Come riconoscere Caravaggio? ‘Questa’ diagnostica non basta più ! Il parere di Roberta Lapucci

PdL

Roberta Lapucci, restauratrice e storica dell’arte, si è formata alla scuola di alcuni tra i più importanti studiosi di storia dell’arte italiani (vedi il testo sottostante) ed ha affrontato già a partire dalla tesi di dottorato il tema delle indagini diagnostiche nello studio delle opere caravaggesche in particolare sul versante dell’utilizzo degli strumenti ottici e sull’uso della luce; protagonista di numerosi interventi a conferenze e convegni internazionali, nonchè di varie pubblicazioni su questo tema, è autrice di numerosi restauri, mostre, pubblicazioni e cataloghi su Caravaggio, ha co-diretto una mostra su Caravaggio a Palazzo Pitti a Firenze e alla Fondazione MEMMO a Roma e organizzato l’archivio e documentazione tecnica e fotografica sui capolavori di Caravaggio della Fondazione Roberto Longhi di Firenze. Attualmente è titolare della Techno Rest Art, responsabile del Dipartimento Conservazione Opere d’Arte e di Archeologia dell’Università americana SACI (Studio Art Centers International), prestigiosa scuola d’arte americana con sede a Firenze.

-La prima domanda che vorrei porti riguarda questo sviluppo molto rilevante che stanno prendendo le indagini diagnostiche nella lettura delle opere caravaggesche, di cui ultimo importante esempio è l’esposizione che ha chiuso recentemente i battenti a Palazzo Reale Dentro Caravaggio, ideata e curata da Rossella Vodret; certamente hai visto la mostra e letto il catalogo, dunque cosa ne pensi?

R: Prima di risponderti vorrei se mi consenti fare una veloce cronistoria riguardo alle mostre e alla diagnostica, perché in verità già dopo la prima famosa esposizione del 1951, anch’essa tenutasi com’è noto a Milano a Palazzo Reale, si era arrivati ad una impasse che spinse Roberto Longhi a porre il problema di analizzare le incisioni come metodo complementare per iniziare a riconoscere le opere di Caravaggio. Il passaggio successivo, certamente quello più importante se non vogliamo considerare le analisi che si venivano conducendo su singole opere, come ad esempio nel caso delle tele di San Luigi dei Francesi o della Medusa degli Uffizi, fu l’esposizione The Age of Caravaggio  (Caravaggio e il suo tempo), che si svolse nel 1985 tra Napoli e New York, e che è stata fondamentale per far prendere coscienza del fatto che si dovesse valorizzare anche la lettura ‘tecnica’ nello studio dei dipinti del Merisi; partendo da lì, in effetti, Maurizio Marini e Mia Cinotti –due fra i più grandi esegeti dell’opera del genio milanese oggi scomparsi- iniziarono ad inserire delle cospicue parti dedicate al restauro nelle loro monografie; ecco quindi che i primi anni ’80 sono stati decisivi, davvero uno snodo basilare per virare verso un approccio compendiario dalla diagnostica allo stile e all’iconografia, e non a caso le indagini diagnostiche furono inserite anche nella mostra. E, se posso dirlo, anche la mia tesi di dottorato nacque da qui.

Cioè? Di cosa trattava la tua tesi e con chi la realizzasti ?

R: Il titolo, che riassume il contenuto, era La tecnica del Caravaggio: materiali e metodi, la sostenni alla Sapienza di Roma con Corrado Maltese, Maurizio Calvesi e Mina Gregori. Aggiungo che mi ero laureata con Ugo Procacci con una tesi prettamente documentaria e che per due anni  dopo il dottorato sono stata diretta da Paola Barocchi alla Scuola Normale Superiore di Pisa per progetti di  catalogazione informatica museale.

Accidenti, un bel biglietto da visita!

R: Si, ho avuto la fortuna di avere maestri eccellenti, non potevo chiedere di più. Dopo la tesi di dottoratovenne la mostra del 1991, Come nascono i capolavori, curata da Mina Gregori, dove ebbi un parte di rilievo e dove per la diagnostica proposi un metodo basilare di lettura (una scheda di rilevamento strato per strato, arricchita dai parametri tecnici) che è ancor oggi in uso. In seguito ci sono state altre iniziative ad opera di storici dell’arte di grande rilievo in Italia, come Claudio Strinati, Rossella Vodret, nonché di storici applicati allo studio della tecnica come Marco Cardinali e Maria Beatrice De Ruggieri, per un periodo insieme con Claudio Falcucci, o anche di esperte di restauro come Valeria Merlini e Daniela Storti insieme a Bruno Arciprete, Carlo Giantommasi, Donatella  Zari. Tutto ciò lo rammento perché da qui ha preso corpo uno sviluppo considerevole di questo tipo di approccio metodologico, con una serie di iniziative su singole opere e studi molto approfonditi. C’era però un limite, e cioè che tutto quanto veniva studiato e riscontrato avveniva su singoli dipinti e raramente si potevano effettuare dei confronti incrociati.  Il lavoro svolto rimaneva fine a se stesso. Questo, possiamo dire, fino al 2010 quando, in occasione della grande esposizione romana del Quattrocentenario della morte dell’artista, il Comitato Nazionale finanziò ulteriori analisi scientifiche; avrebbero dovuto essere pubblicati degli studi a riguardo, tra cui i miei sull’ottica, ma non se ne è fatto più nulla per mancanza di fondi;  fino al 2016 con il lavoro curato da un’equipe di studiosi capitanati dalla Vodret relativo alle opere caravaggesche romane reso noto in due notevoli tomi (cfr Caravaggio Opere a Roma. Tecnica e Stile) che  ha consentito di mettere a fuoco il grande divario esistente tra il Caravaggio-giovane (quello appunto delle opere romane) e l’altro Caravaggio più maturo, di Napoli, della Sicilia, di Malta.

