece figlio dell’amico e sodale Ainolfo de’ Bardi, che nel frattempo aveva una relazione più o meno stabile con la Antognetti.

Questo complicato intreccio, quasi da romanzo d’appendice, acquista ora una nuova luce se ci riferiamo ad una postilla autografa che il medico senese Giulio Mancini, primo informatissimo biografo del pittore, appose al ritratto di Michelangelo inserito nelle sue Considerazioni sulla pittura. Il commento del Bassani è talmente puntuale al riguardo che devo citarlo per intero (pp.185-187):

«L’appunto compare al margine sinistro di carta 60 verso di quella che doveva essere la copia di lavoro del trattato, oggi conservata presso la Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia. Infatti, a compendio del manoscritto, vi si trovano annotate decine e decine di glosse, quasi sempre di non facile lettura ed espresse in forma pressoché stenografica, che a volte si configurano come semplici correzioni del testo, altre come ripensamenti, altre ancora – ed è questo il caso – come dei veri e propri promemoria in cui sono sintetizzati fatti, questioni, indicazioni tornati alla mente dell’autore o di cui era venuto a conoscenza dopo la stesura del testo e sulle quali, con ogni probabilità, intendeva ritornare più compiutamente in una stesura aggiornata dell’opera. Subito colpisce un particolare: la nota a cui siamo interessati è l’unica apposta alla biografia del Caravaggio del tutto fuori contesto, non riferendosi né direttamente, né indirettamente all’episodio narrato in quel punto della vita del pittore. Va anche ricordato che fino ad oggi si è ritenuto che con questo promemoria il Mancini abbia voluto ricordare un fatto di sangue del quale Michelangelo era stato protagonista o nel quale era rimasto in qualche misura coinvolto, avvenuto nei suoi anni giovanili trascorsi in terra lombarda. La sua prima parte, quella più strettamente connessa ai fatti dell’estate del 1605, così recita: “Fece delitto. puttana scherzo et gentilhomo scherzo ferì il gentilhomo et la puttana sfregiano”».

Il commento del Bassani alla prima parte della postilla mi appare poco plausibile. Per l’autore infatti il delitto di cui sarebbe accusato Caravaggio è quello di essersi reso colpevole di sacrilegio nello scegliere la Lena come modello per la Madonna dei Pellegrini, violando i precisi dettami della Riforma Cattolica in materia di immagini sacre.

Dicevo poco plausibile per almeno quattro buone ragioni. La prima è che se così fosse stato il quadro sarebbe subito stato allontanato dalla chiesa degli agostiniani; la seconda è che mai uno scrittore raffinato e “di mondo” come il Mancini avrebbe definito “un delitto” dipingere un quadro, qualunque esso fosse; la terza è che la Madonna dei pellegrini, al contrario di altri dipinti caravaggeschi e nonostante lo “schiamazzo” provocato, è sempre rimasta al suo posto, a riprova che tutti, anche le autorità preposte, o non sapevano di cosa si trattasse o facevano finta di non sapere; l’ultima è che se diamo al termine del Mancini il suo giusto significato, cioè quello di contravvenire alle leggi, non abbiamo che l’imbarazzo della scelta nell’attribuire al Merisi di quegli anni qualche episodio che rientri in questa categoria.

Anche le frasi “puttana scherzo et gentilhomo scherzo” rimangono non chiarite, mentre è evidente che “ferì il gentilhomo et la puttana sfregiano” si riferisce al ferimento del Pasqualoni ed a quello al volto della Maddalena, qui messi in relazione tra loro in modo inequivocabile.

Non possiamo a questo punto soffermarci, per motivi di spazio, sulla seconda parte della postilla manciniana

«sbirri ammazzar. volevan saper che i compagni fu prigion un anno et lo volser veder vendere il suo va a perdono. fu prigion non confessa»,

per la cui spiegazione rimandiamo al testo di Bassani, ma essi si riferiscono in modo incontrovertibile agli avvenimenti che seguono l’episodio su cui ci siamo così dilungati: ed esattamente lo sfratto del Merisi dalla casa di Prudenzia Bruni; il conseguente sequestro dei suoi pochi beni mobili di cui conserviamo l’inventario; l’ennesimo fatto di sangue in cui fu coinvolto il pittore rifiutandosi di confessare “agli sbirri” chi l’avesse ferito; gli arresti domiciliari che seguirono a tutti questi accadimenti.

