di Stefania PASTI
Alcune riflessioni a margine della grande mostra dedicata a Vasari nella sua natia Arezzo terminata lo scorso 2 marzo, su un aspetto che è stato solo fuggevolmente accennato, e cioè la sua instancabile, direi avida, attività di collezionista di disegni.
Vasari, Michelangelo e i disegni fra Quattro e Cinquecento: dalla raccolta alla collezione
“Perché il disegno, padre delle tre arti nostre, Architettura, Scultura e Pittura, procedendo dall’intelletto, cava di molte cose un giudizio universale; simile a una forma ovvero idea di tutte le cose della natura la quale è singolarissima nelle sue misure, di qui è che non solo nei corpi umani e degli animali, ma nelle piante ancora, e nelle fabbriche e sculture e pitture, conosce la proporzione che ha il tutto con le parti, e che hanno le parti fra loro e col tutto insieme. E perché da questa cognizione nasce un certo concetto e giudizio, che si forma nella mente quella tal cosa che poi espressa con le mani si chiama disegno; si può conchiudere che esso disegno altro non sia che un’apparente espressione e dichiarazione del concetto che si ha nell’animo, e di quello che altri si e nella mente immaginato e fabbricato nell’idea”
(Giorgio Vasari, Giuntina, ed. Bettarini-Barocchi, vol. I cap. XV, p. 111).
L’evoluzione della considerazione del disegno come opera d’arte autonoma, dotata di una sua specifica valenza, avviene nel corso del Cinquecento ad opera di due massimi protagonisti del secolo: il sommo artista Michelangelo, e colui che con il suo multiforme ed eclettico ingegno forse meglio di ogni altro incarna lo spirito del tempo, Giorgio Vasari.
È Vasari a elaborare quel concetto rivoluzionario per cui il disegno è quella scintilla divina sottesa all’intera creazione della natura, quella stessa scintilla divina della quale l’artista si appropria ogni volta che dà forma, e quindi vita, alla sua opera d’arte. Un concetto rivoluzionario dispiegato tanto nella scrittura delle Vite, quanto nell’atto pratico di raccogliere i disegni di altri artisti, considerati come prima e più originale manifestazione del loro ingegno in tutte le arti.
Allo stesso tempo, è Michelangelo, con i suoi famosi ‘disegni di presentazione’ a portare a perfezione la trasformazione di questo mezzo espressivo da strumento di lavoro,[1] di studio o di sperimentazione, ad opera d’arte in se stessa compiuta. I due eventi, e le due personalità, di Michelangelo e di Vasari, sono cruciali e complementari in questa storia, e rappresentano evidentemente due aspetti speculari dell’affermazione definitiva di una nuova valutazione del disegno stesso. Furono essenzialmente queste le circostanze della nascita del collezionismo di grafica, poiché non si colleziona se non ciò a cui si annette un valore.
- L’antefatto
Disegni certo se ne erano raccolti fin da Medio Evo, ma si trattava appunto di raccolte, che nella loro specificità avevano tutt’altre caratteristiche rispetto al nuovo concetto cinquecentesco di collezione.[2] Non è questo un giudizio riduttivo, che anzi alcune di queste raccolte costituiscono grandi capolavori, come l’ancora duecentesco Livre de Portaiture, in cui Villard de Honnecourt lasciò magnifici disegni di figure, animali, e soprattutto architetture che hanno consentito di capire meglio i sistemi costruttivi gotici (fig.1).[3] Si sono conservate anche squisite raccolte trecentesche, come quella, per citarne una sola, di Giovannino de’ Grassi, che, fatto allora non più che sporadico, riveste suoi mirabili disegni di colori raffinatissimi (fig.2).


Durante l’intero Quattrocento si forma poi un cospicuo numero di libri di disegni, con diverse finalità che difficilmente si lasciano ricondurre a classificazioni definite, anche se uno dei maggiori filoni tematici di questi album fu il nuovo interesse per le vestigia delle antichità classiche.[4]
Il cosiddetto Taccuino di viaggio di scuola di Pisanello contiene i primi disegni noti di ripresa dall’antico, copiati direttamente dai monumenti classici durante il soggiorno romano dell’artista nel 1431-32, e costituisce un insostituibile documento della riscoperta della classicità come norma e modello di armonia e bellezza (fig. 3)[5].


