“Il male in bocca”. Il libro di Marco Bussagli sulla lunga storia di un’iconografia dentaria dimenticata.

di Nica FIORI

Per gli antichi greci, la perfezione fisica designava le doti morali di un individuo e questo concetto di uguaglianza tra bellezza e virtù era designato con il termine kalokagathía, formato dall’unione di kalós (bello), kai (e) e agathós (buono): un ideale che in campo artistico Policleto giunse a teorizzare nel Canone, un trattato perduto sulle corrette proporzioni che dovevano sussistere tra le varie parti del corpo per ottenere equilibrio e armonia. Tutto ciò che era al fuori della regola in un corpo umano veniva caricato di una valenza simbolica negativa, anche se, in realtà, gli esseri diversi o “mostruosi” dei miti greci potevano avere anche una connotazione prodigiosa o sacrale, essendo generati il più delle volte da divinità.

Uno dei miti più raffigurati nel mondo classico è quello della Gorgone che pietrifica con il suo sguardo e dell’eroe che riesce ad ucciderla guardando la sua immagine riflessa in uno specchio. Ci riferiamo in questo caso a Medusa, l’unica mortale tra le terribili Gorgoni, la cui testa anguicrinita, tagliata da Perseo, ha avuto una straordinaria fortuna in campo artistico, a partire dalla sua raffigurazione sull’egida di Atena e di Zeus, e poi nei frontoni, negli acroteri e nelle antefisse dei templi greci, magnogreci ed etruschi.

1 Antefissa in terracotta policroma con Gorgone, 450 a.C., dal Santuario di Portonaccio, Museo di Villa Giulia, Roma

Un esempio tra tanti lo possiamo osservare nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, dove si conserva un’antefissa in terracotta policroma con Gorgone, proveniente dal tempio di Portonaccio a Veio (450 a.C. ca.). La sua dentatura presenta un’anomalia dentaria, quella del quinto incisivo centrale dell’arcata superiore, chiamato mesiodens, che non è sfuggita allo sguardo attento del noto storico dell’arte Marco Bussagli, il cui ultimo libro “Il male in bocca. La lunga storia di un’iconografia dimenticata” (Edizioni Medusa, 2023) è incentrato proprio su questa “stranezza” anatomica, riscontrata dall’autore anche in altre immagini della Gorgone e di diverse figure mitiche, a partire dal VI secolo a.C., con diversi significati simbolici che si sono modificati nel tempo.

Copertina

Il volume (375 pagine), è il risultato di un’approfondita ricerca sulle origini e lo sviluppo dell’iconografia del mesiodens dalla Grecia arcaica ai giorni nostri. Già dalle prime pagine l’autore offre al lettore molteplici spunti di riflessione su una “disarmonia” della quale nessuno studioso di arte prima di lui aveva mai parlato. Questa ricerca prende le mosse dal precedente libro dello stesso Bussagli “I denti di Michelangelo. Un caso iconografico”, uscito sempre per i tipi di Medusa nel 2014 e di cui ha parlato su questa rivista il Prof. Rossi (Cfr. https://www.aboutartonline.com/michelangelo-caravaggio-e-lanomalia-del-quinto-incisivo-riflessioni-dal-volume-di-marco-bussagli-i-denti-di-michelangelo/  )

Fu grazie alla visione a distanza ravvicinata del Giudizio Universale di Michelangelo, in occasione del restauro dell’affresco della Cappella Sistina nel 1996, che Bussagli osservò per la prima volta la presenza del dente soprannumerario in alcuni volti michelangioleschi. Dopo aver constatato che era presente non solo nei diavoli del Giudizio, ma anche in altre figure della Sistina, tra cui Giona e la bellissima Sibilla Delfica, come pure nella Furia degli Uffizi, nell’aguzzino che alza la croce nella Crocifissione di san Pietro nella Cappella Paolina del Vaticano e in altre immagini, egli si appassionò all’argomento e analizzò i testi di medicina dell’epoca, come quello di Michele Savonarola (zio del più noto Girolamo) che parla di “denti bastardi”, ovvero fuori dalla norma, rendendosi conto che il quinto incisivo doveva essere una patologia ben nota all’epoca e conosciuta anche dal medico e amico dell’artista Realdo Colombo.