Per concludere con tutta questa parte della mia analisi devo ancora una volta dare la parola al Bassani citandone per intero un ampio brano che condivido nella sua sostanza:

«spostando lo sguardo dalla carta del manoscritto manciniano in cui è annotata la postilla a quella che le sta accanto, esso non può non essere attratto da altre due parole chiaramente annotate in alto sul suo margine sinistro: “Sempre Ranuccio”. Affermazione fin qui mai letta, trascritta e commentata. Eppure densa di sviluppi. La prima sensazione è che con questo forte richiamo, “Sempre Ranuccio”, si chiuda in qualche modo il cerchio che il medico senese aveva iniziato a tracciare con l’altrettanto forte affermazione di apertura: “Fece delitto”. Aveva forse voluto rammentare il ruolo avuto da Ranuccio Tomassoni negli accadimenti che videro implicati il Caravaggio e Maddalena Antognetti nell’estate del 1605 e in quelli che li avevano senza soluzione seguiti? Forse qualcuno che di quei fatti era a diretta conoscenza gli aveva suggerito come fossero stati all’origine degli eventi che portarono al duello avvenuto al gioco della Pallacorda il 28 maggio del 1606 e che aveva opposto Michelangelo al gentiluomo ternano?».

Purtroppo allo stato attuale a nessuna di queste domande possiamo dare una risposta certa, anche se mi sembra sempre più incredibile che l’omicidio del Tomassoni possa essere stato causato da un semplice e fortuito diverbio durante una partita al gioco della Pallacorda.

Veniamo ora alla postfazione di Fiora Bellini: La modella e il «pittor celebre»: una storia in sette quadri, che devo subito ammettere di condividere solo in minima parte. Partiamo intanto da un assunto di carattere generale: sfatato ormai il mito del Caravaggio che dipinge solo quello che ha davanti agli occhi e dando merito al compianto Vincenzo Pacelli di avere per primo dimostrato come l’artista riprendesse spesso “a memoria” e ad anni di distanza figure e volti immortalati anni prima, dobbiamo concludere che non sempre quelli che noi chiamiamo “ritratti” lo sono nel senso pieno del termine.

E il caso più emblematico al riguardo, del tutto ignorato dalla Bellini, è che “la Lena” e suo figlio prestano le loro fattezze come Vergine e Gesù Bambino anche Nelle Sette Opere di Misericordia dell’omonimo Pio Monte di Napoli, dove è del tutto evidente che non potevano posare come modelli, ma che sono stati ripresi, appunto, a memoria.

Ma procediamo con ordine: i primi tre quadri citati dalla studiosa, la S. Caterina d’Alessandria [fig.1] ora al Museo Thissen-Bornemitza di Madrid (1599 circa);

la Giuditta e Oloferne [fig.2] ora presso la Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini, che io ritengo di poco posteriore e non del 1602, come indicato nel libro

ed infine la Marta e Maddalena del Detroit Institute of Arts [fig.3],

dove la protagonista appare palesemente incinta e leggermente appesantita rispetto alle opere precedenti, ritraggono effettivamente la stessa splendida modella, ma che poco ha a che spartire con Maddalena Antognetti, cui  somiglia solo alla lontana e che molti tendono ad identificare, con maggior fondamento, con un’altra celebre cortigiana ritenuta anch’essa amante del Caravaggio, Fillide Melandroni: basta osservare i suoi capelli ondulati e castano dorato, le sopracciglia sottili; il naso piccolo, tondeggiante e distante dalle labbra carnose e sensuali; mentre la modella della Madonna dei Pellegrini e dei Palafrenieri ha i capelli lisci e corvini, le sopracciglia folte  e rese con un solo deciso tratto, il naso dritto e sottile, come le labbra, marcate in entrambi i dipinti da due piccole pieghe agli angoli della bocca; ed anche l’espressione della presunta Lena è molto più dolce e materna di quella sfrontata e altera dei tre capolavori giovanili, per cui la ricostruzione che fa la Bellini di questi dipinti è del tutto fantasiosa. Senza contare che Caravaggio riprende “a memoria” le fattezze della giovane da noi prima descritta nella Maria di Cleofa della Deposizione della Pinacoteca Vaticana del 1603, alterandone appena i lineamenti, a conferma di quanto dicevo poc’anzi.

