Il Museo della Fotografia di Troina dedicato a Robert Capa “il più grande fotografo di guerra del mondo”.

di Sergio ROSSI

Troina è un comune siciliano di circa 9000 abitanti posto in un’area montuosa a 1120 metri sul livello del mare nell’estremo nord della provincia di Enna, al confine con le città metropolitane di Messina e Catania e che dal 2017 è stato meritatamente inserito tra i borghi più belli d’Italia

Qui dal 2021, nel Palazzo della Prefettura, nel cuore del centro storico cittadino, sorge uno di musei più affascinanti e pregevoli anche se forse meno conosciuti d’Italia e unico in Europa, il Museo della Fotografia Robert Capa, il più grande fotoreporter di guerra di tutti i tempi. E non si tratta certo di una scelta casuale. Troina infatti fu la sede di una dura battaglia che dal 1° al 6 agosto del 1943 vide opposti i soldati tedeschi e italiani arroccati in paese e le truppe alleate che avanzavano verso Messina, battaglia che fu appunto documentata da Capa attraverso splendide e drammatiche immagini ora esposte, insieme ad altre dedicate allo sbarco in Sicilia, nel Museo a lui dedicato e che presenta 62 preziose stampe fotografiche, in buona parte inedite, da negativo originale.

Nel 2015, dopo Roma, Firenze, Genova e Milano anche Troina è stata la sede della mostra Robert Capa in Italia 1943-1944. Da qui l’idea, realizzata sei anni dopo grazie all’appassionato impegno di Sebastiano Venezia, già sindaco della cittadina per due legislature col generoso sostegno della Fondazione Famiglia Pintaura, di trasformare quell’evento occasionale in una esposizione permanente che non vuole essere e non è solo una mostra dall’alto valore estetico ma anche un momento di riflessione e di rifiuto di tutte le guerre, condotto con lo stile asciutto, antiretorico ma non asettico e per questo ancora più efficace proprio di Capa e del suo modo di fare fotografie.

Tra gli scrittori a lui contemporanei il primo nome che viene in mente è certo quello del suo amico Ernest Hamingway e di Per Chi suona la campana, ambientato durante la guerra civile spagnola, ma se c’è un artista che invece io accosterei immediatamente a Capa è Bertolt Brecht, che cambiava anche lui “più spesso paese che scarpe” e che per esempio in A coloro che verranno del 1938 ci ha lasciato una sorta di epigrafe che sicuramente Robert avrebbe potuto fare sua:

«Quali tempi son questi, quando/discorrere d’alberi è quasi è un delitto/ perché di troppe stragi si deve tacere»,

e che in E’ notte, in sole tre righe, ci ha lasciato una delle più strazianti testimonianze della guerra in corso:

«Le coppie/vanno a letto. Le giovani mogli/partoriranno orfani».

Ende Friedman, questo il vero nome del fotografo, nasce a Budapest nel 1913.  E come viene efficacemente sintetizzato nell’incipit del Catalogo del Museo:

«Il suo profondo interesse per gli eventi socio-politici, il grande talento fotografico e una fotocamera portatile Leica 35 mm danno impulso alla sua carriera di “fotoreporter” più di dieci anni prima che il termine fosse coniato. Il suo grande amore Gerda Taro, incontrato nel 1934, inventa il personaggio di un famoso fotografo americano di nome Bob Capa, nella convinzione che le foto di un noto americano sarebbero state vendute con più facilità di quelle di uno sconosciuto ungherese. Aveva ragione. Le foto di Capa vendettero per il triplo del prezzo corrente».

Intano Gerda moriva nel 1937 a soli 27 anni durante la Guerra civile spagnola, quella che consacrerà Capa come “il più grande fotografo di guerra del mondo”, anche grazie a questo scatto divenuto iconico[1].

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Certamente Friedman /Capa non era tra coloro che volevano fotografare alberi o tacere di stragi, anzi queste ultime egli voleva documentarle tutte e per questo anche lui morirà 17 anni dopo la sua compagna calpestando una mina antiuomo mentre seguiva la guerra di Indocina. Ma il suo non era uno sguardo indifferente o neutro perché come scrive in Catalogo Ezio Costanzo:

«Fortemente motivato ideologicamente, antifascista e vicino al fronte repubblicano, allo scoppiare della guerra civile si traferì in Spagna assieme alla sua compagna Gerda Taro e nel settembre del 1936 il settimanale francese Regards pubblicò il suo primo servizio fotografico che ritraeva i volontari repubblicani in partenza dalla stazione di Barcellona per il fronte di Aragona. I suoi scatti hanno documentato anche la seconda guerra sino-giapponese, la seconda guerra mondiale, la guerra arabo-israeliana, la prima d’Indocina. In ognuno di questi conflitti Capa ha saputo cogliere i momenti più rappresentativi, rappresentando gli aspetti umani dei suoi soggetti, le azioni come conseguenza e prodotti del genere umano, quindi orribilmente più assurdi ed insensati».