2 Grafica da Michelangelo della cd. Furia infernale, 1525-1528, Firenze, Uffizi

Una patologia alla quale Michelangelo, coinvolto nei dibattiti morali e teologici dell’epoca, deve aver dato una connotazione negativa (violenza, lussuria, peccato), almeno per quanto riguarda le figure di diavoli o di dannati, mentre non si può dire lo stesso per la Sibilla e Giona, figure profetiche nelle quali si può vedere non tanto il male, quanto l’assenza della Grazia, perché antecedenti alla venuta di Cristo.

Continuando nelle sue indagini, l’autore ha avuto modo di constatare, con grande sorpresa, che l’incisivo mediano è presente anche nel Cristo morto della Pietà vaticana. L’unica ipotesi plausibile per questa strana presenza è che “Cristo è colui che prende su di sé il male del mondo”. E per spiegare questa “sorte apparentemente iniqua”, Bussagli cita alcuni passi delle Sacre Scritture e giunge alla conclusione che quell’iconografia potrebbe rappresentare il peccato originale, essendo Cristo vero dio e vero uomo allo stesso tempo:

Allora quel dente che deturpa il volto di Cristo è l’abisso del male colmato dall’immensità infinita del Bene di Dio, per la remissione del primo peccato all’origine di tutti i vizi”.
3 Grafica dello Scheletro risorto di Michelangelo, part. del Giudizio Universale, 1541 ca. Cappella Sistina, Vaticano

E qui l’autore riconosce a Michelangelo un’arte davvero “divina”, che solo un artista “teologo” come lui è in grado di realizzare. Un artista sicuramente tormentato dal senso del peccato, che vive la sua solitudine come una specie di condanna e che esprime il suo pensiero attraverso immagini, che non tutti sono in grado di capire.

A proposito di questa incapacità di comprensione, Bussagli ha scoperto che il pittore lombardo Marcello Venusti, che nel 1549 realizzò una copia di grandissimo formato del Giudizio universale per il cardinale Alessandro Farnese (nipote di Paolo III), si permise addirittura di correggere la stranezza del quinto incisivo in alcuni demoni e dannati e nello scheletro risorto, dipingendo 4 incisivi e non 5, evidentemente perché non capiva del tutto l’opera michelangiolesca.

 

4 Marcello Venusti, Scheletro risorto, part. della copia da Michelangelo, 1549, Napoli, Museo di Capodimonte

Appena uscì il libro, l’osservazione del tutto inaspettata da parte di Maurizio Cecchetti (giornalista di Avvenire, nonché editore e autore di importanti saggi) della presenza del mesiodens nel Cristo dolente del Bramantino della Collezione Thyssen di Madrid (1490 ca.), riportata nella sua recensione della mostra dedicata al pittore a Lugano, fece immediatamente capire a Bussagli che il caso iconografico del “dente di Michelangelo”, come ormai gli piace chiamarlo (auspicandosi che questa locuzione venga adottata anche dagli altri storici dell’arte), non era affatto esaurito, visto che era presente in altri pittori, e dal 2014 al 2023 ha raccolto tanto materiale che ora vede la luce nel nuovo volume, preceduto negli anni da alcuni articoli usciti su Art e dossier.

