Pittura e alchimia: le “Tre parche” di Sodoma e Marco Bigio in palazzo Barberini.

di Sergio ROSSI

E’ ormai noto come la cultura ermetica ed alchemica abbia svolto un ruolo di grande rilievo nei secoli XVI e XVII: e non ci si riferisce tanto agli alchimisti con i fornelli e gli alambicchi, che pure esistevano e costituivano spesso l’alter ego della medicina ufficiale, quanto proprio ad un modo di intendere, ad una forma mentis particolarmente disposta ad accettare quei giochi dai molti significati da dare alle cose, quel principio fondamentale della ciclicità delle fasi della natura e della storia che è alla base non solo dell’ermetismo, ma di gran parte dello stesso pensiero cinque e seicentesco.

È l’idea che la morte della materia possa divenire la rinascita dello spirito, che alla notte segua sempre l’alba e poi il giorno e il tramonto e la notte … in un perenne trasmutare del tempo e delle cose. E così la prima fase dell’operazione alchemica, la nigredo, fase di nerezza e morte apparente, è anche un regressus ad uterum, annuncia dunque la nascita: la morte si trasforma nel suo opposto, al nero segue il bianco, alla notte l’alba, alla nigredo segue l’albedo. Poi abbiamo le fasi successive del giorno, il giallo (citrinitas) e del tramonto, il rosso (rubedo), con cui si ha il coronamento dell’opus. L’opera al rosso è infatti la fase conclusiva dell’intero processo alchimistico, il momento in cui viene trovato l’oro dei filosofi, ma, in quanto fase vespertina, contiene anche in sé il principio della sera e della notte, in un percorso ciclico senza fine che è ben simboleggiato dall’ouroboros, il serpente che si morde la coda.

Il processo che abbiamo appena descritto è perfettamente e quasi didascalicamente illustrato in un dipinto raffigurante le Tre Parche  e che è conservato a Roma presso la Galleria Nazionale di Palazzo Barberini [fig.1],

Le tre Parche

dipinto ideato dal Sodoma ed eseguito in parte da un suo allievo senese, Marco Bigio, negli anni ‘40 del Cinquecento, come da me dimostrato in alcune pubblicazioni citate in bibliografia, in cui ho rilevato come il dipinto in questione, già attribuito al Bazzi tardo da uno studioso attento come Nolfo di Carpegna, per certe durezze del segno e certe tipologie dei volti, in sostanza per un certo avanzato “manierismo”, possa appartenere ad un pittore vicino al Sodoma, individuato, come già rilevato a suo tempo da Fiorella Sricchia Santoro proprio in Marco Bigio.

Questa attribuzione è poi confortata da una serie di confronti con altri dipinti di questo per altro assai poco conosciuto pittore senese, che taluni vorrebbero oggi identificare, secondo me a torto, con Girolamo Magagni detto anche Giomo del Sodoma. Infatti opere quali la Pietà della chiesa di Montalcino, la Natività della Vergine della villa Bartalini di Munistero, presso Siena, o ancora l’Apollo e Dafne della collezione Chigi Saracini di Siena o la cosiddetta Venere “Ciani” ora conservata presso la Pinacoteca Nazionale di Siena presentano delle caratteristiche ben precise e tutte ascrivibili alla medesima mano. Tuttavia va anche rilevato che Giulio Mancini nelle sue Considerazioni sulla pittura nel dedicare una breve nota al Bigio lo definisce “uomo basso”, ossia di scarsa cultura, cosa che mal si accorda con un quadro di così distillata cultura esoterica come quello di cui ci stiamo occupando. Ed inoltre il recente restauro ha messo in luce alcune differenze di esecuzione all’interno del dipinto per cui sembra proprio che esso debba ricondursi ad almeno due mani diverse, le quali poi, abbastanza curiosamente, non si dividono la tela in maniera omogenea o sistematica; piuttosto l’impressione è che chi ha impostato l’opera a livello generale ed eseguito poi alcune teste ed alcuni tratti del paesaggio, cioè il Sodoma, abbia lasciato ad un altro artista, più caratterizzato ed acerbo, appunto il Bigio, l’esecuzione della gran parte dell’opera stessa. Pertanto l’attribuzione tradizionale al Sodoma, di cui è noto e documentato l’interesse per l’alchimia, e quella recente a Marco Bigio possono benissimo convivere.

