Due studiosi a confronto: Gianluca Forgione incontra Stefano Causa: conversazione sulla grande mostra aperta a Capodimonte

di Gianluca FORGIONE

Intervista di Gianluca Forgione a Stefano  Causa per la mostra su Luca Giordano

Il 9 ottobre 2020 si è aperta al Museo di Capodimonte, dove rimarrà sino al 10 gennaio 2021, la mostra Luca Giordano, dalla Natura alla Pittura, che Causa ha curato insieme a Patrizia Piscitello. L’iniziativa nasce da un’idea di Sylvain Bellenger, che è a capo del museo napoletano dal 2014, e di Christophe Leribault, direttore del Petit Palais di Parigi, dov’è stata ospitata, dal novembre 2019 al febbraio 2020, la prima edizione dell’esposizione, dal titolo Luca Giordano. Le triomphe de la peinture napolitaine. La mostra, che si sviluppa in dieci sezioni, presenta oltre novanta opere, con prestiti prestigiosi di importanti istituzioni e musei esteri (tra cui il Louvre, il Prado, il Patrimonio Nacional e la Fondazione Santamarca di Madrid), italiani (come Palazzo Abatellis a Palermo, la Pinacoteca Nazionale di Bologna, i Musei Civici di Vicenza) e in special modo napoletani (Girolamini, Curia, Museo e Certosa di San Martino, Duca di Martina, Tesoro di San Gennaro, Pio Monte della Misericordia, Società Italiana di Storia Patria e molti altri).
(Photo by Paola Visone/Pacific Press/LightRocket via Getty Images)

Stefano Causa (Napoli, 1966) insegna Storia dell’arte moderna e contemporanea all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. È considerato fra i massimi conoscitori della civiltà figurativa meridionale. Il vasto spettro dei suoi interessi spazia dalla pittura alla scultura, dal disegno alle arti decorative, e l’approccio metodologico plurale che ne contrassegna da sempre l’attività di ricerca rende spesso arduo classificare i suoi lavori nelle asfittiche gabbie settoriali dell’odierna storia dell’arte. Il suo esordio scientifico data al 1991, quando, ventiquattrenne, partecipò, per volere di Ferdinando Bologna, all’organizzazione e al catalogo della mostra su Battistello Caracciolo e il primo naturalismo a Napoli. Nell’ultimo trentennio è stato autore di un gran numero di pubblicazioni, tra le quali vanno ricordate, quanto meno, le monografie su Battistello Caracciolo (2000), sull’officina di Roberto Longhi (2001), sui pittori napoletani del primo Seicento (La strategia dell’attenzione, 2007) e su Salvator Rosa (2009). I suoi interessi più recenti hanno invece riguardato, in particolare, la ricostruzione critica delle grandi esposizioni meridionali del Novecento (Caravaggio tra le camicie nere, 2013), la natura morta napoletana (La parola alle cose, 2018) e la vicenda storica e artistica della Cappella del Tesoro di San Gennaro. I risultati di quest’ultima, meritevolissima esperienza sono stati raccolti in cinque volumi saggistici, editi da Arte’m tra il 2011 e il 2018, nei quali Causa e i giovani studiosi da lui coinvolti hanno provato a ripensare da quest’osservatorio privilegiato episodi cruciali della storia dell’arte a Napoli in età moderna.

-Vorrei chiederti, anzitutto, come siete riusciti nell’impresa di organizzare una mostra tanto ambiziosa all’epoca del Covid.

R: Si è trattato, come si dice nei cattivi romanzi, di un piccolo miracolo. Neanche il più attendibile degli indovini avrebbe potuto prevedere il balletto dei prestiti con i musei e con i privati occasionato dagli slittamenti di questa nuova peste che stiamo attraversando. Sylvain Bellenger, cui va il suggerimento di fare una mostra su Giordano nel gennaio del 2018, è stato un traghettatore mirabile. Ma delle difficoltà di questi mesi ne sa qualcosa la co-curatrice della mostra, Patrizia Piscitello, storica d’arte di prima categoria e, proprio per questo, capace come poche in Italia di svolgere quel peculiare mestiere del registrar. In uno dei capolavori di Giordano e, in definitiva, dell’intero universo barocco – la pala col San Gennaro che intercede per le vittime della peste – nella parte inferiore compare un monatto con la mascherina che trascina i cadaveri (fig. 3).