I risultati della sua ricerca, come racconta nell’introduzione

furono sorprendenti perché, al di là degli esempi medievali già citati nel libro, ossia il grande mosaico di San Marco a Venezia con la Discesa di Cristo al Limbo, o gli affreschi di Andrea di Bonaiuto nel Cappellone degli Spagnoli a Firenze, mi accorsi che il cosiddetto Marsia rosso degli Uffizi aveva questa stessa anomalia dentaria”.
5 Restituzione grafica della testa del Marsia rosso, II sec. d.C., Firenze, Uffizi

La scultura romana del II secolo d.C. raffigurante il satiro Marsia, appeso nudo a un albero prima di essere scuoiato perché aveva osato sfidare Apollo in una gara musicale, era particolarmente significativa perché all’epoca di Michelangelo faceva parte della collezione di Lorenzo de’ Medici, e pertanto poteva aver influenzato le scelte michelangiolesche, e allo stesso tempo apriva la questione della diffusione del quinto incisivo nel mondo antico.

Prosegue Bussagli:

 

Mi resi conto che l’arco temporale nell’ambito del quale si propagò questa iconografia, sia pure con alcune declinazioni simboliche diverse, talora in apparente contraddizione (come, del resto, accade a tutte le costellazioni di simboli importanti), andava dalla Magna Grecia al XX secolo. Si profilavano, perciò, due ambiti d’indagine. Uno di natura, per così dire, religiosa e l’altro laico. (…) Quel che è emerso da questa nuova ricerca, spiega come il caso di Michelangelo s’inserisca entro una tradizione secolare che si è lasciata affascinare da un’anomalia anatomica, apparsa raccapricciante in un primo tempo – tanto da poterla definire come l’immagine de ‘il male in bocca’ – ma che subito dopo fu considerata ammaliatrice e tale da catalizzare l’attenzione di artisti, medici e teologi”.

Tornando alle origini dell’iconografia, l’autore fa giustamente rilevare che il nome Medusa corrisponde al participio presente del verbo medo, che vuol dire “proteggo, ho cura” (e infatti il termine medicina deriva da questo verbo), come pure “domino”, e ha anche un valore negativo, nel senso di “aggredisco” e, poiché nell’ambito dell’arte greca non c’è la figura della morte (se non Thanatos che è un bel fanciullo alato, non molto dissimile dal fratello Hypnos), questo ruolo tremendo lo prende Medusa, la “dominatrice”, colei che pietrifica. Quando gli artisti le mettono il dente centrale, si riferiscono alla morte. Non sempre questo dente è al centro di cinque incisivi, ma a volte è al centro di tre, tra due zanne ferine.

La presenza di questa iconografia, oltre a quella con arcata dentaria ortodontica, è presente su monete del VI-V secolo a.C. che provengono da un vasto orizzonte culturale e geografico, come la Tracia, la Macedonia, l’Attica, la Sicilia, e allora ci si potrebbe chiedere come mai gli antichi coniassero questo simbolo della morte.

La risposta è semplice: per scaramanzia. – scrive l’autore – Quella presenza, infatti, assumeva il valore apotropaico dell’allontanamento del male dai commerci, dagli affari, scongiurando la povertà. Medusa, quindi, passava dall’essere dominatrice a protettrice”.

Cosa che si inquadra perfettamente nell’ambiguità del verbo medo.

6 Grafica della statera d’argento con testa di Gorgone da Neapolis, Macedonia, 500-480 a.C., Boston, Dewing Grek Numismatic Foundation

Sempre al tema della morte, potrebbe alludere, secondo Bussagli, il mesiodens presente in una statuetta del museo di Villa Giulia raffigurante un Centauro (dalla necropoli di Poggio Maremma a Vulci)

la cui protome umana potrebbe far supporre un personaggio di qualità intellettuale come Chirone o Folo e dunque lontano dal carattere primitivo di altri centauri (equini anche nelle zampe anteriori), per i quali, invece, il dente sarebbe un segno coerente”,

visto che il mesiodens allude altrove all’aggressività, alla stupidità e alla dabbenaggine che caratterizza esseri rudimentali con istinti animaleschi, come i Satiri, i Sileni e perfino i Ciclopi. Andando avanti nella lettura del libro scopriamo la presenza del dente centrale asimmetrico anche nei Telamoni (o Atlanti) fittili della città laziale di Fregellae (nel Museo archeologico di Ceprano), che ornavano le terme del IV-III secolo a.C., con evidente valore apotropaico, e perfino in alcune divinità, come nei clipei del Foro di Augusto con Giove Ammone, un dio sincretico che evocava la conquista romana dell’Egitto da parte del primo imperatore.