La nostra grande tela (di cm. 200×212) si qualifica subito come un documento visivo che affascina per l’atmosfera di mistero che le figure trasmettono con i loro sguardi ambigui, con i gesti come rallentati, con le forme androgine dei corpi femminili, con quei colori anch’essi misteriosi e vespertini. Certamente l’opera contiene due diversi livelli di lettura: quello mitologico iniziale e quello alchemico sotteso. Quanto al primo, si tratta ovviamente di una raffigurazione delle tre Parche, tra le più antiche personificazioni greche, presenti già in Esiodo, e che simboleggiano il destino umano e presiedono alla lunghezza della vita: sono Cloto, la più giovane, che tiene lo stame con il filo e sovrintende quindi alla nascita; Lachesis che svolge il filo e sovrintende alla vita e infine Atropos, colei che recide il filo e simboleggia la morte.

Quanto al secondo livello di lettura, quello alchemico, per precisarlo meglio dobbiamo partire dal lato destro dell’opera, dove troviamo Cloto, che essendo la divinità preposta alla nascita può bene servire da punto di riferimento iniziale. Ma al suo fianco, spostandosi verso sinistra, non troviamo, come ci si aspetterebbe, Lachesis, la divinità della vita, bensì Atropos, colei che decide la morte, vista proprio nell’atto di recidere il filo della vita stessa. Ecco allora che si passa dalla nascita alla morte secondo il fluire del tempo, simboleggiato dalla figura di Cronos. La valenza mortuaria di Atropos è poi ribadita dalla presenza del teschio e della schiava negra, la quale in alchimia è proprio il simbolo della nigredo.

Atropos è dunque il vero perno di tutta la composizione e il suo gesto di recidere il filo, che è un gesto di morte, come per incantesimo si trasforma nel suo esatto contrario:

infatti le forbici in alchimia simboleggiano il fuoco dei filosofi, ossia l’elemento purificatore della materia indispensabile per consentire il passaggio dalla fase della nigredo a quella successiva dell’albedo, dalla morte alla nascita.

Anche la schiava negra tende a ribadire questo doppio concetto: se il nero della pelle allude alla nigredo, rimandano invece alla fase successiva dell’albedo le perle che essa porta al collo e soprattutto il gesto di spremersi il latte dal seno, che è simbolo di vita e di fecondità confermato dal fatto che la schiava ha quattro mammelle, come le antiche dee dell’abbondanza; infine alla fase della rubedo alludono i monili di corallo portati dall’ancella. Ed allora anche le immagini di morte fisica che si trovano alle spalle della schiava, ossia l’albero secco ed il teschio debbono considerarsi proprio una conferma dell’idea espressa dall’autore e cioè che la morte fisica non è che un momento, necessariamente transeunte, che prelude (quando l’opus è riuscita) al suo superamento ed alla fase successiva, quella dell’albedo.

Quest’ultima è in qualche modo introdotta dall’albero ricco e rigoglioso di frutti che si contrappone a quello secco, ma è impersonata soprattutto dalla figura di Lachesis, la parca che rappresenta la vita: essa è affiancata da una coppia di cigni bianchi, che sono proprio il simbolo alchimistico dell’albedo, la seconda fase dell’opus. Quando il bianco sopraggiunge è segno che l’artista ha ben operato, che la materia ha acquistato il grado di fissità che il fuoco non potrà distruggere e che si deve continuare con il fuoco stesso per perfezionare il magistero al rosso.

Per trovare il coronamento dell’opus dobbiamo però tornare al punto di partenza, cioè a Cloto, che allude anch’essa all’albedo attraverso il filo bianco che si diparte dalla sua rocca, ma rimanda soprattutto alla rubedo indicando proprio con la rocca stessa, quasi fosse una freccia, la tenda rossa che si erge alle sue spalle a mo’ di baldacchino. L’opera al rosso che è il momento culminante e conclusivo del magistero alchemico è però rappresentata (attraverso quel processo di coincidenza degli opposti che caratterizza tutto il quadro) proprio da Cloto, la parca che sovrintende alla nascita. Siamo dunque inseriti nuovamente in un processo circolare che potrebbe durare all’infinito e ad esso rimanda anche il doppio cerchio intrecciato che Cloto porta nell’acconciatura dei suoi capelli.