3. Luca Giordano, San Gennaro intercede per la peste del 1656 presso la Vergine, Cristo e il Padre Eterno, particolare, 1660-61. Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte (proveniente dalla chiesa di Santa Maria del Pianto).

Nessuno poteva immaginare che un giorno questo quadro sarebbe diventato di attualità impegnativa. Una volta collocato il dipinto al muro in sala Causa, ci siamo guardati negli occhi io e Patrizia e abbiamo pensato: la mostra è entrata nella realtà o la realtà è entrata nella mostra? 

A Parigi l’esposizione ha avuto molto successo, e anche l’edizione napoletana, che avete concepito con un impianto comprensibilmente differente, sta ottenendo riscontri assai favorevoli. In che modo giudichi quest’interesse, tutt’altro che scontato per un formidabile pittore decoratore come Giordano, il quale, come tu stesso riconosci, oggi sembra apprezzato più dagli storici dell’arte e dai restauratori che non dal grande pubblico?

4. Luca Giordano, San Nicola di Bari salva il fanciullo coppiere, 1655. Napoli, chiesa di Santa Brigida.

R: Questo è stato l’azzardo maggiore. Da settant’anni viviamo l’età del Caravaggio. E quando si parla di realismo si immagina solo quello caravaggesco o, al limite, quella particolare declinazione del caravaggismo – valevole quasi solo dal profilo della cinematografia, della fotografia e della critica d’arte – che chiamiamo neorealismo. Giordano, che è il contrario di Caravaggio, pretende uno spettatore più coinvolto, che si muova. Con lui cambia il regime della visione. D’altronde, mentre Caravaggio è fisiologicamente refrattario alla decorazione e non ha mai dipinto ad affresco, Giordano è il maggior pittore ad affresco prima di Tiepolo, e, insofferente dei limiti della cornice, ragiona ad affresco anche alle prese con un dipinto da stanza. Il suo metro mentale è la parete. Si perde in digressioni. Spalanca parentesi. Non rispetta i contorni delle figure e men che mai il nocciolo dell’episodio raffigurato. Nella pala di Santa Brigida (fig. 4), firmata nel 1655, il primo quadro barocco visto da queste parti, e sia pure di un barocco in dialetto napoletano, fa capolino un cagnetto che, del tutto irrilevante per la narrazione, ci chiama direttamente in causa. Nella Flagellazione di San Domenico Maggiore, eseguita poco meno di mezzo secolo prima, un dettaglio del genere sarebbe impensabile. Caravaggio, come Masaccio o Miles Davis, suona solo le note giuste. A Napoli la contrazione degli elementi narrativi e questo stile della rinuncia non potevano attecchire e, difatti, non sopravviveranno di molto al primo momento eroico del caravaggismo locale. Ma già Ribera rimette al centro del tavolo il problema dello Stile.

-A questo proposito la mostra ha un sottotitolo che mi sembra rivelatore: se Caravaggio era partito dalla pittura per rappresentare la natura in modo credibile, quarant’anni dopo Giordano compie il percorso inverso.

R: Dalla Natura alla Pittura: detto nei termini un poco brutali di uno slogan vuol dire proprio questo. A Giordano la pittura interessa mille volte di più del dato di natura. L’opera di Giordano segna la più grande celebrazione della Pittura con la P maiuscola prima di Manet. Ed è questo il vero motivo per cui oggi è un pittore difficilissimo da amare, cioè da comprendere. In qualche modo dobbiamo riconvertire le nostre strategie di visione sul suo metro. Ma lentamente. Più Luca fa presto, più noi dobbiamo rallentare. D’altronde, se oggi la fama di Caravaggio è legata anche ai magazzini deteriori del biografismo, sempre aperti per chi faccia storia dell’arte facendo a meno della storia dell’arte, Giordano non offre appigli di questo tipo. Irreprensibile padre di famiglia, socialmente allineato, capace di fare un sacco di soldi e di farli fare. Caravaggio è un maledetto da manuale. Milo Manara gli ha dedicato anche una graphic novel, dove buone sottolineature s’incrociano con alcune avvilenti cadute di gusto. Non saprei immaginare nulla di tutto questo nel caso di Giordano. Un film su Giordano di cosa parlerebbe? Sarebbe tutto interno alla Pittura, e allora tanto vale rimettersi dinanzi ai quadri, cellulare spento.