Del resto, non è un caso che le prime vere collezioni, oltre che di gemme e monete, furono di sculture antiche simili a quelle che Pisanello e i suoi andavano allora disegnando. Altri celebri codici furono composti negli anni successivi, come quelli di Ciriaco d’Ancona, del Marcanova (fig.4), o il Codex Escurialensis. Questa rinascita di studio e di collezionismo archeologico si irradiò inizialmente soprattutto dal Veneto, e da Padova, che ne fu il maggior centro, prese le mosse Andrea Mantegna che ne fu il maggior araldo. Non è suo, ma è ascritto al suo nome uno dei più noti quaderni di disegni dall’antico, il codice Destailleur, detto appunto del Mantegna[6].
Raccolte di disegni esistevano anche in tutte le botteghe di artisti, che però se ne servivano prevalentemente come strumenti di lavoro e repertorio di modelli a cui attingere ripetutamente, un patrimonio di immagini conservato e protetto alla stregua degli altri segreti del mestiere. Diversa da tutte le altre è però la raccolta apprtenuta a Jacopo Bellini, più di duecento fogli, alcuni in doppia misura su due facciate, riuniti in due album, unici non solo per qualità artistica, ma anche per consapevolezza di valore (fig.5)[7].

Il formato eccezionalmente grande, l’altissima qualità dei materiali impiegati comprese le rilegature – non si trattava di fogli sparsi successivamente riuniti – ne marcano la distanza dai comuni repertori di bottega. L’ipotesi più plausibile è che si trattasse di modelli didattici per quella che fu forse la prima accademia artistica, e non bottega, fondata a Padova dallo Squarcione, e frequentata fin dal 1440 da un decenne Mantegna, futuro genero di Jacopo Bellini.[8]
Dovette essere proprio Mantegna a far pervenire a Jacopo Bellini questi superbi oggetti, il cui valore economico e collezionistico oltre che artistico fu da subito evidente. La vedova di Jacopo, Anna Rinversi, nel 1471, un anno dopo la morte del marito, lasciando questo tesoro al figlio Gentile, parla di «quadros dessignatos et onmes libros de dessigniis»: quadri disegnati, quindi a tutti gli effetti finiti al pari dei dipinti. Questo caso rappresenta sicuramente nel panorama quattrocentesco un’eccezione per la cura con cui i disegni sono stati eseguiti, raccolti, e conservati come oggetti di grandissimo valore.
Un’altra raccolta diversa da quelle tradizionali di bottega doveva essere quella di Lorenzo Ghiberti, il quale, contrariamente a Jacopo Bellini, non conservò solo i propri disegni, ma anche quelli di vari altri artisti, fra i quali figuravano i suoi contemporanei, e, cosa ancor più significativa, i grandi del passato, a partire da Giotto.[9] Di tale collezione ante litteram non sappiamo quasi niente, se non che in questa vicenda svolge un ruolo essenziale, poiché sarà da alcune delle sue più antiche carte, ammirate e conquistate da Vasari poco meno di cento anni dopo, che comincerà la storia del collezionismo di disegni in senso moderno. Solo di un’altra collezione quattrocentesca abbiamo ancora delle notizie, scarne ma di grande rilievo, in quanto si tratta probabilmente della prima raccolta principesca di grafica di cui ci sia giunta memoria, ancor più significativa per essere appartenuta a Lorenzo il Magnifico, e probabilmente esposta nel palazzo di Via Larga.[10]
Fu questo anche il tempo in cui altri grandi artisti cominciarono ad attribuire una maggior considerazione ai propri disegni, e a ritenerli degni di diventare doni preziosi.
È probabile che fra i primi esempi di questo tipo si possano annoverare la delicatissima Abbondanza di Botticelli (fig. 6), o la Giuditta di Mantegna, con la sua sofisticata firma e la precisione della data ‘Febbraio MCDLXXXXI’, disegno che, come vedremo, entrerà a far parte della collezione vasariana (fig.7).[11]


Certo è poi che Leonardo fece omaggio di un disegno al suo amico Antonio Segni, fortunato destinatario anche della Calunnia di Apelle di Botticelli. Di questo perduto disegno Vasari ci ha lasciato una descrizione di mirabile efficacia, che ben ne attesta la virtuosistica complessità. Leonardo lo elaborò con tale cura da farne a sua volta uno studio preliminare, conservato oggi al British Museum, che risulta pertanto essere il disegno preparatorio di un disegno (fig. 8), tanto per sottolineare quanto quest’ultimo dovesse considerarsi un’opera compiuta[12].