Ricapitolando, nei tre dipinti primi citati abbiamo un’unica modella, giovane e splendente nei suoi abiti lussuosi e non ancora caratterizzata (per ovvi motivi di decoro) come “cortigiana” nella S. Caterina d’Alessandria, ma solo come una ragazza poco più che ventenne, sensuale e ammiccante, che certo dovette ottenere il plauso ed il consenso del cardinal del Monte, committente del dipinto e che sicuramente conosceva anch’egli la giovane che aveva posato per questo quadro.

Modella che ritroviamo poco dopo nella Giuditta del dipinto ora a Palazzo Barberini, contraddistinta da un’ampia “mezza roba” di damasco giallo, il colore delle cortigiane, che le scende vaporoso dai fianchi; e che infine ritorna, un po’ appesantita ed incinta, ma sempre con la fascia gialla ben in vista nella Marta e Maddalena di Detroit che, alla luce di quanto ho detto, andrebbe datato non prima del 1600.

Da tutta questa analisi risulta evidente che l’idea di Caravaggio di raffigurare una splendida cortigiana, che lo ripeto non è però assolutamente la Antognetti, come protagonista di altrettanti dipinti di carattere religioso non può essere assolutamente stata l’idea balzana di un pittoraccio scavezzacollo, ma deve essere stata confortata dai ricchi ed autorevoli committenti, anche se si può concedere che queste erano comunque delle opere destinate ad un uso privato e non ad essere esposte al pubblico e che sia Giuditta (che si finge pronta a concedersi ad Oloferne per poterlo uccidere), sia Maddalena peccatrice in procinto di convertirsi, potevano concedere il loro volto ad una giovane cortigiana senza destare alcuno scandalo.

Il vero salto di qualità lo si ha dunque proprio con la Madonna dei Pellegrini [fig.4]

e la di poco posteriore Madonna dei Palafrenieri, [fig.5]

dove finalmente fa la sua comparsa la nostra Maddalena Antognetti, dipinti per altro, a differenza di quelli prima analizzati, pervasi da una profonda religiosità anche se caratterizzati da questo aspetto “umano, troppo umano”, dei personaggi ritratti. Caratteristica che, ancora una volta, non può ridursi al puro gusto della provocazione e dello scandalo, come appunto i biografi sei e settecenteschi tendono ad affermare e va piuttosto ricondotta alla vicinanza del nostro pittore a quegli ambienti pauperistici, borromaici ed oratoriani che volevano dare della Chiesa un’immagine caritatevole e “misericordiosa”, anche se declinata secondo modalità che certo non potevano essere accettate da tutti.

E’ comunque interessante notare come il Baglione descriva la prima delle due tele appena citate:

«Nella prima cappella della chiesa di Sant’Agostino alla man manca, il Caravaggio fece una Madonna di Loreto ritratta dal naturale con due pellegrini, uno co’ piedi fangosi e l’altra con una cuffia sdrucita e sudicia; e per queste leggierezze in riguardo delle parti che una gran pittura aver dee, da popolani ne fu fatto estremo schiamazzo».[9]

E dunque il biografo, sempre pronto a denigrare il nostro pittore, o non era effettivamente a conoscenza di chi fosse la donna ritratta nei panni della Vergine, o fingeva di non saperlo, evidentemente per non coinvolgere nello “scandalo” che ne sarebbe nato gli influenti protettori dell’artista e della stessa modella.

L’unico tra coloro che per primi hanno scritto di Caravaggio a far cenno alla questione, scambiando comunque la Madonna di Loreto con la Morte della Vergine, è Giulio Mancini, il cui testo, però, come è noto, è rimasto a lungo manoscritto e piuttosto allo stadio di appunti:

«E dopo il quadro nella Chiesa Nova, li quadri di S. Luigi, la Morte della Madonna nella Scala, che l’ha adesso il Serenissimo di Mantova, fatta levar di detta chiesa da quei padri perché in persona della Madonna havea ritratto una cortigiana [da lui amata, e così scrupolosa, e senza devozione et in particolare appresso a que’ boni padri], la Madonna di Loreto in S. Agostino, quella dei Palafrenieri in S. Pietro…»,

a riprova della confusione, non sappiamo quanto voluta, che già circondava quelle opere a pochi anni dalla loro esecuzione[10].