-Nel tuo saggio in catalogo scrivi che la vera mostra di Giordano è Napoli, e che pertanto l’esposizione di Capodimonte non può essere che un invito a riscoprire i capolavori del pittore nei loro contesti monumentali. Le sale museali, infatti, finiscono sempre, inevitabilmente, per alterare il punto di vista dello spettatore che Giordano aveva previsto in rapporto alla destinazione originaria delle sue opere pubbliche. L’allestimento dell’esposizione, curato in sala Causa da Roberto Cremascoli e da Flavia Chiavaroli, prova nondimeno a ricreare lo spazio barocco dei contesti di provenienza dei dipinti. Come valuti il risultato di questa sfida così impegnativa?

R: Giordano si deve vedere nelle chiese, nei palazzi o, al limite, nelle case. A Palazzo Medici, per esempio, o nella Salute a Venezia. Nei musei perde sempre qualcosa o tutto. Ciò che non si può dire francamente di Ribera e, in fondo, neanche dello stesso Caravaggio. Sulla difficile fortuna museografica di Giordano si sono soffermate, nel catalogo della mostra, Alessandra Rullo e la Piscitello, in alcune pagine precise dedicate alla cara memoria di Umberto Bile: ma in buona sostanza, dall’apertura di Capodimonte (1957) a oggi, gli spostamenti di Giordano nelle sale della massima pinacoteca meridionale sono un problema che si pone e ripone. Mettiamola così: o i dipinti sono troppo grandi (e le cornici del museo non aiutano) o hanno un piglio da cabinet che meriterebbe un allestimento contestuale secondo il gusto dell’epoca. In sala Causa gli architetti hanno indubbiamente dato il massimo per ricreare un’atmosfera più intima e accostante (fig. 5). Giordano è più a suo agio e respira meglio.

5 Sala Causa (part.)

Si deve ammettere che il colore delle pareti, occhieggiante un poco quelle di Versailles, prepara mirabilmente la volata alle sue partiture cromatiche. Forse non dovrei dirlo: ma sotto questo aspetto Giordano a Napoli batte uno a zero il precedente del Petit Palais.

-La storiografia ci ha tramandato l’immagine di un giovane Giordano geniale fagocitatore dei maestri del passato, dall’Antico ai veneti del Cinquecento, da Dürer a Ribera. In che maniera la mostra rilegge il rapporto fra Giordano e la tradizione?

R: Questo che tu dici qui si gioca tra l’altro nell’accostamento tra un dipinto raffaellesco tutt’altro che eccelso, il tondo di Cava dei Tirreni, e quel singolare capolavoro che è la Madonna col Bambino del Prado (fig. 6).

