La “Storia sentimentale dell’Arte” secondo Flavio Caroli. Un viaggio appassionato tra le infinite sfaccettature dell’arte.

di Francesca SARACENO

UNA “STORIA SENTIMENTALE DELL’ARTE” NELL’ULTIMO LIBRO DI FLAVIO CAROLI.

Flavio Caroli, classe 1945, storico e critico dell’arte moderna e contemporanea (nonché volto noto della televisione grazie alla sua partecipazione alla trasmissione “Che tempo che fa” condotta da Fabio Fazio) è uno di quei professionisti dell’ambito artistico che da sempre conduce le sue attività di studio e di divulgazione con la sobrietà e l’autorevolezza proprie dell’uomo di cultura. Ha indirizzato i suoi studi in particolare sulla linea introspettiva dell’arte occidentale, indagando, da studioso di razza e raffinato esegeta, le origini e gli sviluppi della rappresentazione degli aspetti psicologici nelle produzioni artistiche.

Fig. 1 “Storia sentimentale dell’arte. Un’educazione alla bellezza”,  copertina

Nel tempo, Caroli ha vissuto la sua esperienza artistica in maniera del tutto personale ed estremamente empatica. Una vera e propria storia d’amore, quella con l’arte, che lo ha appassionato al punto da arrivare a percepirla come una sorta di “sesto senso” attraverso il quale sondare e comprendere i sentimenti e le angosce che agitano l’animo umano, mossi dalla percezione profonda e struggente della bellezza.

È così che è nata l’idea di questo libro che – non a caso – Caroli intitola “Storia sentimentale dell’arte. Un’educazione alla bellezza” (Solferino editore 2023, fig. 1). Un volume in cui la storia personale dell’autore, umana e professionale, si intesse come ordito di coscienza nella trama fitta delle infinite sfaccettature dell’arte. Caroli racconta i suoi incontri artistici come un sentimento vissuto dalla prima giovinezza fino all’età matura, in un crescendo di passione e consapevolezza, che quel sentimento ha nutrito e cementato.

Ma la peculiarità di questo che è assolutamente e autorevolmente un “libro d’arte” è che non contiene immagini al suo interno. La qual cosa potrebbe sembrare inopportuna, talché si è indotti a domandarsi se si possa dare alle stampe un libro che parla di quadri senza mostrare i quadri al lettore. Nel caso specifico la risposta è si. Si può. E Caroli lo fa attraverso una scrittura colta, a tratti poetica, ma assolutamente intellegibile ed estremamente efficace, che riesce a materializzare l’immagine del dipinto nella mente del lettore proprio come se lo avesse davanti, come se stesse ascoltando, invece che osservando, la scena che in esso si svolge.

Il che, se ci pensiamo bene, è quello che accade ai bambini quando ascoltano le fiabe, le storie fantastiche di mondi lontani e misteriosi che la parola riesce a riesce a rendere vivi e reali.

“All’interno la luce era fioca, ma fuori il mondo scintillava: la siepe, il cortile con la rete grigia, disegnata a larghe maglie, dalle tracce lasciate dall’auto di mio padre, gli alberi con i rami appesantiti da stalattiti di ghiaccio. Tutto era, infatti, coperto di neve.”

L’incipit del libro non è la descrizione di un quadro ma la mente del lettore lo percepisce esattamente come se lo fosse, ovvero come una immagine. Ed è un inizio propedeutico per il racconto che Flavio Caroli si accinge a fare della sua prima intensa percezione artistica, avvenuta alla tenera età di circa cinque anni, quando scopre che l’immagine dipinta altro non è che riproduzione della realtà. Un evento del tutto ordinario nella sua estrema semplicità che però, per la sensibilità di un bambino, diventa qualcosa di titanico. Protagonista un oggetto di uso quotidiano, ovvero un calendario: una comunissima ma utile rilegatura di fogli illustrati, la cui funzione primaria è quella di misurare il tempo, che improvvisamente agli occhi del piccolo Flavio diventa il suo primo libro d’arte. Complice una gazza sullo spiazzo innevato davanti a casa che, dopo aver beccato del miglio, si assopisce e gonfia le sue piume nere:

“E io vedevo solo questo: un lago bianco e luminoso con dentro una palla nera quasi immobile”