Quanto al suo avventuroso arrivo in Sicilia egli stesso racconta di essersi fatto paracadutare il giorno prima dello sbarco alleato, la sera del 9luglio del 1943, partendo da una base aerea di Tunisi:

«Mi svegliarono appena un attimo prima che lampeggiasse il segnale verde. Quando arrivò il mio turno saltai col piede sinistro avanti, nell’oscurità… Meno di un minuto dopo atterrai su un albero nel bel mezzo di un bosco. Per il resto della notte restai appeso lì e le mie spalle scoprirono quanto pesasse il resto del corpo. Si sparava in continuazione intorno a me. Non avevo il coraggio di chiedere aiuto. Col mio accento ungherese avevo le stesse possibilità di essere colpito da entrambe le parti».

Capa e altri paracadutisti che erano con lui furono poi ospitati da un contadino siciliano fino all’arrivo dei soldati della 1° divisione alleata e grazie all’amicizia col generale Theodore Roosevelt jr poté rimanere al seguito dell’esercito pur non avendo al momento nessun accredito ufficiale.

Prima di Troina Capa documentò l’avanzata degli alleati ad Agrigento e Palermo, anche se proprio quelli eseguiti durante la battaglia della cittadina dei Nebrodi rimangono tra i suoi scatti più significativi:

«Troina fu dura. Ci vollero sette giorni per conquistarla e perdemmo una grande quantità di uomini. Era la prima volta che seguivo un attacco dall’inizio alla fine ma fu anche l’occasione per scattare delle ottime foto. Erano immagini molto semplici. Mostravano quanto cupa e poco spettacolare fosse in realtà la guerra. Il piccolo bel paese di montagna era ridotto in macerie. I tedeschi che lo avevano difeso si erano ritirati nella notte lasciandosi dietro molti civili italiani, morti o feriti. Eravamo distesi a terra nella piccola piazza del paese, di fronte alla chiesa, completamente esausti e disgustati. Pensavo che non avesse alcun senso questo combattere, morire e fare foto».

Eppure Capa ha continuato a documentare le distruzioni ma anche i momenti di entusiasmo o di attesa che seguivano la ritirata delle truppe occupanti nel suo stile asciutto e poetico insieme, perché non vi è nulla di più poetico e insieme struggente della foto di una vecchia vestita di nero che arranca ricurva tra le bianche macerie di Agrigento [2]

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o quella di una bambina bionda seduta su degli enormi sacchi davanti alla cattedrale di Palermo [3], segno che la vita continua, nonostante tutto e tutti.

Immagini che nella loro assoluta asciuttezza mi fanno venire in mente quello che Argan ha definito il primo quadro rivoluzionario della storia dell’arte, La morte di Marat di J. L. David, dove la cronaca diventa storia e il corpo di un uomo sanguinante a mezzo busto diviene il simbolo stesso della Rivoluzione Francese. Anche se il bianco e nero delle sue foto, così essenziale e insieme pittorico mi ricorda piuttosto l’altro grande quadro rivoluzionario, questa volta del XX secolo, cioè Guernica di Picasso.

Dicevo che Capa ha sentito il dovere di continuare a fotografare tutte le guerre, fino a quella d’Indocina dove ha perso la vita, dovendo amaramente constatare che la storia non insegna nulla. E a questo proposito voglio ricordare la mia visita, durante un recente viaggio, al Museo della Guerra di Saigon, che documenta (anche qui soprattutto attraverso impressionanti immagini fotografiche [4]) gli orrori compiuti dai soldati americani in Vietnam e di cui ho scritto in un mio recente articolo su questo stesso giornale.

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Tornando al Museo troinese esso ci riporta, come in un viaggio nel tempo, anche alla gloriosa stagione della cinematografia neorealista italiana dell’immediato dopoguerra, ai capolavori di Roberto Rossellini (Roma città aperta, Paisà), Vittorio De Sica (Sciuscià, Ladri di biciclette), Luchino Visconti (La terra trema), Giuseppe De Santis (Riso Amaro), Renato Castellani (Sotto il sole di Roma), che in maniera diversa ma sempre usando la macchina da presa un po’ come Capa usava la sua Laica ci hanno restituito un’immagine drammaticamente nitida ed essenziale dell’Italia di quegli anni.