6. Luca Giordano, Sacra Famiglia con san Giovannino. Madrid, Museo Nacional del Prado.

Si tratta di un tondo di Giordano firmato da Raffaello, dove Giordano si profonda talmente nella maniera matura dell’Urbinate da ‘diventare’ Raffaello (in un camouflage che sarebbe piaciuto al Borges di Pierre Menard). Ora io credo che si debba andare cauti nel definire dipinti del genere delle contraffazioni a scopo fraudolento (più o meno negli stessi anni, tra gli altri un romano come Angelo Caroselli ne faceva di simili). Probabilmente molti di questi dipinti, anche nello stile di Dürer, furono fatti per ingannare gli esperti. Ma io preferirei definirli ‘esercizi di stile’. Vi sono dettagli come la mano della Madonna che realmente sono una lezione, da pittore a pittore, sul primato del contorno del Raffaello romano. In ogni caso il tempo – grande scultore come diceva la Yourcenar – è il primo agente che smaschera i falsi. Semmai è interessante rilevare come questo misconosciuto dipinto spagnolo partecipi del clima puristico che caratterizza la cultura locale negli inoltrati anni 1640. Qui Giordano mostra (buon ultimo) di fare un pezzo di strada con Domenichino, Stanzione, Francesco Guarino e Pacecco de Rosa. Si tratta di cose che abbiamo studiato di recente e, a Napoli, soprattutto sulla scorta delle aperture di Vincenzo Pacelli e di Riccardo Lattuada. Tu stesso ne sai più di qualcosa dato che, anni fa, hai lavorato sui rami e gli affreschi napoletani di quella sorta di assessore al classico che, anche per la scena meridionale, si dimostra il Domenichino. Ma io sono convinto che tutta la decorazione della Cappella del Tesoro, da Ribera ai maestri padani, sia stata cruciale per la giovinezza studiosa di Giordano. Lanfranco è uno dei suoi maestri putativi e fu lui a dargli il senso dello spazio continuo e infinito nelle volte dipinte. D’altronde, fu attraverso la conoscenza dei potenti bronzi di Finelli che Giordano fu in grado di sciogliere la complessità del lessico maturo di Gian Lorenzo Bernini.

-E Luca esordisce sulla scena napoletana nel 1654 con le due tele in San Pietro ad Aram raffiguranti l ‘ Incontro dei santi Pietro e Paolo condotti al martirio e la Consegna delle chiavi, della quale è esposto in mostra un bozzetto di collezione privata. Si tratta di testi fondamentali, in cui, come noti, Giordano sembra fare l’‘inventario del mondo’, rivelando le molteplici fonti della sua formazione; eppure, ancor oggi il loro valore sembra sottovalutato…

R: I due dipinti di San Pietro ad Aram a me continuano a sembrare tra gli esordi più folgoranti del secolo. Del resto è qui che occorre riaprire i conti con la difficilissima questione, cruciale non solo per Giordano, del finale di partita di Ribera. Vi si cavano d’altronde alcuni dei moventi principali della cultura locale che stava precipitando nella peste: soprattutto di quel gran genio di Micco Spadaro, un altro tassello fondamentale nella storia di Giordano e su cui pesa il condizionamento di una bibliografia moderna a dir poco discontinua. Dopo le aperture di Causa le pagine migliori sul pittore non sono di uno storico dell’arte in senso stretto, ma di uno storico moderno come Rosario Villari.

-Volevo arrivare proprio a Ribera, che ebbe un ruolo determinante nella formazione del giovane, al di là del fatto – rilevi giustamente – che quest’ultimo sia stato o meno a bottega dal grande spagnolo.

R: Il ’600 napoletano non è il secolo di Caravaggio ma il secolo di Ribera. La svalutazione di questo supremo maestro di stile, tra i maggiori del ’600 europeo, educatosi nel realismo aggressivo dei plasticatori iberici, è il più grosso errore di valutazione di un ferocissimo caravaggista come Longhi, che pure ha reinventato, da cima a fondo, gli studi napoletani moderni. Ma purtroppo caricandoli sulle spalle di Battistello – il più poetico dei seguaci del Caravaggio; non in grado, in ogni caso, di sopportare una simile responsabilità. Certo Giordano ha fatto i compiti su Ribera tutta la vita e ha cominciato presto, come dimostrano i dipinti di San Pietro ad Aram che occorre leggere in parallelo alla Comunione degli apostoli del coro di San Martino (fig. 7).

7. Jusepe de Ribera, La Comunione degli apostoli, 1651. Napoli, Certosa e Museo di San Martino.

Ma ha lasciato fuori dalla porta quegli effetti di superficie che a un critico dello stile come il settecentesco De Dominici davano il senso del “tremendo impasto”. Le stesure mature di Ribera emergono dalla tela come in un gorgo di pittura informale (non a caso alcuni critici guarderanno Ribera con in mente le alte paste di Fautrier, di Morlotti o, a Napoli, di Raffaele Lippi). Giordano ha una scrittura completamente diversa da Ribera e dalle autentiche bestie da stile che sono i suoi seguaci: più aperta, sgrammaticata e corsiva. Anche per questo occorre vederlo da vicino, perdendosi nel mare infinito dei suoi quadri. Giordano è mortificato, se non ucciso dalle riproduzioni. Mentre Ribera viene esaltato dal mezzo fotografico che ha finito per procurarne una lettura per via di ‘dettagli espressivi’, spesso ad effetto. Esiste una fortuna fotografica di Ribera (che culmina nella celebre copertina del catalogo di Civiltà del Seicento a Napoli, 1984); mentre, che io sappia almeno, non ne esiste una di Giordano.