La stessa immagine che aveva visto sul calendario appeso al muro e che riportava la didascalia: Claude Monet, “La gazza”, 1868-1869 (fig. 2)

Fig. 2 Claude Monet, La gazza, 1868-1869, Parigi, Musée d’Orsay

La scoperta che l’immagine stampata avesse corrispondenza nella realtà era già di per sé qualcosa di spiazzante per un bambino; ma l’inatteso dono, lo stesso giorno, di una scatola di pastelli colorati fu il suggello, l’apoteosi della felicità fino alla commozione:

“Da qualche minuto sapevo che lo splendore là fuori e lo splendore nel quadro sul calendario erano dei miracoli. Ma si poteva tentare di non farli andare via. Adesso avevo gli strumenti: i pastelli. […] Ero piccolo, mi ero innamorato della pittura e della Gazza di Monet.”

Ecco, se ciascuno di noi avesse avuto un’esperienza del genere da piccolo forse il mondo oggi sarebbe un posto più bello in cui vivere. Perché guardare l’arte con gli occhi di un bambino è l’atteggiamento migliore non solo per goderne la bellezza ma anche per percepire con più consapevolezza ed empatia la realtà che ci circonda, per indagare il senso profondo delle cose, e scoprire con il candore dello spirito puro infantile, i misteri della natura e della materia.

E non importa che sia un semplice calendario, invece che un importante museo, a iniziarci alla meraviglia, ad aprirci un sentiero di scoperta; conta il fatto che l’immagine dipinta (o stampata) ci faccia cambiare il nostro punto di vista sul mondo. Che diventi per noi quello squarcio di luce che ci rivela la sostanza e la consistenza delle cose, come accadde a Caroli cercando di riprodurre con gli acquerelli il Castello di Médan di Paul Cézanne (fig. 3).

Fig. 3 Paul Cézanne, Castello di Médan, 1879-81 ca., Glasgow Art Gallery and Museum

Altra illustrazione da calendario che però, all’undicenne Flavio già infatuato dell’arte figurativa e curioso esploratore dei misteri dell’universo, indusse una di quelle domande epocali a cui solo dopo una vita di studi seppe dare risposta: perché in quel dipinto l’acqua, materia liquida, sembrava pesare più delle case e degli alberi? Inutile forzare sulla densità dei colori, non era lì la risposta. L’arcano gli fu rivelato, anni dopo, dal sempiterno genio di Leonardo: “La pittura è cosa mentale”.

Il racconto di questo percorso sentimentale dell’autore procede sul binario felice della sapiente scrittura unita a una profonda capacità di analisi, cosicché anche quando riferisce luoghi e circostanze in cui avvennero i suoi incontri ‘amorosi’ con le varie opere descritte, il lettore ne percepisce l’autenticità, la genuinità quasi diaristica, e per questo emozionante. Ma di quella emozione fanciullesca, contagiosa, ormai desueta; la stessa con cui, ad esempio, il custode del Museo Civico di Recanati mostrò a un incantato adolescente Caroli un dipinto che lo “colpì con la forza di una fucilata”. Si trattava della Annunciazione di Lorenzo Lotto (fig. 4) e quella descritta nel libro è una delle più originali e coinvolgenti esegesi che abbia mai letto.

Fig. 4 Lorenzo Lotto, Annunciazione, 1534 ca., Recanati, Museo civico Villa Colloredo Mels

Non tanto per il preambolo letterario degno del più navigato narratore: “Fuori sonnecchiava un pomeriggio marchigiano, luminoso ma non troppo caldo”; quanto per il racconto cadenzato dei dettagli di quell’opera strana e straordinaria, sintetico quel tanto che basta a concentrare in poche pagine l’enormità dell’emozione nella scoperta di un evento che ha cambiato la storia del mondo. Dalla luce smorzata nella – per Caroli – sconosciuta “penombra del pomeriggio” che inghiottiva gli oggetti “pulsanti di vita e di seduzione” sul mobile in fondo, all’angelo – il daimon – che “sembrava un cantante dei tempi, un po’ efebico un po’ transgender”, all’espressione complessa della Vergine – coetanea dell’autore nel momento in cui ricevette l’annuncio della sua maternità – così moderna ed enigmatica, nella quale egli rileva un guizzo d’orgoglio che spesso la critica tende a escludere in riferimento alla dogmatica umiltà con cui si narra Maria abbia accolto il proprio destino. Ma lei sarebbe diventata la Madre di Dio … un evento che non può passare sotto traccia nelle vene di una ragazza. Così come non può rimanere inavvertito, nella sua enormità, dall’unico altro essere ‘terrestre’ nella stanza: il gatto, con la sua schiena inarcata, che scatta di lato in un gesto colmo di inquietudine per qualcosa che percepisce totalmente incomprensibile. Ecco, con quel dipinto, afferma Caroli, era nata la psicologia moderna.