Parlando in generale del valore dei denti, e quindi delle implicazioni comportamentali e morali, argomento che l’autore analizza basandosi su un’estesa bibliografia, scopriamo come i denti si ritrovino in alcuni proverbi e modi di dire (ad esempio “mostrare i denti” indica aggressività) e comunque possono avere sia un valore positivo (gioia e gaiezza, sorriso e bonomia, luminosità del viso, accoglienza e coraggio), sia negativo (aggressività e ira, tardità mentale e follia, superficialità e stoltezza, sconvenienza e maleducazione). Tra le immagini del capitolo relativo a questo argomento ci colpisce in particolare la raffigurazione di Tideo, un personaggio dei Sette a Tebe (la mitica storia della guerra fratricida tra Eteocle e Polinice, i figli di Edipo, resa celebre da Eschilo e da Papinio Stazio), che, pur ferito, compie un atto di bestialità addentando il cranio di Melanippo per mangiargli il cervello, come raffigurato nel celebre fregio del frontone del tempio A di Pyrgi (il porto di Caere, ora Cerveteri), conservato nel museo di Villa Giulia. Anche uno dei due bronzi di Riace (conservati nel Museo archeologico di Reggio Calabria), quello più giovane, è stato identificato con Tideo, proprio perché mostra i suoi denti d’argento. Questa identificazione, della quale non abbiamo ragione di dubitare, si deve all’archeologo Paolo Moreno, che attribuisce la statua al bronzista Agelada di Argo, ma certo si fa fatica a credere che una figura così bella, raffigurata in nudità eroica, potesse essere vista come colpevole di hybris (comportamento contro le leggi degli dei e degli uomini), cosa che invece lo scultore di Pyrgi rende benissimo, facendo apparire dietro la scena del cannibalismo, sulla sinistra, la dea Atena con in mano l’ampolla che doveva contenere l’immortalità per Tideo, e che, inorridita da quell’atto disumano, si allontana e lo lascia morire.

Tornando al mesiodens, vediamo come questa iconografia prosegue nella scultura e nell’architettura del Medioevo “fra leoni, demoni e peccatori”. Lo troviamo nei capitelli di chiostri romanici in alcune teste demoniache e in altre animalesche, in Francia, in Italia, in Catalogna. Lo scopo è sempre quello di tenere lontano il male dalla casa di Dio. Il significato, in realtà, diventa ancora più complesso in quanto legato all’idea del chiostro come elemento che deve invitare i monaci alla riflessione contro il peccato e i denti, in particolare, devono sminuzzare la sapienza divina e quindi riuscire a farla assimilare (con il mesiodens, evidentemente, si assimila male). Ce l’hanno anche i leoni, utilizzati sotto i pulpiti e in molti altri decori, quando hanno un valore negativo. I leoni, in questo caso, come spiega Bussagli

altro non sono che una diversa declinazione del demonio, com’è attestato da buona parte dell’arte romanica e da quella successiva gotica. (…) Quando compare il dente centrale, la valenza cattiva è amplificata”.
7 Capitello con leoni monocefali, XII sec. Montalcino, Abbazia di Sant’Antimo
8 Teste demoniache, cornice marcapiano, 1120-1150, Vezelly, Sante.Marie-Madeleine

Tra i diversi esempi medievali presi in esame particolarmente significativi appaiono i capitelli della chiesa di Saint-Lazare ad Autun, realizzati da Gisleberto (probabilmente tra il 1120 e 1125), a dimostrazione che il mesiodens rientrava nel vocabolario di un artista riconosciuto, o almeno della sua bottega. Tra le decorazioni sopravvissute alle devastazioni settecentesche dovute al cambiamento di gusto dei canonici di questa chiesa, si conserva anche la scena della caduta di Simon Mago (l’antagonista di san Pietro al tempo di Nerone), il quale asseriva di poter volare grazie alle sue doti magiche, come ricorda l’apocrifo degli Atti di Pietro. Sia il mago che precipita con la bocca aperta, sia un diavolaccio presentano il mesiodens, ma quest’ultimo ce l’ha nella chiostra dentaria inferiore.