-Sempre a proposito di Ribera, in mostra proponi due restituzioni alla sua fase estrema, che immagino stiano già facendo proficuamente discutere: il Sant’Andrea apostolo di Maurizio Canesso, già riferito agli inizi di Francesco Fracanzano da Nicola Spinosa, e il San Girolamo del Pio Monte della Misericordia, che Raffaello Causa aveva attribuito, forse senza troppa convinzione, al pugliese Francesco Antonio Altobello.

8. Jusepe de Ribera, Sant’Andrea apostolo, Parigi, galleria Canesso.

R: Il Sant’Andrea, che viene da Parigi, è un quadro impressionante: d’una qualità imprendibile per chiunque dei satelliti di Ribera (fig. 8). Personalmente non ho avuto dubbi nel presentarlo come un apice maturo del maestro spagnolo: una volta fatto l’accrochage, il quadro si sentiva come a casa. E si capisce: è un dipinto che fa già sentire dietro la porta il giovane Giordano. Quanto al San Girolamo del Pio Monte l’esposizione in mostra ha forse un poco raffreddato gli entusiasmi iniziali anche per lo stato di conservazione non ineccepibile. In ogni caso: se non in tutto del Ribera, il quadro, che è realmente poco noto, deve essere uscito dalla sua officina. La scrittura delle mani, per esempio, rivela degli addentellati con Aniello Falcone. Ma temo che lo stato attuale degli studi non consenta di calibrare il tiro. Voglio dire: negli ultimi decenni si è studiato con particolare adibizione la fase romana del pittore; ma conosciamo ancora male gli anni 1640 e, in particolare, l’archetto cronologico che va dal rame della Cappella del Tesoro alla Comunione degli apostoli, estremo apice del Ribera condotto con larga ammissione di aiuti. Si tratta, evidentemente, del brodo di coltura di Giordano. D’altronde le mostre si fanno anche per buttare in mezzo, diciamo così, opere meritevoli. E la quadreria del Pio Monte, di cui si attende un catalogo che aggiorni il libro di Causa del ’70, è una collezione malnota. Dopodiché le mostre si fanno anche per riattivare il circolo, virtuoso solo sulla carta, con il sistema museale cittadino. Fermo restando che spesso si contestano le attribuzioni per contestare gli attributori. A prescindere, come direbbe Totò.

Nel concepire il suo rivoluzionario linguaggio barocco, sappiamo bene che Giordano non poté limitarsi alla conoscenza del contesto napoletano. Il suo rapporto con Pietro da Cortona, da sempre ritenuto decisivo, è testimoniato in mostra dal confronto tra il Sant’Alessio del Berrettini ai Girolamini e la tela del medesimo soggetto che Luca dipinse nel 1661 per la chiesa del Purgatorio ad Arco (figg. 9-10).

Mi sembra di capire, però, che a tuo giudizio Giordano, oltre a studiare il capolavoro che Anna Colonna Barberini donò nel 1638 ai padri dell’Oratorio di Napoli, dovette entrare precocemente in contatto con altre opere di Pietro.

11. Luca Giordano, Visione di san Domenico che si eleva al di sopra delle umane passioni, Nantes, Musée d’Arts.

R: Tutta l’agenda culturale del giovane Giordano è tramata di citazioni, spesso letterali, da Pietro da Cortona. Una sala della mostra prova a raccontare i termini di questo dialogo, che è una delle opzioni stilistiche più travolgenti della pittura napoletana successiva alla peste. Le Tentazioni di San Domenico del Museo di Nantes (fig. 11), uno dei capolavori del ’600 napoletano nei musei provinciali francesi, è un quadro dove la reinvenzione di Pietro è spinta a un limite tale da far annusare ormai la giovinezza madrilena di Goya. Giordano, d’altronde, collezionò anche opere del maestro toscano. 