Cosa ti ha in particolare sorpreso ?

R: Beh, abbiamo visto veramente di tutto; abbiamo scoperto o per meglio dire verificato che questo artista disegnava, componeva figure raffinate ed eleganti, usando tecniche di velature sottili alla veneziana, insomma tutt’altra cosa da quanto la tradizione degli studi tramandava: una grande mole di acquisizioni che hanno consentito di iniziare a ricostruire nella sua completezza la tecnica di Caravaggio. Ed è qui alla fine la risposta alla tua domanda su cosa penso della mostra di Milano Dentro Caravaggio, nel senso che ora abbiamo detto quasi tutto, ciò che poteva essere espresso con questa metodologia di analisi. La mostra infatti io la considero l’ultima tappa di questo cammino che ho brevemente riassunto, ma è chiaro che  è tempo di  cambiare registro ed andare oltre. Per inciso, io la mostra l’ho apprezzata moltissimo, l’ho visitata più volte, ho trovato la disposizione, gli spazi e soprattutto l’illuminazione perfetta; ho potuto vedere come mai prima alcune opere, finalmente disposte a livello occhi, senza riflessi; però se poi fai riferimento ai risultati proposti negli schermi digitali al pubblico che vedi? Si, le incisioni, i tratti di pennello evidenziati con un colore rosa-viola fluorescente, l’en reserve, le linee di disegno e poche altre componenti materiche, d’accordo ma tutto questo si era già visto, è tempo di  andare avanti.

Ti puoi spiegare meglio? Cosa intendi per andare avanti?

R: Ti farà sorridere se te lo dico, ma io la diagnostica così non riesco più a studiarla. Parto dal presupposto che ormai l’idea che Caravaggio potesse replicare i suoi lavori o alcuni di essi, per motivi di committenze o di mercato, è generalmente accettata; chi più chi meno quasi tutti gli studiosi hanno aperto questa porta. Del resto non esiste che Caravaggio fosse l’unico artista in tutta la storia dell’arte che non replicasse, con varianti, senza varianti, o come vuoi; certo può essere che l’abbia fatto in modo parziale o anche che abbia fatto terminare un lavoro da un suo sodale, dal momento che a tutti gli artisti è capitato di lasciare un’opera incompiuta, figuriamoci a lui, perennemente in fuga; in ogni caso una volta accettata questa idea, occorre fare un salto ulteriore, un vero cambio di passo, sia  mentale che tecnologico. Mi spiego con un esempio, prendiamo l’Incredulità di san Tommaso, sai quante versioni ci sono? Una sessantina ad oggi note;

a me ne sono capitate sotto mano da settembre ad oggi sette e ti confesso che non mi viene facile comprenderne le minime differenze, perchè ognuna è stata analizzata e fotografata in modo diverso. Non si tratta più a questo punto di capire se c’è lo spolvero, la griglia o una pennellata particolare, oppure se un artista copiava da un quadro a cavalletto, o da un punto di osservazione dell’opera più  basso o più alto; il problema ormai è un altro: considerando che esistono riproduzioni anche autografe, bisogna che tutto ciò che si conosce, cioè tutte le versioni di un dipinto siano analizzate in maniera comparabile, che si acquisisca per ognuna di loro tutta la documentazione possibile, e che sia uniforme . Dopo, solo dopo, si può passare ad osservare le minime differenze, le minuzie; un po’ come si fa con le impronte digitali: se si prendesse adesso la tua impronta schiacciata su un foglio ad esempio, corrisponderebbe a quella di altre sei o sette persone in questo stesso momento, ma cosa la differenzia dalle altre? Le cosiddette minuzie, appunto, cioè le particolarità, i piccoli difetti che rendono la tua impronta unica; ecco, lo stesso discorso va fatto per riconoscere le opere di Caravaggio nel caso delle repliche.

Quindi pensi che occorra partire anche dalle copie ?