Come ho appena rilevato poche righe or sono è comunque nell’ambito della componente oratoriana che va collocata la committenza della Madonna dei Pellegrini, come perfettamente ricostruito da Alessandro Zuccari. Più esattamente:

«Essa si deve agli eredi del bolognese Ermes Cavalletti, “ratiocinator” della Camera apostolica, molto devoto alla Madonna di Loreto e membro della arciconfraternita romana della Santissima Trinità dei Pellegrini[11], il che riconduce ancora una volta all’ambiente di San Filippo Neri e degli Agostiniani e conferisce al dipinto un preciso valore “giubilare”, anche se l’Anno Santo era ormai trascorso da cinque anni. Infatti, nel dipinto, l’apparire sulla soglia della Vergine indica l’accoglienza che la Chiesa fa ai suoi fedeli: «Anche l’abito dimesso dei pellegrini assume in questo contesto un significato particolare. I cosiddetti “contadini” ritratti dal Merisi sono piuttosto due fedeli abbigliati con vesti povere e sdrucite: tale atto di umiltà, non di rado, era praticato anche dai nobili ed è possibile che Orinzia de Rossi abbia fatto ritrarre nel pellegrino il defunto marito».[12]

D’altro canto un modello per la pellegrina,[13] a quanto mi risulta finora sfuggito alla storiografia, è quello della Sant’Anna della raffaellesca Madonna dell’Impannata di Palazzo Pitti: seppure ripresi in controparte i volti delle due donne sono assolutamente coincidenti e dimostrano, se ce ne fosse bisogno, la profonda cultura artistica del Caravaggio, ribadita anche dal fatto che la stessa Madonna del nostro dipinto, nella sua postura, si rifà a una scultura classica identificata da Hess[14] nella cosiddetta Tusnelda che fu utilizzata anche per la Madonna dei Palafrenieri.

Venendo all’aspetto formale, il Merisi conferisce a quest’opera una dimensione verticale per lui inconsueta, rafforzata dalla colonna sbrecciata che fa da fondale alla scena, mentre i contrasti luministici si intensificano e diventano sempre più accentuati. La luce ormai squarcia le tenebre per lampi improvvisi e provenienti da fonti diverse: dalla sinistra e dall’alto per la Vergine e il Bambino, dal basso e da sinistra per l’anziana pellegrina, come dei riflettori puntati per un set cinematografico, e pur tuttavia mantiene ancora quella funzione ‘plasmante’ dei corpi che perderà solo nell’ultimissimo periodo. E tutti e quattro i personaggi protagonisti del dipinto, ben diversamente da come scrivevano le fonti antiche, hanno un’aria nobile ed elegante, pur nella “finta miseria”.

Va inoltre sottolineato come

«nel contesto delle controversie con i protestanti- com’è noto- la Vergine è anche l’immagine della Chiesa che consente ai fedeli di avere accesso al Salvatore. E’ lei a presentare il Bambino ai pellegrini, e Gesù, a sua volta, li benedice con un gesto delle dita allusivo al mistero del Dio uno e trino. Questo gesto di benedizione può anche indicare la remissione dei peccati attraverso l’indulgenza plenaria accordata dalla Chiesa a coloro che osservano precise norme nella visita del santuario lauretano, norme che Ermes Cavalletti ha fatto sue nel pellegrinaggio compiuto tre mesi prima della morte».[15]

Comunque la Madonna, lungi dall’apparire come una popolana è una splendida ragazza bruna, dalle carni eburnee e da un elegante tunica di raso rosso messa ben in evidenza, anche se effettivamente la sua spalla destra è semicoperta da un leggero velo trasparente di organza gialla, comunque appena accennato e che secondo Bassani e Bellini la caratterizzerebbe inesorabilmente come una “cortigiana”, cosa assai difficile da credere, dato il clima censorio in cui l’opera è stata dipinta.

Certo è evidente che il fatto che delle “cortigiane” facessero da modelle anche per dei dipinti sacri doveva essere molto più tollerato di quanto possiamo pensare, dato che difficilmente delle “zitelle oneste” potevano prestarsi a questo compito, ma questo doveva essere il più possibile occultato e passato sotto silenzio e non certo sbandierato ai quattro venti, pertanto il leggero velo prima descritto va probabilmente interpretato più come un vezzo innocente e che come una provocazione autolesionista.

Quanto al Gesù Bambino, che ricompare anch’esso nelle Sette opere di Misericordia è un fanciullo, biondo e ben pasciuto, completamente diverso dai tanti putti rachitici di molte opere coeve e della stessa Madonna del Rosario; dei due pellegrini e dei loro vestiti sdruciti ad arte già abbiamo detto.