-Oltre all’eredità cortonesca, per Giordano dovette essere forse ancor più determinante la conoscenza delle imprese napoletane di Giovanni Lanfranco. Da tempo tu sostieni che il parmense è la figura chiave del barocco partenopeo, e che il suo ruolo in tale congiuntura non è stato ancora pienamente riconosciuto.

R: Insieme o subito dopo Ribera, Lanfranco è il maestro decisivo della scena meridionale del secondo trentennio del secolo. L’attivazione dinamica dei nodi narrativi della pittura caravaggesca è farina del suo sacco. L’evoluzione di Giordano frescante, dalla sagrestia della Cappella del Tesoro ai murali fiorentini e spagnoli, non è che una postilla alle soluzioni di Lanfranco. Esiste almeno un caso esemplare – la pala con la Madonna del Rosario e santi (fig. 12), oggi a San Martino – dove Giordano interviene direttamente nel dipinto di Lanfranco dipingendo o ridipingendo ex novo almeno una figura.

12. Giovanni Lanfranco (con interventi di Luca Giordano?), Madonna del Rosario con i santi Domenico e Gennaro (già Madonna del Rosario con i santi Ugo e Antelmo), 1638. Napoli, Certosa e Museo di San Martino.

Si tratta di un’autentica appropriazione fisica di un maestro più antico: un’operazione comune a Rubens, per esempio, o, modernamente, a Rauschenberg. Purtroppo non esiste una monografia aggiornata sul maestro parmigiano, con un’illustrazione capillare dei suoi dipinti, specie di quelli napoletani. Certo suona paradossale che, delle tre figure chiave della scena locale barocca – Ribera, Fanzago e Lanfranco – nessuno è napoletano.

-Rispetto all’ultima mostra monografica su Giordano (ospitata a Napoli, Vienna e Los Angeles tra il 2001 e il 2002), che era basata esclusivamente sui dipinti e sui disegni, l’esposizione di Capodimonte prova a far dialogare pittura, scultura, disegno e arti decorative. Nella prima sala della mostra (fig. 13), la splendida terracotta di Lorenzo Vaccaro al Museo Filangieri raffigurante Ercole e il leone di Nemea è messa a confronto con le interpretazioni del medesimo tema a opera di Lanfranco e di Giordano.

13 Prima Sala
15 Sala
14. Lorenzo Vaccaro e Giovan Domenico Vinaccia, San Michele Arcangelo. Napoli, Museo del Tesoro di San Gennaro.

Qualche metro più avanti, il San Michele Arcangelo del Museo del Tesoro di San Gennaro, per il quale collaborarono il medesimo Vaccaro e Giovan Domenico Vinaccia (fig. 14), è al centro della sala, strepitosa, in cui avete convocato alcuni capolavori di Luca che sono tra i vertici del barocco europeo (fig. 15). Potresti spiegare il senso che avete voluto dare a questo dialogo?

R: Con un titolo un poco ad effetto avevo immaginato di chiamare la sala iniziale, con Lanfranco, Giordano e Vaccaro: domatori di leoni. Il quadro del Prado (che è in realtà appoggiato a un’incisione di Altdorfer) è un distillato dello stile maturo di Giordano (fig. 16). Alla sua destra, il dipinto di Lanfranco, proveniente dalla Pinacoteca di Bologna, mette subito in chiaro cosa, delle opere napoletane del parmense, dovesse interessare il nostro pittore.

16. Luca Giordano, Sansone e il leone, Madrid, Museo Nacional del Prado.

Quanto alla terracotta di Vaccaro, si tratta di imparare ad apprezzare la capacità di irradiazione (starei per dire, l’esondazione) della scrittura del maestro nel campo delle altre arti. Non è un caso che una sezione della mostra e del catalogo, affidata a Lucia Arbace, abbia previsto l’esposizione di una breve antologia di ceramiche dei Grue. Nella sua massima spinta barocca la cultura napoletana va tutta sotto il segno di Giordano. E nessuno lo sa meglio di uno storico del pensiero, di sensibile riflesso storico d’arte, come Biagio de Giovanni, cui abbiamo dato l’incarico dell’ouverture del catalogo.