In Italia troviamo esempi di quest’anomalia dentaria nell’abbazia di Fossanova (in provincia di Latina), nella Sacra di San Michele (in Val di Susa), nell’abbazia di Santa Maria di Vezzolano (in provincia di Asti), cui si riferisce la grafica della copertina del libro, raffigurante un Vento scolpito nel capitello del portale di facciata. Compare anche in due teste mal conservate a Castel del Monte, il celebre castello pugliese di Federico II, e a Ravello (museo del Duomo) nella Testa allegorica della Patria (cosiddetta Sigilgaita), realizzata nel 1274 da Nicola di Bartolomeo da Foggia.

L’iconografia del quinto incisivo prosegue nell’arte del Rinascimento: tra gli esempi più significativi il monumento funebre a Guidarello Guidarelli (in questo caso come simbolo di morte) e le raffigurazioni di Botticelli nelle illustrazioni dei demoni dell’Inferno dantesco e nel celebre dipinto La Calunnia conservato agli Uffizi, dove appare nella figura allegorica dell’Ignoranza posta a destra di re Mida, come simbolo di peccato, senza ombra di dubbio, visto che è contrapposta alla Verità, che ha invece i denti regolari.

9 Grafica del volto dell’Ignoranza in La Calunnia di Sandro Botticelli, 1490-1495, Firenze, Uffizi

Anche Leonardo lo conosceva, come risulta da un disegno, anche se non l’ha utilizzato nei suoi dipinti. Oltre a Michelangelo, lo hanno raffigurato, tra gli altri, Raffaello (nella Cacciata di Eliodoro), Cosmè Tura, il già citato Bramantino, Federico Zuccari, il tedesco Grünewald, i fiamminghi Bosch, Bruegel e Matsijs, il francese La Tour.  A cavallo tra Cinquecento e Seicento non possiamo non citare Caravaggio, che lo ha utilizzato nel Suonatore di liuto dell’Ermitage e nella testa di Golia del Davide e Golia della Galleria Borghese e nell’altro del Kunsthistorisches Museum di Vienna. Il mesiodens continua ad apparire in ambito secentesco: Hendrik Terbrugghen l’ha dipinto nel suo Democrito (il filosofo che ride, contrapposto a Eraclito, che invece piange) (1628, Rijksmuseum di Amsterdam), Angelo Caroselli nella Vanitas (Gallerie nazionali di Arte antica Barberini e Corsini) e andando ancora avanti è più volte utilizzato per rappresentare folli, satiri, gonzi, buffoni. Annibale Carracci lo ha utilizzato nella fascia decorata a mascheroni della Galleria Farnese a Roma, come Bussagli ha potuto osservare durante i restauri degli affreschi, come pure nella testa di Medusa, tornando alle stesse figure alle quali il mondo antico aveva attribuito questa iconografia. Non solo, ma anche il noto Mangiafagioli della Galleria Colonna presenta un dente centrale cariato nella chiostra inferiore e perfino il Giovane che ride della Galleria Borghese, un tempo segnalato come Il buffone. Proprio come buffone il pittore Joseph Ducreux, che aveva di suo quest’anomalia, si è autoritratto nel suo Le Moqueur (1791, Parigi Louvre).

10 Hendrick Terbruggen, Democrito, 1628 Rijkmuseum, Amsterdam e relativa grafica
11 Joseph Ducreux, Autoritratto Le Moqueur, 1791 ca., part. Parigi, Louvre

“Il mesiodens dal XVII al XXI secolo, tra consapevolezza e intuizione” è il titolo di uno dei tanti approfondimenti che evidenzia

la capacità innata degli artisti d’intuire che il dente in più carica i personaggi di aspetti grotteschi e si configura come espediente iconografico per segnare tipi rudimentali e negativi”.