R: Penso che si debbano recuperare tutte le versioni, le riproduzioni, le copie, analizzarle diagnosticamente in modo analogo, cioè fotografandole tutte con un asse cartesiano, sotto la stessa illuminazione, con le stesse modalità in riflettografia, in radiografia, insomma realizzare una vera campagna di indagini comparative acquisita con parametri  standard  che conduca a risultati omogenei che a quel punto divengono una sorta di cartina di tornasole per stabilire cosa è originale e cosa non lo è. Certo, occorre essere anche capaci di leggere i risultati diagnostici perché in qualche occasione può capitare, come è capitato a me, di trovarsi di fronte ad immagini alterate, magari con Photoshop, ma è possibile superare queste difficoltà indotte con una certificazione ufficiale della diagnostica.

Capisco, però visto che hai fatto riferimento alla Incredulità di san Tommaso e alle tante versioni anche di altre opere, come documenta Fabio Scaletti in un recente studio, si pone il problema di sapere come poterle mettere tutte a disposizione e soprattutto se ne vale la pena; voglio dire che ci dovrebbe pur essere un criterio che consenta di operare almeno una scrematura iniziale, o no?

R: E’ vero, occorre scremare, tuttavia pur considerando che personalmente non so mai come presentarmi, se come restauratrice prima e poi come storica dell’arte o viceversa, ti dico come storica dell’arte che il criterio cui far riferimento è l’occhio, ma come restauratrice aggiungo: l’occhio deve saper riconoscere sulla superficie del dipinto anche l’abilità del restauratore, nel senso che esiste o può esistere il Caravaggio/Pico Cellini e il Caravaggio/Thomas Schneider. Non sarà mica un caso che i grandi studiosi hanno lavorato a fianco dei restauratori e frequentato gli studi di restauro; Marini con Franco Soccorsi, Longhi prima con Cellini e poi con Galli, e così via. Questi connoisseur non guardavano il dipinto restaurato ma appena pulito e dopo che era stato liberato dall’eventuale rifodero, perché bisogna osservare i dipinti davanti e dietro “nudi”. Eppure molti storici dell’arte non lo fanno ed anzi non pochi di loro continuano a credere di poter fare attribuzioni in base alle sole riproduzioni fotografiche dell’opera, senza rendersi conto che ci sono professionisti (operanti nel mercato) bravissimi nel trasformare un quadro normale,  con uno scatto ad hoc e una conseguente elaborazione digitale, in un quadro importante.

E’ vero, però è un fatto che una pratica di questo tipo non viene adottata nel nostro paese, come pure è un fatto che la diagnostica non è una disciplina che compare nei corsi di laurea.

-R: Hai ragione, ma questo non toglie che questa strada andrebbe praticata proprio dall’educazione dei giovani che vogliono entrare e frequentare il mondo storico artistico; la soluzione ideale sarebbe che i ragazzi che imparano la storia dell’ arte studiassero prima di tutto le opere dal vero e non sui libri o sul computer, e poi si interessassero anche di diagnostica, seguissero i restauri, imparassero a leggere le radiografie e le riflettografie applicate all’opera d’arte e quant’altro.

Non vedi però in questo il rischio che poi l’analisi tecnica possa prevalere sugli altri elementi e magari che si ridimensioni la figura stessa dello storico dell’arte?

R: Ti rispondo con una parola: interdisciplinarietà; ormai in molte università straniere si lavora su programmi interdisciplinari; anche nella scuola americana dove io insegno (la Saci di Firenze) stiamo orientandoci su un  Master con un programma misto fra restauro e storia dell’arte; aggiungo che nella interdisciplinarietà debbono convergere quattro elementi: tecnica, storia (documentazione, indagini filologiche), iconografia e stile. Sono elementi che hanno lo stesso valore e debbono procedere assieme, soprattutto quando si studia Caravaggio, ma per quanto concerne le varie opere per giungere alla attribuzione occorre a mio parere che si possa arrivare ad avere una tabella stilata in base alle percentuali di riconoscibilità calcolate sulla base dei quattro elementi che dicevo; così l’attribuzione diventa una metodologia e non una lettura soggettiva. Sempre per rimanere nell’ambito di Caravaggio, le opere che rientrerebbero in toto nella nostra tabella, che cioè corrispondono al cento per cento ai quattro criteri di cui sopra, sono 16, sedici!, ti rendi conto? Sono i quadri strasicuri dal punti di vista della tecnica, della documentazione, del valore delle immagini e dello stile pittorico. Tutto il resto è potenzialmente giusto, con un rating maggiore o minore di probabilità, in base ai parametri riscontrati, ma sempre potenzialmente giusto. Certo, se poi si trova tra gli elementi materici il blu di Prussia, allora ovviamente il dipinto finisce in un’altra categoria, quella delle opere rifiutate.