In definitiva, anche in questo capolavoro Caravaggio si dimostra ben lontano da quel Courbet ante litteram che dipinge quello che vede nei bassifondi, come certa storiografia si ostina a presentarlo, e ci offre un’opera dal profondo valore simbolico e “politico”, nel senso alto del termine, con l’immagine di una Chiesa che tutti accoglie amorevolmente, anche se il reale motivo della sua ostinazione a ritrarre “la sua donna” nelle vesti della Vergine (cosa che era evidentemente tollerata dai suoi protettori, non riesco a capire a quali fini) rimane a tutt’oggi un mistero che però è inutile far finta di ignorare.

Probabilmente uno scandalo dovette pur esserci e Caravaggio, per negare ogni addebito e difendere il suo onore e quello della sua amata (che fra l’altro pare che vivesse ormai da tempo more uxorio con un solo uomo, il notaio Gaspare Albertini, per il cui amore giurava tra l’altro “di avere lassato ognuno”) non aveva esitato ad aggredire, secondo il suo stile, l’altro notaio Mariano Pasqualoni, finendo naturalmente per peggiorare le cose. Ed è comunque significativo che la formale pacificazione dei due contendenti sia avvenuta alla presenza addirittura di Paolo V in persona e del suo fidatissimo “cardinal nepote Scipione Borghese, a dimostrazione della gravità della piega che stavano assumendo questi avvenimenti

Per concludere, anche la modella che ha prestato il suo volto alla Morte della Vergine ora al Louvre [fig. 6], contrariamente a quanto pensa Fiora Bellini, non è assolutamente Maddalena Antognetti.

E’ risaputo che questo dipinto aveva suscitato ancor maggior scandalo del precedente. Commissionato da Laerzio Cherubini per la chiesa carmelitana di Santa Maria della Scala già nel 1601, fu in realtà dipinto solo nel 1606, anche se si ignorano i motivi che causarono questo ritardo; esso fu comunque rifiutato per le solite ragioni di “decoro” di cui parlano i biografi e successivamente acquistato nel 1607 dal duca di Mantova su suggerimento del Rubens, che di Caravaggio era un grande ammiratore. Come ben sintetizza Mia Cinotti:

«Il rifiuto fu causato secondo il Mancini dall’aver ritratto nella Madonna una cortigiana da lui amata (la famosa Lena modella anche della Madonna di Loreto e della Madonna della Serpe) o “qualche meretrice sozza degli ortacci”, secondo il Baglione e il Bellori dall’aspetto indecoroso della Madonna gonfia. Secondo il Calvesi fu l’avvento del partito filospagnolo con Paolo V a segnare l’inizio delle sfortune del Caravaggio. Calvesi pensa che modella possa essere stata la monaca senese Caterina Vannini, una meretrice convertita molto cara a Federico Borromeo, morta nel 1606 gonfia di idropisia. Lo studioso, riallacciandosi al filone interpretativo pauperista che secondo vari critici ispira la pala, ritiene la Madonna gonfia di grazia. Altri pensano invece a un programma polemico contro la Controriforma, oppure al senso tragico della morte come morte fisica, cioè negazione del senso provvidenziale della storia e della speranza di un futuro oltre la vita. Io escludo che il Caravaggio avesse intenzioni blasfeme. Egli si attiene all’iconografia di base della “morte sonno” e ai personaggi essenziali, cui aggiunge la Maddalena, di origine iconografica trecentesca»[16].

E più precisamente, come osservato a suo tempo da Rodolfo Papa, l’intero dipinto si rifà alla Dormitio Virginis del Cavallini in S. Maria in Trastevere ed anche, aggiungo io, all’affresco del medesimo soggetto eseguito da Filippo Lippi nel Duomo di Spoleto.

Nel commentare questo brano devo dire che non mi stupiscono tanto le vere e proprie dicerie delle fonti antiche, che rientrano in quel clima denigratorio e malevolo verso il nostro artista cui ormai siamo abituati, quanto le analisi moderne circa la presunta “blasfemia” o comunque l’ancor più presunto “ateismo” del Merisi che qui dipinge, al contrario, un quadro profondamente religioso e cattolico, proiettato proprio verso l’offrire un’immagine della Chiesa come Madre Misericordiosa.