Forte della sua esperienza con l’arte contemporanea, l’autore fornisce una descrizione davvero particolare dell’incontro con una riproduzione di Pali blu di Jackson Pollock (fig. 5), definito una “sequenza gotica di alberi” dove “tra le foglie e l’infinito, il cuore beveva lampi di colore”; e poi la cronaca della visita alla Biennale di Venezia nel ’64, a metà strada tra il curioso e il frastornato, e l’incontro con l’action painting di Jim Dine.

Fig. 5 Jackson Pollock, Pali blu, 1952, Canberra, National Gallery of Australia

Particolarmente toccante il racconto di Caroli del suo viaggio nel nord Europa, in un momento triste della sua vita, dove ebbe modo di saggiare “quella privilegiata conoscenza delle cose che arriva dall’arte”. E quella volta furono Rembrant, Rubens e Vermeer a suscitargli quel sentimento “con una violenza lancinante”.

Non è difficile immaginare questo tipo di reazione di fronte alla Lezione di anatomia del dottor Tulp (fig. 6), a quel “prima e dopo” che il cadavere testimonia.

Fig. 6 Rembrandt Harmenszoon van Rijn, Lezione di anatomia del dottor Tulp, 1632, L’Aia, Mauritshuis

Lo stupore di Caroli è tutto nel suo commento sospeso: “Il bianco di quella carne…”. Netta e precisa la consapevolezza dell’autore rispetto alla precarietà di un successo tutt’altro che scontato per il grande artista, “che vive bene nella misura in cui trova consensi in seno alla ricca borghesia” olandese, e tuttavia non vi è cenno alcuno di particolare prosperità nella sua casa di Amsterdam; un’ambiente sobrio che riflette nelle ombre profonde dei suoi ambienti, il dolore dell’uomo Rembrant per la perdita dell’amata moglie. Il medesimo destino che toccò anche a Pietro Paolo Rubens con la compagna. Palpabile il disincanto nella descrizione che Caroli restituisce della residenza di Rubens ad Anversa, suddivisa in due ambienti: uno “fiammingo” dedicato agli affetti, semplice e funzionale; l’altro “italiano”, magnificente, dove riceveva i suoi facoltosi committenti, specchio fedele di quella grandeur tipicamente barocca, tempio di una divinità – “la regalità di una professione, che è quella della pittura” – che però non risparmiò all’artista la sofferenza della perdita.

Una sofferenza che, in maniera più sottile e tuttavia penetrante, dovette sentire in qualche modo anche Vermeer, che già in vita non vide sufficientemente riconosciuto il suo valore e che la morte destinò a un ingiusto oblio, fino a quando l’attenzione del mondo dell’arte si puntò sulla nuova idea di luce degli impressionisti, e qualcuno si accorse che Vermeer era “la lontana radice delle idee impressioniste sulla rappresentazione della luce”. L’autore riscontra i germi di quel pre-impressionismo nella magnifica descrizione di quello che – a ragione – considera uno dei massimi capolavori della storia della pittura: la Veduta di Delft (fig. 7). Tre giganti dell’arte, tre “vinti” – nella visione di Caroli – non saprei dire quanto di “verghiana memoria”, ma certamente messi a dura prova dalla vita.