Il Busto di Marsia dello scultore tedesco Balthasar Premoser (1680-85, Metropolitan Museum di New York), se da un lato tiene conto dell’Anima dannata di Bernini, dall’altro richiama il già citato Marsia rosso degli Uffizi per il quinto incisivo, utilizzato, secondo Bussagli, come una citazione, senza che lo scultore avesse un’idea precisa dei motivi profondi di quella soluzione iconografica. Tra gli esempi più recenti c’è pure la figura del ciclope Polifemo curata da Carlo Rambaldi per l’ottima Odissea televisiva del 1968 e anche la Via Crucis di Fernando Botero.

Nell’ultima parte del libro l’autore ritorna a parlare del mesiodens in Michelangelo, tema ampiamente indagato nel precedente volume del 2014, nel capitolo dedicato a “una nuova ricognizione e qualche novità”. E qui scopriamo, tra le altre cose, che, oltre al Marsia rosso, Michelangelo deve aver osservato il mesiodens nella testa del Laocoonte (I secolo a.C. – I secolo d.C., copia romana da originale ellenistico, Musei Vaticani), che, però, attualmente non mostra più quest’anomalia, evidentemente perché, come ipotizza Bussagli, i denti originali sono stati scalpellati e rimodellati in un lasso di tempo che va dal 1550 al 1617-1619.

Segue il capitolo “La rivoluzione copernicana del mesiodens, dal male al bene: il Cristo e i Santi. Dalla Pietà di San Ginesio a quelle di Michelangelo”, nel quale scopriamo la presenza del mesiodens anche nella figura della Carità scolpita da Antonio del Pollaiolo per la tomba di Sisto IV (nelle Grotte Vaticane), e qui si approfondisce il rapporto fra la parola greca agápe, usata da san Paolo in un passo della I Lettera ai Corinzi e la latina caritas. Agápe non è solo il banchetto cristiano, ma si potrebbe tradurre con “accoglienza e donazione con gioia”. Ed ecco allora che le due parole coincidono. Ma perché la scelta del mesiodens nella scultura allegorica? Ciò potrebbe essere spiegato, rifacendosi a San Paolo, in quanto la Carità accoglie anche il male per poterlo piegare al bene.

All’epoca di Sisto IV l’iconografia del quinto incisivo centrale nella figura di Cristo, sebbene rara, era da tempo conosciuta, come dimostra l’iconografia del Vesperbild (Pietà in tedesco) in una scultura del 1330 conservata a Erfurt, che Bussagli ha avuto modo di osservare in una mostra sul tema tenuta a Milano nel 1918, insieme ad altri documenti iconici con il mesiodens. Giustamente l’autore rileva che nessuno dei curatori della mostra ha tenuto conto dei suoi studi e pertanto non si sono accorti di questa presenza. Altrove, invece, l’autore ringrazia tutti quelli che, al contrario, gli hanno fornito indicazioni e immagini utili per la sua ricerca.

12 Don Romualdo da Candeli (attr.), Crocifisso, 1471 ca. Firenze, Immacolata e S. Martino a Montughi

Per quanto riguarda il Cristo della Pietà vaticana, commissionata al giovane Michelangelo dal cardinale Jean Bilhères de Lagraulas, che rappresentava la Francia presso la curia di Roma, Bussagli si chiede da quali modelli abbia attinto e recuperato l’iconografia del mesiodens e si rende conto che proprio a Firenze, dove il Buonarroti aveva avuto modo di vedere il Marsia rosso, c’erano anche i crocifissi lignei di un artista poco conosciuto, Don Romualdo, abate del monastero di Candeli, che affidava le sue sculture a Neri di Bicci perché le dipingesse. Almeno due crocifissi (seconda metà del XV secolo) sono caratterizzati dal dente centrale e, anche in questo caso, la sua presenza in uno di essi, esposto nel 2016 in una mostra sulle sculture lignee quattrocentesche, è passata inosservata da parte dei curatori.