17-18. Luca Giordano, San Michele Arcangelo sconfigge gli angeli ribelli, e particolare, 1657. Napoli, chiesa dell’Ascensione a Chiaia.
18 (part.)

-Lavisione ravvicinata della monumentale tela con il San Michele Arcangelo proveniente dalla chiesa dell’Ascensione a Chiaia è davvero impressionante, tanto da far pensare, come scrivi, che nella pittura barocca europea forse solo Rubens, nelle sue giornate più felici, possa aver eguagliato il medesimo livello di qualità e di virtuosismo (figg. 17-18). Non credi che il moto centrifugo della composizione e la posa e le reazioni fisionomiche degli angeli ribelli in basso rimandino, ancora una volta, al rame che Ribera dipinse nel 1646 per la Cappella di San Gennaro

19. Jusepe de Ribera, San Gennaro esce illeso dalla fornace, 1646. Napoli, Cappella del Tesoro di San Gennaro.

(fig. 19)?

R: Qualche anno fa ho scritto che la giovinezza di Giordano non è che una postilla al San Gennaro che esce illeso dalla fornace. Confermo e sottoscrivo ora che nelle due mostre di Parigi e Napoli il San Michele Arcangelo è riapparso come lo vedessimo per la prima volta. Si tratta di uno dei vertici della pittura napoletana del ’600 (e forse il capolavoro di Giordano, insieme o subito dopo l’ex voto per le vittime della peste). Aggiungo che il confronto con l’Antico, in modo particolare con il gruppo del Laocoonte, che s’indovina facilmente nella parte inferiore con le anime dannate, era già stato tentato a Napoli, tra gli altri, da Teodoro d’Errico nella tavola del San Michele della cappella Severino, la prima a destra entrando in Santa Maria La Nova. E la parte inferiore di quel quadro, per inciso, è un’aggiunta tuttora poco nota di Battistello degli anni 1620. Quella tra Teodoro d’ErricoBattistelloGiordano, lungo un intervallo di oltre mezzo secolo, rischia di essere una delle staffette più emozionanti e insospettate dell’arte meridionale.

-La mostra è dedicata alla memoria di Ferdinando Bologna, scomparso nell’aprile del 2019. Il contributo di Bologna agli studi su Giordano è condensato soprattutto nella prima parte del suo Solimena del 1958, che tu consideri il libro di storia dell’arte meridionale più importante del secondo Novecento, oltre che una sorta di monografia en travestì sullo stesso Giordano. Quanto di quei risultati e di quel metodo di ricerca ritieni ancora attuale?

R: Un giorno bisognerà divertirsi a stilare l’elenco dei libri di storia dell’arte non scritti ma che si sarebbe voluto, o dovuto scrivere. Come degli appuntamenti mancati. E non vi è dubbio che ai primi posti, insieme ai riminesi del ’300 di Federico Zeri, vi dovrà essere il Luca Giordano di Ferdinando Bologna. Al suo posto, per una serie di ragioni concomitanti, e anche di occasioni celebrative, lo studioso, che aveva poco più di trent’anni, s’impegnò in una monografia d’impianto classico sul Solimena, che è un libro, per così dire, a due velocità: la prima parte, capolavoro di stilcritica e di bella scrittura, contiene, compresso tra il testo e il battiscopa delle note, un autentico rendiconto su Giordano e la pittura napoletana post-caravaggesca – il più denso e articolato per i tempi. Nella seconda porzione del volume, concernente il Solimena settecentesco (a Bologna meno gradito e, indubbiamente, di minore appeal sul piano dell’analisi delle forme), si proietta il magistero di Longhi su un piano di massima apertura metodologica. La storia dell’arte come storia della cultura che Bologna teorizzerà nelle pagine di un saggio della fine degli anni 1970 è già tutta nel Solimena. D’altronde, gli anni ’50 sono stati l’ultimo decennio sperimentale della critica d’arte a Napoli. E Bologna, appena terminato un capitolo del Solimena, correva a discuterne, leggendone spesso degli interi excerpta nelle stanze della Biblioteca di Storia Patria. C’erano Causa e Oreste Ferrari, c’era questo e c’era quello; e c’era anche la giovane Marina Picone, non ancora signora Causa, che poi avrebbe redatto, rigorosamente a titolo grazioso, il saggio di bibliografia del libro solimenesco di Bologna. Altri tempi, come si dice.