Fig. 7 Jan Vermeer, Veduta di Delft, 1660-1661, L’Aia, Mauritshuis
Fig. 8 Madonna con Bambino (copia da Lucia Anguissola di autore anonimo), 1555, collocazione ignota

Il percorso sentimentale di Flavio Caroli nell’arte procede sul piacevolissimo viale dei ricordi personali, scomodando addirittura Celentano per contestualizzare i pomeriggi “azzurri e lunghi” dell’estate del 1974 quando, in maniera del tutto casuale, si imbatté in un dipinto che apparve nella sua vita e scomparve nella storia del mondo senza lasciare traccia. Si trattava di una Madonna con Bambino (fig. 8) datata 1555 e firmata Lucia Anguissola, sorella della più nota Sofonisba, a cui l’autore ha dedicato diversi studi, un libro (Sofonisba Anguissola e le sue sorelle, Mondadori, 1987) e ha curato una mostra a Cremona nel 1994.

Un’artista, dunque, le cui vicende, professionali e familiari, conosceva bene ma, spinto dall’inattesa scoperta di quel bellissimo dipinto, decise di approfondire le sue ricerche fino a ricomporre un corpus di opere delle due sorelle in cui la difficoltà maggiore – a suo dire – era riuscire a distinguere le rispettive “mani”. E pur indugiando con malcelato piacere nella ricostruzione della vita di Sofonisba, mettendone in luce l’intraprendenza e le fortunate vicende professionali che le permisero di incrociare la sua strada nientemeno che con il “dio” Buonarroti, Caroli non nasconde il rammarico per l’inspiegabile scomparsa di quella Madonna eseguita dalla sorella Lucia, della quale forse non ha coscienza nemmeno l’attuale proprietario

“e ciò moltiplica per mille il rimpianto di non aver comprato tale piccolo tesoro in quel famigerato pomeriggio d’agosto a Ravenna.”

La lettura scorre dotta ma gradevole, a tratti esilarante, come quando l’autore parla di Giuseppe Arcimboldo definendolo “una specie di Rasputin della corte asburgica”.

Ma il Caroli storico dell’arte dà il meglio di sé – anche dal punto di vista narrativo – quando si addentra nelle trame esegetiche delle prime avvisaglie di naturalismo pittorico italiano all’inizio del Cinquecento, iniziando dal quel “vento ribelle” che sentì “spirare dalla sua porta occidentale, in Piemonte” con il ciclo di dipinti di Gaudenzio Ferrari al Sacro Monte di Varallo (fig. 9); è lì, tra quei “tesori di stupore e naturalezza”, che l’autore ravvisa un “mistero di realtà concepito fra monti inaccessibili” contrapposto alle più auliche idealizzazioni romane e fiorentine.

Fig. 9 Gaudenzio Ferrari, I Magi a Betlemme, 1519-1525, sculture e affreschi, Varallo.

E prosegue con la descrizione energica delle mirabolanti invenzioni della pittura “di genere” del genovese Giovanni Benedetto Castiglione, detto il Grechetto; originale e autorevole artefice di dipinti con soggetti animali e poderose nature morte (fig. 10) con le quali, unitamente a composizioni storiche, sacre e mitologiche, travalica il misero quinto posto della “famosa classifica dei generi stilata da Vincenzo Giustiniani”.

Fig. 10 Giovanni Benedetto Castiglione, il Grechetto, Diogene alla ricerca di un uomo,1645-1655, Madrid, Museo del Prado.

Ma è con l’analisi della fisiognomica nella pittura di Girolamo Savoldo, il quale trovò in Giorgione “un riferimento assoluto e inevitabile”, che Caroli inquadra l’humus di quelle introspezioni psicologiche che caratterizzeranno poi la pittura del Seicento; con un termine ante-quem nella “ritrattistica aspra e talora popolare del Moroni”, passando per il celeberrimo Fanciullo morso da un gambero di Sofonisba Anguissola (il disegno ammirato dall’anziano “dio” Buonarroti, fig. 11) che Caroli considera come un “tramite storico tra il genio toscano e il Caravaggio”.

Fig. 11 Sofonisba Anguissola, Fanciullo morso da un gambero, 1554 ca., Napoli, Gabinetto di Disegni e Stampe del Museo di Capodimonte

Senza dimenticare la ricca produzione teorica sulla fisiognomica nei diversi Trattati che nel tempo, a partire da Leonardo e fino a Lomazzo, ha indagato i cosiddetti ‘moti dell’anima’.

