di Rita RANDOLFI
Storica dell’arte, Insegnante
Già tre anni fa, in questa stessa sede, pubblicavo le mie riflessioni sul Natale e sull’interpretazione che Giotto forniva della Natività nell’affresco dedicato a questo argomento, nella cappella degli Scrovegni a Padova[1].
Torno oggi sull’argomento, che mi appare quanto mai attuale, proprio nel dramma della pandemia che stiamo vivendo. E di nuovo ho la sensazione che nessuno meglio degli artisti medievali, di Giotto, di Pietro Cavallini, su cui si sofferma la mia riflessione qui presentata, penetri così profondamente in quel mistero che ha cambiato la storia del mondo. Siamo entrati da poco nel 2021, un anno che tutti ci auguriamo sia all’insegna della speranza di un vaccino efficace, in grado di sconfiggere definitivamente il Covid-19. Stiamo ancora in un clima di festa, una festa anomala, vissuta in solitudine, lontana dagli affetti, una festa intima che nessuno dimenticherà, e mi sono chiesta cosa significhi il Natale oggi, privato di tutto quel contorno mondano, fatto di shopping compulsivo, di luci, di frenesia, un contorno a cui tanti non hanno voluto rinunciare, mettendo a rischio la propria e l’altrui salute.
Cosa c’è di più importante di una nascita e quindi della vita? Come mai tante persone mettono in secondo piano la vita e al primo un divertimento che sembra mal celare la paura della morte e della malattia? Sono affermazioni retoriche, ascoltate milioni di volte. La novità sta nel Natale stesso, così antico e così attuale, in come gli artisti medievali, così scevri da pregiudizi, siano entrati nella bellezza di quel racconto che si rinnova continuamente nella vita di ciascuno: Dio si manifesta nelle circostanze della storia.
Il vangelo di Luca è sorprendente, e sembra descrivere i nostri tempi:
«In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra» (Luca, capitolo 2, versetto 1).
Eccolo il decreto, (quanto ci siamo abituati a questa parola!) una circostanza che irrompe nella semplice esistenza di due sposini, costretti a tornare a casa, a Betlemme. Quanto è seccato anche a noi quel decreto che ha colorato di rosso l’Italia intera, lo stesso rosso del sangue di chi è rimasto vittima della pandemia, quel decreto che ha scombinato le nostre abitudini, ci ha obbligati a rimanere a casa. Eppure è per obbedire al decreto che Giuseppe si mette in cammino verso Betlemme con Maria, che era pure incinta e avrebbe certamente preferito starsene tranquilla presso sua madre, che poteva aiutarla.
Le persone oneste obbediscono alla legge, anche se non piace, anche se arriva nel momento più inopportuno, che ovviamente accade: il parto. Ed ecco rappresentata la fatica del viaggio e del parto nel mosaico di Pietro Cavallini in Santa Maria in Trastevere:
Giuseppe sta seduto su una roccia ruvida e gelata, la posizione scomoda non impedisce alla stanchezza di sopraffarlo, il suo volto sfinito è appoggiato alla mano, il suo sguardo tradisce un’incontenibile voglia di addormentarsi, ma il suo è un sonno continuamente interrotto dai vagiti del figlio, da qualche richiesta della moglie, dall’arrivo dei pastori. Cavallini rende bene questo dormiveglia, anticipando le fotografie di tanti infermieri, che vinti dagli sforzi compiuti e dalla spossatezza si sono addormentati assumendo le posizioni più bizzarre nei luoghi più insoliti che si potessero immaginare, anche loro interrotti da arrivi improvvisi, da chiamate, da richieste di aiuto.
E c’è Maria, anche lei sfinita dal viaggio e dal parto, distesa su un letto di fortuna, ha perso sangue, acque, energie, e non ce la fa a mettersi in piedi, teneramente si accarezza la pancia improvvisamente vuota. Maria sembra uno dei tanti pazienti sistemati alla meglio nei pronto soccorso degli ospedali, Maria in attesa di una visita per essere confortata, riscaldata.