A proposito di elementi materici, dalle indagini fatte sui venti dipinti esposti a Milano risulta una serie di componenti utilizzata da Caravaggio in modo piuttosto costante e continuo; questo, cioè la presenza di determinati elementi nella tavolozza, può essere un motivo per stabilire l’autografia di un dipinto ?

R: No, il dato può essere discutibile; sicuramente hai presente l’ultimo illuminante articolo di Clovis Whitfield visto che lo hai pubblicato sulla tua rivista: che dice in sostanza? Che esistono due ‘industrie’ di opere del Caravaggio, l’una a Roma, con Prospero Orsi, l’altra a Napoli con Finson e Vinck; che vuol dire? Che si muovevano perché erano autorizzati da lui, che potevano fare e rifare, lavorare, comporre e far comporre, creando così una sorta di omogeneità non solo stilistica ma anche materica se si può dire, cioè non tipica dell’uno o dell’altro ma più o meno comune; e poi come non considerare che gli artisti molto spesso lavoravano fianco a fianco, nello stesso cantiere, nella stessa chiesa: pensa a Battistello Caracciolo che lavora a fianco del Caravaggio a Napoli, in contemporanea: non è possibile che abbia provato quella tavolozza ? o si sia richiamato a quel tipo di pigmento? Sono ipotesi, certo, ma come si fa ad escludere che possano essere avvenuti questo tipo di contatti? Insomma dalla sola analisi degli elementi materici non è possibile arrivare alla certezza di un’autografia e questo vale anche per l’indagine diagnostica, certo sono dati importanti che occorre acquisire, figurati se proprio io li sottovaluto, ma servono per giudicare la compatibilità di un dipinto con la tecnica di un artista, poi per arrivare all’attribuzione occorrono gli altri elementi che dicevo. Oggi è facile dire No ad un dipinto attribuito a Caravaggio, non si rischia niente; è molto più complicato dire Si, lo ha dipinto lui; ti saltano subito addosso. E invece un giudizio decisamente negativo pesa molto di più sul futuro (anche conservativo) di un’opera, di uno positivo e andrebbe pronunciato con estrema  cautela e giustificato con prove inconfutabili. Certamente ci vuole molto lavoro, ci vuole che vengano interpellati più esperti, ci vuole una commissione multidisciplinare che decida sulla base di tutti i riscontri.

Il problema è che di opere attribuite a Caravaggio ne escono di continuo da qualche tempo.

R: Si, ma secondo me ne usciranno sempre di più. Calcola quanto successo ebbe la rivoluzionaria prassi del Merisi, quanto fossero ricercati suoi quadri quando ancora era in vita e poi dopo quanti altri ne richiedeva il mercato; calcola pure che allora la copia godeva di una considerazione ben diversa da come l’intendiamo noi oggi (era ritenuta di maggior valore perché conteneva l’arte di due Maestri), per cui non è difficile credere che di copie, riproduzioni, repliche che siano autografe o attribuite o anche tarde ne usciranno ancora e che ci riserveranno la sorpresa del nome di grandi interpreti; senza contare che oggi, all’epoca di internet, la ricerca è molto più facile rispetto a qualche anno fa, per cui considerando che allora l’arte italiana era molto ricercata e finiva in varie parti del mondo non si fa fatica a credere che ne escano anche dai posti meno pensati. Semmai dunque è vero il contrario, cioè che oggi ciò che è raro è trovare un quadro che non sia stato copiato.

E come pensi si possa fare a mettere ordine?

R: In primo luogo, secondo me, ci vogliono i databases, e sono davvero molto felice che se ne stiano occupando a Roma l’Hertziana da un lato ed Anna Coliva alla Galleria Borghese dall’altro; certo dev’essere chiaro che il database non va visto come sostitutivo del vecchio catalogo ragionato dove cioè sia inserito un dipinto come buono o come non buono, bensì come una piattaforma neutra sotto il controllo di un’equipe di operatori che ne garantiscano un uso obiettivo e trasparente. In secondo luogo, credo proprio che si debba superare l’idea che ci si possa basare solo sull’occhio, non che questo dato debba mancare ovviamente però si stanno mettendo a punto strumentazioni che, a quanto mi risulta, anche Marco Cardinali ha cominciato a studiare, ad esempio dei particolari metodi di indagine basati su immagini polinominali acquisite dall’opera d’arte ed elaborate da algoritmi che ne ricavano un modello geometrico; si riescono così ad avere dati precisi come la larghezza di una pennellata, il movimento di un pennello, come esso si sia piegato e in quale direzione, la lunghezza e lo spessore dei solchi delle setole, e così via; inoltre stanno venendo alla luce le impronte digitali; ne ho riscontrate alcune anch’io.

Aspetta, vuoi dire che si possono riconoscere le impronte digitali lasciate diversi secoli fa da un autore sulla tela dove stava dipingendo?

Studio delle impronte di Leonardo condotto dall’Università di Chieti e Pescara

R: Precisamente questo!