E’ da esempi di tale altezza che si può intuire il cammino percorso dagli artisti maggiori verso la consapevolezza del valore autonomo della loro produzione grafica, fino a considerarla pari in dignità a quella pittorica.

Quando Dürer manda una sua opera di eccelsa perizia a Raffaello, questi risponde con un disegno, non una prova espressamente eseguita per il maestro di Norimberga, ma uno studio di un gruppo di nudi per l’affresco della Battaglia di Ostia nella sala dell’Incendio di Borgo (fig. 9). Raffaello doveva veramente avere un’alta stima anche dei suoi fogli di lavoro, se ad uno di essi affida il compito di dimostrare la sua valentìa all’insigne collega.[13] Nel nominare suoi eredi Giulio Romano e Giovan Francesco Penni, Raffaello doveva sapere che la parte più preziosa del suo lascito era in quei tanti fogli –una parte cospicua andò anche a Perin Del Vaga– in cui, lui spento, sarebbe rimasta la vita della sua creazione. Dopo la sua morte come è noto Sebastiano del Piombo invocò l’aiuto di Michelangelo per aggiudicarsi l’affrescatura della sala di Costantino a scapito dei suoi pessimi “garzoni”, ma volendo nel contempo ugualmente usarne i progetti, e fu non poco contrariato dal peraltro comprensibile rifiuto di cederli da parte dei due disprezzati eredi.[14] Se Giulio e Penni alla fine la spuntarono fu proprio perché i cartoni e i disegni del maestro appartenevano solo a loro, e solo loro se ne potevano servire: non c’era più la mano di Raffaello, ma la sua ideazione era viva nella sua opera grafica.
Proprio ai cartoni cominciò allora ad essere attribuito il maggior pregio, anche per le loro dimensioni pari al vero che ne facevano quasi un secondo originale rispetto alle opere finite, con il vantaggio però di poter essere facilmente trasportati, di servire per trarre copie fedelissime delle opere dei maggiori maestri, e di poter essere anche tagliati, per accontentare un maggior numero di aspiranti proprietari. Se più o meno integro si conservò l’immenso cartone della Scuola di Atene, fino a finire nelle illuminate mani di Federico Borromeo e a trovare nel 1609 degno albergo nella Pinacoteca Ambrosiana,[15] tale fausta sorte non toccò ai due cartoni forse più celebrati, quelli della Battaglia di Cascina di Michelangelo e della Battaglia di Anghiari di Leonardo, che furono consumati fino alla distruzione dalla troppa ammirazione.
Vasari ricorda per nome i tanti artisti che accorsero a vederli, e che se ne servirono per trarne copie, e Benvenuto Cellini dice:
«In mentre che stettono in pie’ furono la Scuola del Mondo».[16]
Purtroppo, in piè non rimasero a lungo. Già nel 1512, racconta ancora Vasari, Baccio Bandinelli era riuscito a tagliare e a trafugare qualche pezzo della Battaglia di Cascina, poi l’incuria delle cose pubbliche, seguita alla precoce morte nel 1516 di Giuliano dei Medici, fece il resto, e come Orfeo sbranato dalle Baccanti, i due capolavori furono stracciati brano a brano, ognuno ansioso di appropriarsi di un lembo di cotanto trofeo.
Il gentiluomo mantovano Umberto Strozzi fra il 1516 e il 1523 riuscì a procurarsi forse tre frammenti, sempre della Battaglia di Cascina, e a portarli nella sua casa di Mantova, dove li videro prima Vasari e poi Rubens ai primi del ‘600.[17] Dopo se ne persero le tracce.
Già in precedenza era stato a un cartone che Leonardo aveva affidato la celebrazione della sua rentrée a Firenze nel 1501. Alla trionfale esposizione della Sant’Anna Metterza con l’agnello, un cartone appunto, accorse un pellegrinaggio ininterrotto di stupefatti ammiratori, e Pietro da Novellara in una significativa lettera descrive a Isabella d’Este il complesso significato teologico della magnifica opera.[18] Anche questo cartone è perduto, mentre si è conservato quello della Sant’Anna Metterza con san Giovannino, che costituisce la più grande opera grafica superstite di Leonardo (fig.10).[19]