Assai più articolato è il discorso circa l’interpretazione di Calvesi: se infatti non mi sento di condividere, per quanto suggestiva, l’ipotesi che nella Vergine fosse stata ritratta Caterina Vannini, che nel 1606 aveva tra i cinquantaquattro e i cinquantasei anni, quindi almeno quindici se non venti in più della Madonna caravaggesca (che fra l’altro non è assolutamente un’idropica), è invece da condividere e sviluppare l’altra intuizione dello studioso circa il fatto che il gonfiore della donna raffigurata

«poteva assumere significati simbolici, come allusione alla Vergine del Parto, alla Vergine (o Chiesa) sempre incinta di Dio».[17]

Concetto ulteriormente ribadito da Rodolfo Papa, che parlando dell’ipotesi, già da me ricordata, che il Merisi avrebbe addirittura preso a modella il cadavere di una prostituta annegata nel Tevere la definisce una “sorta di leggenda” e aggiunge:

«Sembra più verosimile considerare che Caravaggio avesse voluto in realtà dipingere una donna incinta, e il termine “gonfia”, usato dal Bellori, proprio a questo allude, secondo l’uso popolare;…[e] …Maria è dipinta con il ventre dilatato per sottolineare la maternità di colei che è sempre Madre di Dio. Del resto è stato osservato come le riflessioni teologiche sulla morte della Vergine partissero proprio dalla sua maternità».[18]

In definitiva, la persona ritratta, visto che di ritratto come credo comunque si tratta, non è assolutamente la Lena, di cui non ricorda nemmeno alla lontana le fattezze; non è neppure la Vannini; ma è semplicemente una bella donna poco più che trentenne e palesemente incinta, come anche il gonfiore delle gambe e dei piedi, conseguenza del tutto normale della gestazione, testimonia.

Solo che qui, come in tante altre sue opere, Caravaggio trasfigura il dato iniziale di partenza, lo carica di tutti quei significati simbolici prima considerati, e quindi la “gravidanza” della Madonna morta, elemento ovviamente irrealistico e che ritengo il vero motivo del rifiuto della pala da parte dei frati carmelitani, la “gravidanza”, dicevo, assume tutto un altro valore se inteso in senso traslato.

Nell’accarezzarsi amorevolmente il grembo rigonfio, altro gesto tipico delle donne incinte, la Vergine allude infatti alla nascita del Figlio che con il suo sacrificio salva l’umanità intera. Del resto già il Pontormo, nella sua meravigliosa Deposizione in Santa Felicita a Firenze, al vertice della piramide visiva del suo dipinto raffigura la Vergine giovane e palesemente gravida che, come in un sogno, immagina il futuro martirio di Gesù.[19]  E Michelangelo, nella Pietà di San Pietro, scolpisce la Vergine più giovane del Cristo morto che trattiene sulle sue ginocchia e che più che una Pietà in senso stretto andrebbe anch’essa interpretata come una sorta di prefigurazione della morte del Salvatore.

Con Caravaggio, in qualche misura, il cerchio si chiude e non è più la Madonna giovane che prefigura la futura morte del Cristo ma la Madonna morente che ci ricorda la nascita del Redentore: ma è sempre al ciclo nascita-morte-rinascita, tema fondante della religione cattolica, che si sta alludendo. Anche se nel caso del dipinto del Louvre non si può parlare di morte nel senso stretto del termine, perché come è noto, secondo la dottrina sostenuta da gran parte dei teologi e che il Merisi qui riprende alla lettera, Maria non sarebbe veramente morta, ma sarebbe soltanto caduta in un sonno profondo, dopodiché sarebbe stata assunta in cielo, come il termine latino Dormitio Virginis conferma; ed infatti Caravaggio ci mostra una Vergine per nulla sofferente ma che sembra piuttosto dolcemente addormentata.

Essa, come si diceva, non è assolutamente una donna ormai anziana, come la Maria che lo stesso pittore ha raffigurato nella Deposizione vaticana, ma è ancora nel fiore degli anni e questo proprio perché altrimenti, raffigurarla incinta, sia pure simbolicamente, sarebbe stato certo controproducente. Ma soprattutto perché, non essendo toccata dal peccato, la Vergine è eternamente giovane o meglio non soggetta all’invecchiamento delle comuni mortali, come già espresso in maniera sublime da DanteVergine madre, figlia del tuo Figlio,/Umile ed alta più che creatura,/Termine fisso d’eterno consiglio”…[Paradiso, XXXIII, 1-3] e ribadito dallo stesso Michelangelo che in risposta alle obbiezioni circa l’età della Madonna nella Pietà vaticana avrebbe risposto