E, avvicinandoci all’apoteosi dell’espressione pittorica introspettiva, l’autore non può tralasciare “la proiezione psicologica esercitata sul ‘genere’ della natura morta” e cita – non a caso – la Fiscella di Caravaggio (fig. 12) e le prime produzioni di Fede Galizia, con le quali – dice – nasce “l’idea di un oggetto-stato d’animo”.

Fig. 12 Caravaggio, Canestra di frutta, 1598-1600 ca., Milano, Pinacoteca Ambrosiana.

Ed ecco che, dopo aver dato conto del “incontro-scontro” nella Cappella del Santissimo Sacramento tra i bresciani Romanino e Moretto, quest’ultimo individuato – “e qui Longhi aveva ragione”, afferma Caroli – come latore di “preveggenze caravaggesche”, il nostro autore riesce a far battere le vene dei polsi dando conto della sua esperienza sconvolgente con il David con la testa di Golia del Caravaggio (fig. 13), opera che ottenne in prestito per la mostra “L’anima e il Volto” da lui curata nel 1998. In quella occasione, racconta l’autore, ogni sera dopo la chiusura andava da solo a vedere il dipinto, e “che ci crediate o meno, avveniva una specie di dialogo”. Beh, si, professor Caroli: chi scrive le crede e la capisce perfettamente.

Fig. 13 Caravaggio, David con la testa di Golia, 1609-1610 ca., Roma, Galleria Borghese.

La domanda che l’autore si pone e pone al lettore, cioè se sia possibile per un essere umano immaginare la propria testa spiccata dal corpo, induce una riflessione solo apparentemente scontata e che Caroli stesso forse non è riuscito pienamente a risolvere durante le sue “conversazioni” con il dipinto. Quello che sa – e che chi scrive condivide perché da tempo lo pensa – è che le innumerevoli tracce di quella “vita che è andata com’è andata” impresse sul volto mostrificato di Golia/Caravaggio, trovano il loro contrapposto naturale – luminoso – sulla figura ancora innocente di David/Caravaggio.

“[…] qui si parla di pittura estrema, di una pittura cioè, che affronta i massimi temi dell’esistenza”,

afferma l’autore, individuando le origini di questa profonda introspezione nella pittura del Merisi, nella sua formazione lombarda imbevuta di “cultura borromaica”, nel “realismo di Moretto, Romanino e Savoldo” e, in definitiva, in quegli insegnamenti leonardeschi sugli innumerevoli “moti” che il volto e il corpo umano mostrano a seconda degli “accidenti” cui la mente li sottopone e “de’ quali tu, pittore, è necessaria la cognizione, se no la tua arte dimostrerà veramente i corpi due volte morti…”. E il volto straziato e straziante di Golia è quello di un uomo che è morto certamente una volta sola; e forse non nell’attimo esatto in cui l’artista lo ha ritratto. Perché Caravaggio è vivo mentre dipinge “viva” quella parte di sé staccata da sé. Com’è vivo il ricordo – e forse non solo quello – dell’altro se stesso, quello che ora “si” guarda con compassione.

E allora forse la risposta alla domanda primaria dell’autore è che, anche solo per immaginare quel che Caravaggio ha di fatto realizzato, servirebbe avere la sua “umiltà”. Quella con cui il maestro lombardo riconobbe e confessò il proprio lato oscuro, quella che si portava dietro dagli umori ombrosi della sua terra, e che pulsava in quelle “scene di genere” scaturite “dal mondo mutevole della povera gente […]”

L’excursus “sentimentale” di Flavio Caroli è paradigmatico di come l’umiltà, la semplicità possano rendere “duttili, ricettivi alle emozioni”; esattamente come sono i bambini. E come i bambini, capaci ancora di meraviglia, di empatia, di prossimità emotiva. Perché l’arte ha proprio questa funzione: mettere in comunicazione due anime e due intelletti, quella dell’artista e quella dell’osservatore. Chi osserva si pone in ascolto e questo è un atto d’amore, affatto scontato, che spesso necessita impegno, volontà; “umiltà”, per l’appunto.

“Ma quel che ritorna da tanto amore vale la pena” conclude l’autore, “perché si tratta, semplicemente, della nostra felicità”.

©Francesca SARACENO  Catania 19 Novembre 2023