Il cartone non è perforato, così come non lo è quello della Scuola d’Atene di Raffaello: anche se nel caso di Leonardo il dipinto non fu mai realizzato, la mancata perforazione indica che gli originali non erano usati direttamente per la trasposizione in pittura. Uno studio sulla fornitura di carta per la Battaglia di Anghiari rivela che ne fu richiesta metà in carta fina e metà in più scadente carta da straccio in quantità più che doppia di quella utilizzata da Michelangelo per un affresco della stessa misura.[20]
L’intenzione di Leonardo era evidentemente di fare un primo ben finito cartone, dal quale su carta di minor qualità doveva essere fatta una copia destinata alla trasposizione sull’intonaco fresco, per evitare in questo procedimento di danneggiare un originale di tanto pregio. È tragicamente ironico che fu proprio l’immenso valore che tutti attribuirono a queste opere grafiche a determinarne l’impietoso smembramento.
La stessa sorte toccò molti anni dopo ancora a Michelangelo e ai suoi cartoni per la Cappella Paolina, dei quali sopravvive un solo frammento (fig. 11 e 11 bis), oggi al Museo di Capodimonte.[21]


Lo stato di conservazione di questa superba reliquia è tanto più significativo, in quanto una sua lacuna fu amorevolmente “rattoppata” con un altro lembo del cartone stesso, ciò che indica che oltre alla parte più cospicua, ritenuta meritevole di essere conservata con ogni cura, ne dovevano esistere altri lacerti, considerati troppo mutili per una preservazione autonoma, ma utili a integrare la parte maggiore.
Quanto a Raffaello, è emblematico che un mecenate delle arti come Alfonso d’Este chiedesse come risarcimento per un Trionfo di Bacco, commissionato ma mai eseguito, tre cartoni di opere fatte per altri, fra i quali quello del grande San Michele per Francesco I, oggi al Louvre.[22] E ancora è straordinaria la conservazione dei cartoni per gli arazzi della Cappella Sistina con gli Atti degli Apostoli, più straordinaria ancora per essere stati i cartoni portati nelle Fiandre e poi fortunosamente conservati attraverso varie peripezie (fig.12). [23]