“le persone vergini senza essere contaminate si mantengono e conservano l’aria del viso loro gran tempo, senza alcuna macchia”.[20]

La Vergine è anche, indiscutibilmente, una ‘figura’ della Chiesa: ma più esattamente di quale Chiesa? Non certo quella dello sfarzo e del lusso ostentati senza pudore, ma al contrario quella degli umili, dei bisognosi, dei pellegrini; quella vagheggiata da San Filippo Neri e dagli Oratoriani ed alla quale la stanza completamente spoglia di suppellettili allude in modo inequivocabile.

Al suo interno la scena si svolge ancora secondo ritmi rallentati, con gli apostoli che mostrano un dolore contenuto e pensoso, come la Maddalena, che sembra anch’essa dormire e riprende in modo impressionante l’analoga figura del dipinto giovanile della Galleria Doria Pamphilj, sia pure colto da altra angolazione, a conferma che Caravaggio, lo ripeto per l’ennesima volta, riprende a distanza di anni soggetti e/o volti fissati indelebilmente nella propria memoria.

Anche i contrasti luministici, nella nostra tela, per quanto sempre più intensi, mantengono quella funzione ‘avvolgente’ che ho appena rilevato nella Madonna dei Pellegrini, con un sapiente bilanciamento cromatico che parte dall’ampio tendaggio rosso della parte superiore del dipinto, si va quasi a riflettere nella veste di Maria per poi smorzarsi nell’ocra intenso della Maddalena, conferendo a questo capolavoro un senso insieme tragico e solenne di intima religiosità la cui negazione mi pare francamente incomprensibile.

Sergio ROSSI  Roma 7 novembre 2021

NOTE

[1] S. Andretta, Gli anni santi del Seicento, in La storia dei Giubilei, vol. III, !600-1775, B.N.L-Giunti, Firenze 1999, p.11.
[2] E. Sonnino, in Scienza e miracoli nell’arte del Seicento. Alle origini della medicina moderna, a cura di S. Rossi, Milano 1988, p. 60 e seg.
[3]  In Gli Anni Santi, cit., p. 81.
[4] Già al Kaiser Friedrich Museum di Berlino.
[5] Si veda S. Macioce, Michelangelo Merisi da Caravaggio. Documenti, fonti e inventari 1513-1875, Roma, 2010, p. 126-129.
[6] Ivi, p.175; e Tribunale Criminale del Governatore, relazione dei Birri, Reg. 103, C. 25V.
[7] Ed è a questo punto, che in Caravaggio assassino, a p. 208, Bassani introduce la sua interpolazione “in particulare di Michelangelo pittore” che gli verrà rinfacciata giustamente da tutti i suoi accaniti critici cui per altro l’autore offriva un inutile pretesto per essere attaccato.
[8] cfr. Zuccari, Caravaggio contro luce, Milano 2011, p. 278.
[9] G. Baglione, Le vite de’ Pittori, scultori et architetti, dal Pontificato di Gregorio XIII del 1572 in fino a’ tempi di Urbano Urbano nel 1642, Roma 1642, ora anche in Macioce, cit. pp. 323-325.
[10] G. Mancini, Considerazioni sulla pittura, 1619-20, ca., e in Macioce, cit. p.319.
[11] Zuccari, cit., p. 187 e sgg.
[12]  Ibidem, p.191.
[13] Di recente, R. Papa, Caravaggio. L’arte…, cit. p. 130, ha avanzato l’ipotesi che essa possa essere la madre del Cavalletti, probabilmente morta in precedenza.
[14] J. Hess, Modelli e modelle del Caravaggio, “Commentari”, 4, 1954, pp. 271-289.
[15] Zuccari, cit. pp.193-194.
[16] M. Cinotti, Caravaggio. La vita e l’opera, Bergamo 1991, p. 127.
[17] M. Calvesi, Le realtà del Caravaggio, Torino 1990, p. 334.
[18] R. Papa, Caravaggio, lo stupore, cit. pp. 192-194.
[19] S. Rossi, Jacopo Pontormo e il suo doppio, in Los mundos del arte: Estudios en homenaje a Joan Sureda, Acaf-Art, Barcelona 2019, pp. 111-128.
[20] M. Bussagli, I denti di Michelangelo, Milano 2014, pp. 36 e 153.