Certo questa lettura non esaurisce tutti i molteplici significati dell’opera, che ad esempio presenta anche delle sorprendenti tangenze con un lungo passo dell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto, ed esattamente con i canti trentaquattresimo e trentacinquecisimo, laddove Astolfo, alla ricerca del perduto senno di Orlando, guidato da San Giovanni Evangelista, giunge presso il Palazzo delle Parche. Queste, a differenza che nel nostro dipinto, sono solo due ed anche vecchie ma, proprio come nel nostro quadro, oltre a tessere e filare hanno anche ai loro piedi delle piastre, alcune di ferro, altre d’argento, e altre ancora d’oro con su impressi i nomi dei mortali:

«E poi fatti n’avean cumuli spessi/de’ quali, senza mai farvi ristoro/portarne via non si vedea mai stanco/un vecchio, e ritornar sempre per anco./Era quel vecchio sì spedito e snello,/che per correr parea che fosse nato».

Ed è un’immagine che corrisponde esattamente a quella di Cronos del dipinto, che anche a noi appare come un uomo maturo che porta nel lembo del suo mantello le monete di diversi metalli su cui sono incisi i nomi dei mortali. Ma troviamo ancora, sia nel poema che nel quadro, il fiume dove vengono gettate le monete; la coppia di cigni vicina al corso d’acqua; infine gli edifici e la colonna che spuntano dal fiume, tutti elementi la cui decifrazione in rapporto al tema delle Parche sarebbe stata impossibile prescindendo dal brano ariostesco, che dal Sodoma e dal Bigio è ulteriormente piegato in senso esoterico.

Così l’elemento delle medaglie, attraverso le figurine dei tre amorini che giocano,

è messo in relazione con il tema alchemico del ludus puerorum, che sta a significare la facilità nell’ottenere la pietra filosofale per coloro che sono ben istruiti nelle operazioni alchimistiche.

Ed ancora l’edificio che sorge sul fiume, raggiungibile attraverso sei scalini che partono direttamente dall’acqua, è strutturato in modo tale da richiamare l’athanor o forno alchemico.

A questo punto credo che il contesto esoterico del dipinto sia emerso in modo sufficiente, anche se per una sua ulteriore disamina rimando al mio testo del 1993, dove comunque avvertivo che solo una ricerca approfondita sulla cultura del committente e della cerchia che egli frequentava (che a tutt’oggi non mi risulta mai essere stata fatta) potrebbe indicarci a chi vada effettivamente ascritta la complessa ideazione del nostro quadro. Marco Bigio, allo stato attuale delle ricerche, appare dunque più come un esecutore di idee altrui che non un inventore di iconologie in proprio, anche se altri dipinti sicuramente di sua mano (e derivati tra l’altro dalle Parche baberiniane) sono interpretabili in chiave esoterica, su tutte la cosiddetta “Venere di casa Ciani” ora presso la Pinacoteca di Siena e da me portata per la prima volta all’attenzione della critica nel saggio del 1993, dove, fra l’altro, rimarcavo come la figura principale di questo dipinto, Venere appunto, ci appare anch’essa come una allegorizzazione stessa dell’alchimia, a conferma di come la cultura esoterica fosse tutt’altro che una componente secondaria dell’ambiente culturale senese di metà cinquecento.

Sergio ROSSI     Roma  19 aprile 2020

Bibliografia

– Sricchia Santoro, scheda Marco Bigio in Da Sodoma a Marco Pino, catalogo della mostra, Firenze 1988.
– Rossi, Il fuoco di Prometeo. Metodi e problemi della storia dell’arte, pp.147-171. 1989
– Rossi, Arte come fatica di mente. Da Leonardo al Novecento, Roma 2012, pp. 84-92 1990