E se dovessi trovare un sostantivo che sintetizza al meglio l’arte del nostro fotografo io userei proprio il termine di realismo inteso in senso più ampio e che ingloba sia il cosiddetto “realismo poetico” dei tanti capolavori francesi interpretati da Jean Gabin, negli anni ’40 e ’50, dal Porto delle nebbie a La traversata di Parigi; sia il neo realismo propriamente detto, anche se esso viene solitamente limitato alla letteratura e filmografia italiana dell’immediato dopoguerra, mentre come io lo intendo ha un orizzonte molto più vasto, che intanto include anche il primo Pasolini e soprattutto il Renato Guttuso dei dieci disegni del secondo quaderno di cultura popolare edito a Roma nel 1951 e dedicato ai Contadini di Sicilia [5]; sia ancora certa cinematografia americana dell’immediato dopoguerra che trova comunque le sue radici in Quarto potere di Orson Welles. Sia infine la letteratura asciutta, martellante e poetica insieme di Graham Green e dei suoi bellissimi romanzi degli anni quaranta e cinquanta tutti aventi i conflitti bellici come sfondo, dalla seconda guerra mondiale alla guerra d’Indocina.

La caratteristica che unisce tutti gli esempi prima citati all’arte di Capa e la capacità di conferire ad un volto, a un primo piano, ad una immagine scattata come per caso, un valore universale attraverso il quale si può ricostruire un’intera storia, come nel caso della ragazzina palermitana dalle scarpe bianche o della vecchia agrigentina tra le macerie, che ci possiamo immaginare mentre tornano a casa nelle loro abitazioni ormai distrutte, la prima, nonostante gli orrori appena visti, piena di attese per un futuro di pace, la seconda disperatamente protesa a vivere comunque i giorni che ancora le si prospettano davanti, magari nella speranza o forse nella certezza che per i propri figli e nipoti saranno migliori di quelli che ha vissuto lei.

Come scrive in Catalogo Stefano Puglisi:

«Egli si distingue perché comprende il valore antropologico dell’immagine, nella sua presunta e accordata veridicità che la rende documento intangibile, traccia indelebile, di una testimonianza diretta. L’intento di Capa è quello di utilizzare la fotografia per esprimere un puro realismo, ma non nasconde mai il suo punto di vista, da quale parte viene raccontato l’evento».

Capa “realista” dunque, e non semplicemente cronista o testimone asettico del mondo che egli rappresenta, in altri termini non semplicemente “naturalista”, come un grande artista prima di lui, il primo “realista” della storia dell’arte, Caravaggio, anch’egli capace di simboleggiare attraverso un volto ravvicinato in presa diretta il destino dell’intera umanità peccatrice.

In particolare vi è una foto che purtroppo non possiamo qui riprodurre, Corpi sulla strada in via della Stazione a Gela, con due cadaveri abbandonati sul ciglio di una strada nell’indifferenza dei passanti e in un assolato squarcio urbano, che definirei caravaggesca per la sua straordinaria potenza evocativa. Ma vi sono tantissime altre foto che si possono citare,

«così, per esempio-scrive in Catalogo Luciano Granozzi- quella celebre del contadino che sembra indicare al soldato americano la direzione presa dal nemico con la punta di un bastone lunghissimo parrebbe una semplice riproposizione del mito dell’accoglienza favorevole riservata ai liberatori, dell’attiva collaborazione con gli ex nemici immediatamente trasformati in alleati. Eppure quell’immagine trae una straordinaria forza di suggestione da altri elementi; in primo luogo va considerata la profondità di campo, che conferisce grande suggestione al paesaggio: quasi uno scenario da film western. In secondo luogo è decisiva la composizione pittorica dell’inquadratura, ovvero l’enorme sproporzione tra il gigantesco soldato, ancora più colossale per la prospettiva e perché costretto ad accovacciarsi per condividere il punto di vista del minuscolo siciliano. E’ logico pensare che costui sia così minuscolo perché piegato letteralmente in due da una scoliosi conquistata a duro prezzo con picco, pala e zappa, la malattia professionale più diffusa tra i contadini meridionali e non solo. Ma un osservatore inconsapevole potrebbe associarlo a una sorta di fauno, sbucato all’improvviso nel vasto entroterra siciliano» [6].
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Ma sono tantissime le altre foto che si possono citare: quella bellissima della Ragazzina ferita con una gamba fasciata, sofferente ma dignitosissima, col padre ripreso in piano piano e che sembra uscire da un film neorealista di De Sica mentre una donna più anziana osserva muta e impassibile sull’uscio di casa e sembra portarsi dietro secoli di rassegnazione [7].

Ancora l’immagine guttusiana del contadino appeso al suo stracarico mulo mentre nello sfondo compare un carro armato e passato e presente si fondono in un’unica iconico istante [8].

 

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E poi ancora le tante foto di Troina semidistrutta dai feroci combattimenti, con la popolazione prima incerta poi festante e con gli stessi prigionieri italiani stranamente sorridenti, forse perché finalmente consapevoli di avere comunque salvata la vita. Vita che continua, qui come ad Agrigento o Palermo, con gente che si affolla sugli autobus stracolmi, donne che lavano i panni, soldati americani che suonano la fisarmonica. Tutte immagini che per motivi di spazio non posso riprodurre ma che invito il lettore ad osservare dal vivo nel bel Museo di Troina.

Sergio ROSSI  9 Luglio 2023