Anche per quanto riguarda Caravaggio ?

R: Certamente, anche per quanto riguarda Caravaggio, ma non chiedermi di più; è un lavoro in cui sono impegnata con il Racis dei  Carabinieri, che hanno già studiato e catalogato le impronte papillari e palmari di Leonardo da Vinci, devi sentire loro.

Almeno si può sapere dove le hai potute riscontrare le impronte di Caravaggio? ad esempio in opere pubbliche o private?

R: In entrambi i casi, ma ti pregherei di non insistere oltre perché non ho la facoltà di chiarire questo aspetto; decideranno loro eventualmente se e quando divulgare certe notizie, io non faccio altro che registrare i risultati del mio lavoro e se parlo di impronte è perché le ho riscontrate e segnalate. Ma riprendendo il discorso di poco fa sulle ulteriori novità che stanno emergendo intorno alla sperimentazione diagnostica, oggi si può determinare come è stata realizzata un’incisione, se presenta i bordi arrotondati, se invece sono sfrangiati e non solo, si può perfino determinarne la profondità, lo strumento, la direzione; ecco vedi cosa intendo quando dico che bisogna andare avanti ? La mostra Dentro Caravaggio segna secondo me un approdo, ora si deve cambiare registro e salire ad un livello superiore, ed io sono consapevole, per quanto mi riguarda, di poter indicare una griglia metodologica e di poter assegnare ai pattern algoritmici  che possono emergere dall’analisi un peso maggiore o minore, ma certo non di poter seguire l’intero iter della ricerca anche perché si deve conoscere di informatica molto di più di quanto io non conosca, dato che ci si affaccia ormai al settore delle intelligenze artificiali.

Torniamo a Caravaggio; hai detto che spesso ti capita di trovarti di fronte a collezionisti che sperano di averne uno originale, mentre quasi sempre si tratta di copie; ti è capitato però, nella tua carriera di restauratrice e insieme di studiosa, di arrivare a definire una qualche opera come autografa di Caravaggio?

R: Si, due volte, con il san Gerolamo di Malta e con un Coridone/san Giovanni Battista di collezione privata che è solo in parte noto; in tutti gli altri casi –e ti assicuro che sono davvero molti- ho messo tutto in un limbo di più o meno potenziale; però chiarisco che non sono arrivata a definire l’autografia dei due dipinti esclusivamente sulla base delle copiose e costose indagini che avevo richiesto di espletare, ma anche sulla base di uno studio approfondito, con l’aiuto di vari collaboratori, con meticolose ricerche documentarie,  col parere di esperti e così via.

In questo impegno che stai proseguendo da tempo che ruolo ha avuto e quanto ti è valso il discorso dell’uso da parte del Merisi della camera oscura, di lenti e specchi che hai iniziato e condiviso con Clovis Whitfield?

R: Devo dire che con la camera oscura sono partita grazie ad un’intuizione che oggi definirei banale, nata in occasione degli 80 anni di Mina Gregori quando c’era da preparare un numero speciale di “Paragone” cui partecipavano tutti i suoi allievi. Lei stessa chiese ad ognuno di noi di prendere un ‘tema’ da Roberto Longhi e di approfondirlo; siccome Longhi aveva parlato di camera oscura e che di camera ombrosa ne accennava anche Parronchi, ecco che io scelsi questo argomento; peraltro avevo notato in alcune opere di Caravaggio delle cose che non mi suonavano bene; ad es. nel Bacco degli Uffizi il personaggio regge il calice con la mano sinistra, cosa abbastanza rara, come pure la Santa Caterina Thyssen regge l’elsa della spada con la sinistra, al contrario la stessa modella raffigurata come Fillide tiene i fiori con la destra e così via, insomma certi particolari mi avevano colpito;

mi si diceva che forse i modelli erano mancini, ma la cosa non risultava perché gli stessi personaggi  in altri quadri usavano la mano destra; decisi così che ci doveva essere un’altra spiegazione di carattere ottico; considera che in casa mangiavo pane ed ottica, per il lavoro che svolgevano mio padre ingegnere e mio fratello fisico, sicché avevo a disposizione gli strumenti teorici e pratici per fare da me stessa delle prove. Aggiungi a ciò la circostanza che Caravaggio operava al tempo delle sperimentazioni sui telescopi di Giovan Battista della Porta,  di Galileo, frequentava il cardinal Francesco Maria Del Monte il cui fratello Guidobaldo era un noto matematico amico dello stesso scienziato pisano, allora nasceva l’Accademia dei Lincei, in poche parole l’artista visse in un periodo molto favorevole per gli studi sull’ottica e poi in Sicilia nel 1608-09 incontrò l’erudito siracusano Vincenzo Mirabella che lo accompagnò nelle latomie e che è lo stesso che realizzò il primo telescopio in Sicilia sempre chiedendo un cristallo (ovvero una lente) a Galileo. Anche a Napoli Caravaggio frequentò ambienti di scienziati fautori delle tesi galileiane. Non possono essere state tutte coincidenze.