- Vasari, Michelangelo e il disegno
I tempi erano ormai maturi perché disegni e cartoni, sottratti alla loro dimensione solo strumentale, diventassero oggetti da collezione in senso moderno. Per dare una svolta risolutiva a questa vicenda occorreva tuttavia una personalità eccezionale: fu un diciassettenne Giorgio Vasari a ottenere nel 1528 dallo scultore Vittore Ghiberti dei disegni che il suo grande avo aveva a sua volta raccolto con grande finezza e sensibilità.[24]
È veramente singolare che Lorenzo Ghiberti abbia preceduto e fornito l’ispirazione a Vasari per le sue due massime imprese: Le Vite, che riprendono con prodigiosa ampiezza la formula della biografia d’artista inventata nei Commentarii ghibertiani, e la grande collezione di disegni che nasce proprio dall’incontro con i fogli che lo scultore, finissimo disegnatore egli stesso, aveva amorevolmente raccolto. I brani relativi sono stati molte volte pubblicati, ma sono talmente illuminanti sulle intenzioni con le quali Vasari inizia la sua collezione, che vale la pena di riportarli ancora:
«I quali disegni, con alcuni di Giotto e d’altri, ebbi, essendo giovanetto, da Vettorio Ghiberti l’anno 1528: e gli ho sempre tenuti e tengo in venerazione, e perché sono belli e per memoria di tanti uomini. E se quando io aveva stretta amicizia e pratica con Vettorio, io avessi quello conosciuto che ora conosco, mi sarebbe agevolmente venuto fatto d’avere avuto molte altre cose che furono di Lorenzo, veramente bellissime»
(Vite, III, ed. Barocchi-Bettarini, p. 104)[25].
Con una vera mentalità da collezionista già a diciassette anni, Vasari vuole quei disegni senza nessun altro scopo se non quello di conservarli, per la loro bellezza e perché sono testimonianze artistiche degne di venerazione. Da quel momento cominciò a raccogliere disegni, setacciando dapprima le botteghe fiorentine, che ne dovevano avere ancora in abbondanza, e se li tramandavano senza ormai neanche più apprezzarli, considerando obsolete le testimonianze trecentesche, e ormai del tutto fuori moda anche quelle quattrocentesche. Non era così però per Vasari: lo stesso spirito con cui andò a recuperare le biografie degli artisti considerati più rudi e antiquati, di molti dei quali a malapena ci si ricordava il nome, con quello stesso spirito Giorgio raccolse i loro disegni, preziose reliquie e tracce visibili di un passato antico di cui valeva la pena di tramandare la memoria.
Se si pensa che nel 1506 la grande Maestà di Duccio lasciava per sempre l’altar maggiore del Duomo di Siena,[26] nonostante il grande culto popolare che la circondava, si capisce come il cambiamento di gusto dell’epoca fosse inesorabile anche con le immagini più sacre, e quanto quindi inusitata fosse l’iniziativa di un uomo che, anche come artista, fu così sentitamente espressione del suo tempo, e così pienamente e ‘manieristicamente’ moderno..
Certamente i disegni trecenteschi raccolti da Vasari sono pochi in confronto alla gran massa dei due secoli successivi, di cui esisteva ovviamente molta maggior copia. Anche per il Quattrocento comunque le perdite erano già allora cospicue, e nelle Vite il collezionista molto se ne duole. Soprattutto parlando di Brunelleschi, Vasari ricorda la molteplicità dei suoi disegni, vera ratio della sua architettura, e biasima l’incuria con cui gli Operai di Santa Maria del Fiore, dopo aver in più modi offeso ser Filippo durante la costruzione della cupola, di cui poco capivano, lasciarono che si disperdessero tanti progetti del grande architetto.
Parlando dei fondatori dell’arte del Rinascimento, Vasari rileva come la loro unicità artistica si fondi sulla loro capacità di disegnare, che molto più che abilità manuale è esercizio di mente. Di Donatello dice
«Donato nel disegnare fu risoluto, e fece i suoi disegni con sì fatta pratica e fierezza, che non hanno pari: come si può vedere nel nostro libro, dove ho di sua mano disegnate figure vestite e nude, animali che fanno stupire chi gli vede, ed altre cosi fatte cose bellissime» (III, p. 224).
La scelta dei termini è inedita e di profondo significato: la pratica è un bagaglio ovvio, ma mai nessuno aveva pensato di indicare risolutezza e fierezza come caratteristiche non tanto del disegno, quanto del potente atto creativo dell’artista mentre disegna.
Di disegni di Masaccio Vasari non parla, anche se ne possedeva, ma per sottolinearne la grandezza parla di «terribilità nel disegno» (III, p. 134), un’espressione così icastica che, pur senza riferirsi a specifiche opere grafiche, compete con la risolutezza e fierezza di Donatello.
Naturalmente, sono i disegni dei contemporanei ad occupare la parte maggiore della collezione, e nelle Vite Vasari, a sua volta finissimo disegnatore (figg.13-14), non fa che citarli.