Maria che cerca di rilassarsi, chissà magari intonando sottovoce qualche ninnananna, o pregando silenziosamente quel Dio, di cui lei, con tanta paura e altrettanto amore, aveva accolto l’invito. Ed ecco che quell’invito diventa carne, ossa, sangue, un Bambino che lei, come riferisce Luca al versetto 7 dello stesso capitolo 2, aveva avvolto in fasce e aveva posto nella mangiatoia.
Cavallini dipinge quella mangiatoia proprio davanti al bue e all’asinello, una scatola di legno, che evoca una bara, come le tante che abbiamo visto partire dalle grandi città del nord Italia nella scorsa primavera. Lì dentro c’è tutto il dolore del mondo, tutta la paura della morte, quella morte che proprio quel bimbo è venuto a sconfiggere. Lì dentro c’è quel bambino, la speranza che si fa concreta, c’è quel pane-Eucarestia per tutti. Ma come racconta l’evangelista e come Cavallini ritrae, Gesù è avvolto in fasce. Le fasce servivano per garantire l’igiene, la protezione dal freddo, ma anche dai movimenti involontari, che avrebbero potuto causare ferite pericolose per un neonato, erano considerate una sorta di para-colpi moderni. Ma le fasce limitano la libertà, e il Gesù di Santa Maria in Trastevere soffre questa mancanza di movimento, il suo corpicino rigido e immobile emette segni di vita solo attraverso gli occhietti vivaci e la manina tenuta diligentemente lungo il fianco. La madre tuttavia è consapevole che il figlio dovrà sopportare questa costrizione per il suo bene, per poter crescere sano.
Le fasce bianche come le nostre mascherine: ci tolgono il respiro, la gioia di un sorriso, ma sono indispensabili per proteggerci dal contagio. Anche noi dobbiamo imparare da quel bambino che occorre sopportare qualche limitazione per un bene più grande. Infine la grotta che riassume il versetto 7 del capitolo 2 del vangelo di Luca: «Per loro non c’era posto». Non c’è posto per Maria e Giuseppe e non c’è per i tanti malati che dovrebbero essere ricoverati nelle terapie intensive, e non c’è per i malati di altre patologie, che si vedono chiudere porte e possibilità di guarigione. Eppure Giuseppe avrà sicuramente spazzato e preparato quel letto di fortuna per Maria e avrà riadattato quella mangiatoia a culla.
Nella miseria più estrema, Qualcuno si prende cura di te. Arriva un angelo, con mani e braccia d’uomo, che ti riempie di luce, quella luce che accende i cuori dei pastori, i più dimenticati della terra, quella luce che ti spinge a riprendere il cammino, la luce sfavillante e dorata che riempie il mosaico di Cavallini eseguito tanti secoli fa, ma che rende il messaggio del Natale così vero, così toccante. E noi, come Maria, cerchiamo di custodire queste cose nel nostro cuore, (Luca, capitolo 2, versetto 19), di non sprecare questa esperienza assurda che ci è toccato di vivere e di imparare a non dare nulla per scontato, a non lamentarci del lavoro, delle file, della folla, dei decreti, dei medici, degli insegnanti, di quelli che hanno speso tempo, energie, mettendo anche in pericolo se stessi ed i propri cari, per portare quel raggio di luce nel buio della sofferenza di qualcun altro.
Sarebbe triste tornare come prima, come se nulla fosse accaduto. Il mondo dopo quella notte non sarà più lo stesso, la storia completamente cambiata. Senza indugio, come i pastori, andiamo anche noi incontro all’anno appena iniziato, con speranza, ma anche con maggior senso di responsabilità, e con il desiderio di custodire il creato, la natura, la bellezza, la bontà. Buon anno a tutti.
Rita RANDOLFI Roma 10 gennaio 2021