In buona sostanza hai ricostruito un contesto storico ed hai tratto delle conclusioni, è così?

R: Esattamente; oltre a delle indicazioni dei biografi Mancini e Bellori, il fatto che Caravaggio fosse in mezzo a personaggi di quel tenore mi ha fatto riflettere e considerare che non fossero casuali quelle scelte che mi avevano incuriosito e dunque ho cominciato a lavorarci su; la Gregori mi mise sul chi va là dicendomi di fare attenzione perché stavo scoperchiando una pentola bollente ed infatti  non aveva tutti i torti visto che hanno cominciato in molti a rendermi la vita dura;

Roberta Lapucci , sperimentazioni in Tasmania

e tuttavia, mentre qui in Italia non si voleva capire, trovavo grande consenso all’estero; ho avuto il privilegio di sperimentare con David Hockney, con Tim Jenison, con Jonathan Janson; mi hanno chiamato in Tasmania isola Australiana, al Mona Museum, di David Walsh, con l’obiettivo di farmi mettere in pratica la camera oscura del Caravaggio; così, mentre io facevo sperimentazioni ottiche davanti al pubblico calcolando distanze focali, distanze e coni delle  sorgenti di luce secondo il sistema del Della Porta che si avvale di una lente biconvessa e di uno specchio concavo, c’era con me dentro la camera oscura una pittrice Linda Kay Papadakis, che realizzava l’abbozzo a  biacca durante la proiezione di quei simulacri; la tela poi veniva portata fuori ed era completata applicando i colori  con i modelli “davanti del naturale”. L’ottica per me è quindi come un modo alternativo al disegno che Caravaggio usava per impaginare un quadro; il museo locale ci ha fatto anche un film che ora è in rete, come lo è anche un  programma Rai per i ragazzi sull’argomento. Le mie sperimentazione quindi  le può vedere chiunque. Ti posso anche anticipare che lo stesso museo ha in programma di realizzare una sezione di molteplici camere oscure ed hanno chiesto a me di selezionare venti artisti, da Caravaggio a Daguerre per dimostrare i ripetuti collegamenti fra pittura e fotografia.

-E il rapporto con Clovis Whitfield –che condivide molte delle tue tesi sull’uso della camera oscura da parte di Caravaggio- come è nato e come procede ?

R: E’ un rapporto di lunga data; a parte che con gli studiosi di Caravaggio ci si incontra almeno un paio di volte l’anno in convegni, conferenze, mostre ecc, io e Clovis ci conosciamo e stimiamo da diverso tempo, anche se non ho mai avuto modo di lavorare con lui se non nell’ultimo anno in particolare per il Suonatore di Liuto (ex Badminton,ndA) che mi ha incaricato di studiare.

Suonatore di Liuto (ex Badminton)

L’ideale sarebbe mettere a confronto le versioni conosciute di questo soggetto; personalmente non ho mai creduto che il Suonatore ex Wildenstein – già al Metropolitan di New York ed ora non più esposto- fosse un autografo di Caravaggio ed infatti quando ne ho dovuto parlare ho riportato quello che già era stato scritto da altri.

Suonatore di Liuto (sx Ermitage; dx ex Wildenstein)

E’ pure vero che in generale il proprietario privato di un quadro che ha richiesto e pagato un’indagine ne mantiene il copyright e quindi  spetta a lui decidere se pubblicarne gli esiti o no, perciò autonomamente talvolta non posso rendere pubbliche talune informazioni .

Adesso una domanda alla Lapucci storica dell’arte; cosa ne pensi di questa tesi che si sta affermando –anche sulla base degli ultimi ritrovamenti documentari – secondo la quale l’arrivo a Roma di Caravaggio daterebbe al massimo al 1595? Questo sposterebbe in un arco di tempo piuttosto limitato tutte le sue opere giovanili.

R: Ti confesso che non mi dà noia tanto l’idea di raggruppare tutte le prime opere romane in un arco di tempo ristretto, piuttosto invece mi lascia perplessa quel vuoto che si apre tra il 1588 e il 1595, sono sette anni di totale oscurità e sette anni sono tanti in una carriera che si snoda nell’arco di poco più di venti anni; cosa è accaduto in quegli anni? Io propendo per l’ipotesi che abbia fatto già qualche puntata a Roma per poi tornare nel Lombardo veneto (ovviamente con tappa a Venezia) e infine stabilirsi nella città eterna, ma ad esempio che non abbia mai visto Firenze non mi torna.

Ecco, siamo al solito tentativo che operate voi studiosi toscani che cercate a tutti i costi di accreditare l’idea che il Merisi non possa aver trascurato Firenze nei suoi movimenti.