Quasi ad ogni biografia, il “Nostro Libro dei disegni” è ricordato con l’orgoglio e il compiacimento di chi se ne prende continua, premurosa cura. I due monumenti di Giorgio, le Vite e la collezione, si riflettono l’uno nell’altro, e Vasari stesso non intende l’uno senza l’altro. A conti fatti, è ben probabile che la sua precocissima opera di collezionista di disegni, come ha preceduto cronologicamente l’attività di biografo, ne sia stata anche la motivazione e l’iniziale punto di partenza.
Purtroppo la collezione fu dispersa subito dopo la morte di chi l’aveva tanto amorevolmente raccolta. Solo due giorni dopo la morte di Vasari, il 29 giugno 1574, fu il duca Francesco de’ Medici ad ottenere, come dono, non troppo volontario, dal fratello e dai nipoti dell’illustre estinto l’album dei disegni, un solo grande libro e non cinque come si è lungamente creduto.[27]
Successivamente il libro fu smembrato e i disegni dispersi, e ad oggi ne sono stati rintracciati con sicurezza solo pochi fogli identificabili unicamente dalla descrizione fattane da Vasari stesso nelle Vite dei relativi autori. Fra questi non è un caso che si riconosca l’altissima prova, già citata, della Giuditta di Mantegna (vedi supra fig 7) , tanto ammirata per la sua perfezione da esser definita “più tosto opera colorita che carta disegnata” (III, p. 554). Per contro, si era a lungo ritenuto di poter individuare numerosi altri fogli della collezione non tanto dalle descrizioni delle Vite, quanto sulla base di elaborati montaggi, comprendenti più disegni disposti a formare delle composizioni, e poi incorniciati con architetture, volute, colonne, basamenti (figg. 15-16).


Le ricerche più recenti – presentate nel già citato catalogo della raccolta grafica vasariana nella mostra del Louvre – tuttavia indicano che nessuno di questi montaggi è stato fatto da o per Vasari, o perlomeno che non ne esiste nessuna prova certa. Come autore di tali sofisticate incorniciature viene invece indicato il facoltoso fiorentino Nicolò Gaddi -cosa peraltro già nota-, che mise insieme una collezione vastissima in cui confluirono anche disegni provenienti quella vasariana, sulla quale pertanto i montaggi stessi non possono fornire alcuna indicazione.[28]
Intanto, intorno alla metà del secolo, questa forma di collezionismo comincia lentamente a diffondersi, dapprima, sulla scia di Vasari, nella cerchia degli artisti, e poi anche al di fuori. Vasari stesso elogia a più riprese la collezione del suo amico e sodale nella fondazione dell’Accademia del Disegno di Firenze, Vincenzo Borghini, con il quale intrattiene una fitta corrispondenza sull’argomento.[29] Nel frattempo, a caccia di disegni cominciano ad andare anche mercanti e antiquari, come Jacopo Strada, che alla metà degli anni ’50, partendo per la Germania riuscì a farsi cedere tutto il lascito di Perin del Vaga.[30] La vedova preferì lasciar andare lontano i disegni anziché trattenerli a Roma, con la motivazione singolare ma emblematica, di impedire ad altri di copiarli e darsene gloria in patria a spese del suo defunto marito. Con i disegni di Perino, Jacopo Strada ebbe anche tutti quelli di Raffaello rimasti in suo possesso, e lo stesso riuscì a fare a Mantova con l’eredità di Giulio Romano, ceduta dal figlio Raffaello Pippi, senza rimpianti e con una mancanza di sensibilità che, pur risultando utile all’antiquario, suscita comunque la sua indignazione nei confronti dello scioperato giovane.[31]
Raffaello e Michelangelo sono, abbastanza prevedibilmente, gli artisti più ricercati. Mentre Raffaello ha potuto solo presagire quanto sarebbero stati ambiti i suoi disegni, Michelangelo lo sa perfettamente, ed è a sua volta determinante nell’orientare il fenomeno. Se il collezionismo di disegni ha inizio quando alla grafica viene riconosciuto un valore intrinseco, nessuno più di Michelangelo mette il suo suggello su questo rinnovato scenario.
Che la primogenitura del disegno come opera d’arte autonoma spetti ai quadri disegnati appartenuti a Jacopo Bellini, o che la prima offerta di un disegno come dono di grande pregio spetti a Botticelli, a Mantegna, o a Leonardo, non c’è dubbio che fu Michelangelo a farne un genere specifico e un abito durevole.[32] Tipico dei suoi ‘disegni di presentazione’ è la loro assoluta gratuità: sono omaggi di valenza affettiva, tanto più preziosi in quanto non hanno prezzo.[33] Il loro unico scopo è di dare una tangibile dimostrazione dell’alta considerazione in cui l’artista –ben conscio del loro valore- tiene i suoi amici prediletti, fra i quali i più noti sono Tommaso de’ Cavalieri, destinatario soprattutto di disegni mitologici e di una superba serie di teste (fig. 17),[34]

e Vittoria Colonna, alla quale sono dedicate le sue più intense meditazioni religiose (figg. 18-19).[35]