Ma la scelta di Don Romualdo di inserire il mesiodens era una sua invenzione, o esisteva una tradizione ancora più antica? È ciò che si è chiesto Bussagli. E, in effetti, proseguendo nelle sue ricerche, ha individuato crocifissi ancora più antichi. Una novità, inoltre, è stata quella di aver trovato l’incisivo centrale in un Crocifisso quasi inedito, una piccola tavola appartenente a una collezione privata (in custodia presso l’Accademia dei Carraresi a Bergamo), che potrebbe essere di mano di Michelangelo, ma l’assenza di documenti relativi all’opera pone qualche difficoltà per un’attribuzione certa.

Il mesiodens, ormai utilizzato come segno di santità, è presente non solo in Cristo, ma anche in santi “eroici” quali Giovanni Battista e Sebastiano. Pertanto – scrive Bussagli

il termine ‘rivoluzione copernicana’ del quinto incisivo, inteso come marchio luminoso di salvezza, ha dimostrato l’esistenza di una complessità e di una raffinatezza di pensiero degne dei più acuti trattati di teologia, ma espressi in figura”.

Alla fine della sua opera, l’autore ci conduce “Fra reliquie e Volti Santi, alla ricerca di un modello autorevole”: un capitolo nel quale scopriamo la presenza del mesiodens tra alcune presunte “reliquie”. Tra le immagini che ci colpiscono c’è pure quella raffigurante il Velo della Veronica in un dipinto di Lucas Cranach il Vecchio, che è datato post 1527, cioè dopo il sacco di Roma, nel corso del quale la Veronica, che era conservata nella basilica di San Pietro, è andata dispersa.

13 Lucas Cranach il Vecchio, Velo della Veronica, post 1527, Wittenberg, Collezione privata

Il mesiodens è presente nel Volto Santo di Genova, che è stato dipinto a tempera d’uovo ispirandosi alla Veronica (la vera icona), e soprattutto nel Velo di Manoppello che, secondo il gesuita Heinrich Pfeiffer, sarebbe l’immagine autentica di Cristo, in quanto non dipinta da mano umana. Bussagli ha visto e toccato il velo di Manoppello e ha constatato che non solo ha il mesiodens, ma ha anche i denti di sotto non allineati. Secondo lui o questa è la Veronica ripresa pittoricamente, perché non si vedeva più, o è l’oggetto più vicino alla Veronica. La presenza dell’incisivo centrale poteva essere una scolatura di sangue che è stata letta come mesiodens al momento della ripresa pittorica, perché c’era un pregresso classico, un’iconografia assolutamente penetrata nell’arte, che segna l’apice della carità e della bontà nella figura di Cristo.

14 Santo Volto, Manoppello, Santuario del Santo Volto, part.

Che dire, in sintesi, di questo libro, se non che si tratta di un’opera di ampio respiro, frutto di un lavoro accurato e capillare, basato sull’osservazione dal vivo delle opere d’arte e sulla lettura di innumerevoli fonti, sorretto da un sicuro intuito artistico, che ha portato l’autore a rilevanti risultati di approfondimento di un’iconografia della quale nessuno studioso aveva mai scritto prima di lui. Pur essendo un libro scientifico, si raccomanda anche ai non specialisti per l’affascinante scrittura, arricchita dai disegni dello stesso autore e della sua allieva Laura Replinger Fuentes e da molte immagini fotografiche.

Ricordiamo che Marco Bussagli è autore di numerose significative pubblicazioni e curatore di importanti mostre, nonché professore di Anatomia artistica all’Accademia di Belle Arti di Roma e pittore egli stesso. Collabora con importanti testate quali Avvenire, Art e Dossier, Il Giornale dell’Arte e sul web con About Art on line.

Nica FIORI   Roma  10 Dicembre 2023