Cardinale Francesco Maria Bourbon del Monte

R: Ma no, faccio un ragionamento, è vero che la tesi ogni tanto viene affacciata ma come si può credere che il Merisi non abbia visitato Firenze, o che non sia passato per Parma a vedere Correggio, ad esempio; come si spiega che a Roma abbia tanti contatti con l’ambiente mediceo? Come mai arriva a Palazzo Firenze? E perché il Del Monte gli fa dipingere la Contarelli ? Sappiamo tutti che Contarelli era stato Legato dei Medici a Roma ed aveva collaborato con Caterina de Medici nella chiesa di San Luigi dei Francesi; ma poi questo anno, il 1595, è molto significativo anche per altri motivi; Filippo Paladini ad esempio, mandato a Malta dieci anni prima, rientra a Roma proprio in quest’anno, quando arriva anche il Minniti e si crea come un legame tra Firenze e la colonia degli artisti siciliani a Roma, quegli stessi che erano amici di Merisi; so che Nicosetta Roio sta studiando il giovane Minniti, vediamo se riuscirà ad illuminare certi passaggi ad oggi ancora poco chiari e poco studiati.

Si vediamo, però per adesso dobbiamo far conto su quanto ci è documentato.

R: E’ giusto; ad esempio, i biografi  ci dicono che nei primi tempi romani Caravaggio dipingeva delle teste; ho letto nella intervista che Claudio Strinati ha rilasciato ad About Art che a suo parere non le troveremo mai perché non le avrebbe mai fatte, ma io credo invece che le facesse magari come corredo di studi da utilizzare alla bisogna, un po’ come faceva Tiziano che le realizzava ad olio su carta; vero è che i biografi possono aver scritto troppo o poco specie su un personaggio come Merisi, però se scrivevano che faceva più teste al giorno, un fondo di  verità ci dev’essere.

-D’accordo, però se fai riferimento alle fonti allora occorre accettare che, ad esempio, non disegnasse visto che tutti i biografi su questo sono concordi, mentre dalle indagini diagnostiche sembrerebbe di si e del resto anche tu lo sostieni.

Giovan Pietro Bellori

R: Bisogna intendersi; Bellori è vero che lo nega ma lui è un fautore del classicismo ed è evidente che Caravaggio non disegnava secondo i principi belloriani, cioè in modo netto, preciso, studiato. Molti artisti, incluso Rembrandt e altri fiamminghi ma anche  buona parte degli italiani praticavano il cosiddetto dead coloring dipingendo in bianco nero fino alla fine della resa tonale per poi aggiungere solo velature colorate. Caravaggio in un certo senso precorre questo sistema ha un tratto veloce, alcune  linee base e poi va libero con l’abbozzo a biacca; il suo disegno è ubicato a diverse altezze con i tratti fini per impaginare, le incisioni per delineare alcune pose e poi mette giù un volume di scuro a pennello, quindi biacca, di nuovo scuro e così via; i tratti neri non sono a carboncino ma a pennello, più o meno evidenti e a vari livelli di altezza. Sono una ricerca dei chiari e degli scuri primari. Una pratica ben diversa da quella del disegno preliminare così come lo intendeva Bellori, quindi ragionando secondo quella logica ovviamente Caravaggio non disegnava.

Però non lo dice solo Bellori, anche Baglione che visse nella stessa epoca del Merisi.

R: Vero, ma lo scrisse anche lui molto dopo che Caravaggio era scomparso, quando già uno stile più ammanierato si era affermato ed il disegno era considerato come frutto di compostezza di tratto, cui seguiva l’ingrandimento col pantografo, quindi la trasposizione sulla tela e poi la pittura: niente a che vedere con la pratica caravaggesca che utilizza l’ottica, le incisioni i tratti base; in particolare l’ottica la utilizza per impaginare  la prima composizione studiandone i volumi, gli ingombri delle figure, la luce, per poi essere in grado di ripeterla quante altre volte vuole; mi spiego, se guardiamo i suoi quadri notiamo talvolta una versione tutta ‘laccata’ un’altra invece ‘grezza’ tanto da non credere che siano fatte dalla sua stessa mano, mentre invece è così: si nota bene la differenza tra un quadro impaginato velocemente con l’ausilio di specchi lenti per creare e un altro che può essere ripetuto e “portato in bella copia” (facendo un riferimento a uno scritto, si direbbe la brutta e la bella copia); dipendeva peraltro dal mercato: chi pagava la prima “Inventio” pagava ovviamente più di tutti. Gli altri, successivi, pagavano solo una ”Executio”. Quindi, c’è tutta una serie di versioni, chiamale repliche, copie, riproduzioni, sue o di altri, magari in collaborazione con i suoi sodali, penso a Minniti, a Orsi, a Trisegni di cui non si sa nulla, ma anche a Manfredi, o ad altri, che sono sul mercato o che ci arriveranno e che vanno considerate perché possono riservare delle sorprese.