Un tale segno di distinzione fu però riservato anche ad altri personaggi più o meno ragguardevoli, e l’oscuro discepolo Antonio Mini ebbe in dono nel 1532 ben due casse di disegni come viatico per il suo prossimo viaggio in Francia,[36] mentre per Marcello Venusti furono fatti rinomati e rifiniti cartonetti,[37] così come una volta il maestro aveva fatto per Sebastiano del Piombo.
Anche Daniele da Volterra, l’amico presente alla sua morte, possedeva molti suoi disegni dai quali aveva tratto più di una fonte di ispirazione. Alla morte di Daniele, tutto il fondo dei suoi disegni, compresi quelli di Michelangelo, passò ai discepoli Feliciano da San Vito e Michele Alberti,[38] il quale riprese un antico studio michelangiolesco della Battaglia di Cascina per la figura di san Giovanni nel Battesimo di Cristo della cappella Ricci in San Pietro in Montorio. Della stessa stretta cerchia faceva parte anche Jacopo Rocchetti, nel cui inventario post mortem figurano ben cento disegni di Michelangelo,[39] un numero sicuramente esagerato, ma che ben rende conto di quanto cospicua dovesse essere la presenza dei disegni del maestro nel più intimo ambiente di Daniele.
Questi doni erano dunque ambitissimi, ma erano ugualmente dispensati ad assoluta discrezione dell’autore, sordo ad ogni pressione o lusinga come testimoniano anche le lettere dell’Aretino, che lamenta come Michelangelo sia prodigo con il fuoco per gettarvi i suoi disegni piuttosto che donarli a chi tanta devozione gli dimostra.[40] Il più famoso rogo di suoi fogli dei quali era evidentemente tanto poco soddisfatto da non volere che gli sopravvivessero, Michelangelo lo fece proprio alla vigilia della sua morte, gettando nella costernazione soprattutto colui che con più ansia aspettava di impossessarsene, Cosimo I, il più altolocato nonché il più insistente e insoddisfatto dei postulanti rifiutati.[41] È ben noto come i rapporti di Michelangelo con il sovrano di Firenze fossero improntati ad un’avversione appena velata da un prudente ossequio formale, necessario per conservare le vaste proprietà della famiglia Buonarroti in Toscana.

Vasari testimonia comunque che di Michelangelo Cosimo possedeva vari “disegni, schizzi e cartoni”,[42] fra i quali la famosa Cleopatra ottenuta da un riluttante Tommaso de’ Cavalieri vivente l’artista (fig. 20).[43] La sua morte gli permise poi di entrare in possesso di altri capolavori, anche se, complice l’estremo rogo di disegni, in minor misura rispetto alle attese. Qui di nuovo la storia del collezionismo di disegni si incrocia con quella del suo iniziatore Giorgio Vasari, che ricoprì un ruolo fondamentale anche per il destino postumo delle superstiti opere di Michelangelo, in qualità di mediatore per conto appunto dell’imperioso Cosimo.[44] Già dal primo inventario risulta però che di disegni non se trovarono poi molti, e tutto doveva comunque essere consegnato all’erede, il nipote Leonardo Buonarroti. Di un secondo inventario dà notizia poco dopo Daniele da Volterra, che dice che ormai tutti i disegni di architetture sono stati prelevati. L’azione mediatrice di Vasari si indirizza allora verso lo stesso Leonardo, dal quale, volente o nolente, ottiene, o estorce, oltre a tutto quel che Michelangelo aveva lasciato nella sua bottega fiorentina, due cartonetti che, viene detto al duca con poca sincerità, sono gli unici trovati nella casa dello zio.[45]
L’interesse di Cosimo per i disegni non si limitò comunque a quelli di Michelangelo, ma ebbe orizzonti molto più vasti. Alla morte di Michelangelo il collezionismo di disegni è ormai un fenomeno in piena espansione, e oltre ai privati, artisti e non artisti, investe le corti italiane e straniere, per esplodere pienamente nelle imponenti collezioni del Seicento. Ma questa ormai è un’altra storia.[46]
Stefania PASTI Roma 23 Marzo 2025
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