Magari tra i collaboratori potevano anche esserci coloro che considerava amici, con cui si scambiava a volte certi elementi utili al lavoro, per esempio si può pensare ad Orazio Gentileschi ?

-R: E’ una supposizione sulla quale ho riflettuto molte volte perché mi viene alla mente un capolavoro unanimemente attribuito ad Orazio Gentileschi che personalmente mi ha sempre lasciato il dubbio che fosse invece eseguito col Caravaggio, parlo del Narciso della Galleria Spada; se davvero come si dice è opera solo di Orazio devo ritenere che in questo lavoro egli abbia raggiunto lo stesso eccezionale livello del Merisi; se si potesse davvero studiare a fondo l’opera si potrebbe fare chiarezza, certo è che oltre ai permessi occorrerebbero i fondi e neanche pochi per fare tutte le indagini necessarie. Ma credo ne varrebbe la pena.

Ci avviciniamo alla conclusione della nostra conversazione e ti chiedo: nel caso in cui si sia di fronte ad opere che possano aspirare diciamo così ad essere ritenute originali di Caravaggio, c’è la possibilità di confermarne con certezza l’autografia?

R: Torniamo al discorso di prima, cioè alla griglia delle potenzialità, ai quattro elementi che indicavo per delineare in modo obiettivo le possibili autografie; ti faccio due esempi: il primo riguarda la Cattura di Cristo, di cui almeno due versioni si contendono l’autografia e per le quali questa metodica sarebbe necessaria; ricordo infatti che quando il compianto Sergio Benedetti presentò le analisi effettuate sul dipinto ora alla National Gallery di Dublino, non furono pochi coloro che ne rigettavano l’attribuzione perché tra gli elementi compariva per la prima  volta nella preparazione la malachite; successivamente però la malachite è comparsa in molti altri dipinti documentati di Caravaggio tanto da essere considerata un elemento piuttosto ricorrente nella pratica del Merisi, esattamente il contrario di quanto molti avevano ritenuto a suo tempo.

L’altro esempio ?

I Bari (versione Mahon)

R: L’altro esempio riguarda i Bari, cioè la versione conosciuta come versione Mahon perché fu acquistata da sir Denis in un asta londinese; io fui coinvolta nella lettura della  diagnostica e mi dovetti esprimere a livello tecnico; ricordo che questo quadro venne acquistato per alcune decine di migliaia di sterline e poi valutato milioni, cosa che diede il via ad una causa giudiziaria tra i vecchi proprietari e gli esperti della casa d’aste. E’ un esempio, ma non è affatto l’unico, di dipinti che entrano ed escono dal mercato con variazioni di prezzo assurde; sono casi che con la griglia delle potenzialità cui facevo riferimento potrebbero essere evitati, perché quanto meno si potrebbero scremare tutti quelli che appartengono ad epoche distanti o che presentano elementi materici di altra epoca, insomma incompatibili per tecnica con opere del periodo di Caravaggio. Per questo dico che la compatibilità tecnica è il primo elemento da prendere in considerazione, non perché voglia sottovalutare lo stile, i documenti e quant’altro ma perché ci consente una prima scrematura confermando o meno la compatibilità geografica e cronologica dei materiali (ad esempio delle circa 60 repliche prima citate probabilmente ne sopravviverebbero una decina); a questo punto  entrano in campo  gli esperti di documenti, di iconografia, di stile.

Un’ultima domanda riguarda una certa riflessione che ho fatto dopo aver presenziato a parte del convegno che a Milano ha chiuso la mostra Dentro Caravaggio, laddove ho assistito alla esposizione di pareri affatto contrari su opere ‘doppie’ come il san Francesco in adorazione della croce e il Ragazzo morso dal ramarro, e dove, pur a fronte di indagini diagnostiche con riscontri apparente indubitabili, tuttavia sono riemerse differenti letture e pareri contrastanti di studiosi da tempo impegnati sui temi del caravaggismo, tanto da chiedersi se poi questi incontri servano davvero.

-R: Intanto fammi dire che a certi convegni partecipano sempre le stesse persone ed è un limite perchè vengono ristrette le possibilità di confronto; quanto alla tua osservazione ti rispondo semplicemente: pur non avendo scelto questa strada, conosco molti antiquari i quali dicono che servono expertise favorevoli e servono expertise negativi … per essere più chiara ti chiedo: sai quante opere presentava il primo catalogo ragionato relativo a Rembrandt pubblicato nel 1921? Erano oltre 900 ! sai quante ne sono incluse nel Corpus rembrandtiano ? ce ne sono circa 300! Possibile che 600 quadri siano tutti da espungere ? Ovvio che no, e allora? Sono dinamiche messe in atto dal mercato: attribuzione, de attribuzione, acquisto, riattribuzione! Ma di questo preferisco non parlare perchè con queste dinamiche si vanno a toccare interessi importanti che non hanno niente a che fare col mondo accademico.

PdL    Firenze  Marzo 2018