-A Bologna dedicasti anche un tuo precedente affondo monografico sul pittore, Quel che resta di un capolavoro di Giordano, pubblicato dalla rivista ‘Kronos’ nel 2005. In quel caso provasti a contestualizzare meglio un importante frammento della Galleria Regionale della Sicilia a Palazzo Abatellis con gli strumenti della filologia attributiva, dell’iconografia e della storia culturale, che ti portarono ad accostare alle differenti interpretazioni giordanesche della Benedizione di Isacco a Giacobbe le pagine altissime della tetralogia su Giuseppe di Thomas Mann. Immagino che la concezione di questa mostra e il tuo saggio in catalogo riflettano in parte anche le idee e la complessità metodologica di quello studio.

R: Sempre Longhi diceva che apprezzare i Carracci è un affare di maturità. E, si parva licet, anche per me, che avevo cominciato la salita del ’600 napoletano anche lavorando a sbucciare i piselli ai raggruppamenti fatti da Bologna alla mostra del 1991, riconvertire lo sguardo su Giordano non è per niente stato ovvio; in ogni caso non immediato. Ma quando, a Palermo, vidi il frammento con la Testa di vecchia fu automatico accostarlo a un dipinto di Giordano con la Benedizione di Giacobbe, che era stato esposto alla monografica sul pittore a Napoli nel 2001, e dove compare la stessa figura. In ogni caso quel dipinto siciliano – che è un caratteristico Giordano degli inoltrati anni ’60 – mi è servito come pretesto, non peggiore di altri, per salire sul carrozzone degli studi sul pittore. Senza gran successo, a quanto pare, dato che in Palazzo Abatellis il quadro recava curiosamente, fino a non molto tempo fa, ancora il cartellino con il nome del ‘Maestro degli Annunci’.

-Dopo Bologna, a partire dal 1966 Oreste Ferrari e Giuseppe Scavizzi hanno dedicato al pittore lavori di grande impegno. Hai più volte sottolineato la bontà dell’approccio storico-culturale del loro primo cimento monografico, pubblicato, tra l’altro, in un momento in cui la stilcritica longhiana era imperante.

R: Questa che tu citi è la prima monografia di peso scientifico su Giordano (non la prima in assoluto), ed esce nel 1966 sotto l’egida di un protagonista della cultura napoletana del secondo dopoguerra, il tarantino Roberto Pane. Ma non si può dire che sia un libro longhiano, né nel metodo e neanche nella scrittura: il che, naturalmente, non è un male. Ma certo non ne garantì il successo in una roccaforte longhiana come Napoli, né la circolazione in anni in cui la storia dell’arte locale si giocava, in buona sostanza, in un rimpallo, talvolta anche vivace, tra Causa e Bologna, i maggiori interlocutori di Longhi sui temi meridionali. Il libro del ’66, che è tuttora di enorme interesse, e non solo per la vicenda interna a Giordano, fu di fatto superato dalla sua riedizione aggiornata, sempre in due volumi e che va ritenuta uno dei libri più ricchi di fine secolo per gli studi barocchi. Kramer contro Kramer, insomma.

-Come valuti, invece, la salute odierna degli studi giordaneschi? Spesso hai denunciato il pericolo di una ‘ossessione’ monografica sul pittore: si rischia forse di scontornare la sua figura dal complesso mosaico del secondo ’600 napoletano?

R: La bibliografia su Giordano è ormai un continente emerso degli studi meridionali moderni, con i suoi statuti e i suoi prefetti oltre che le sue guardie di frontiera. Ma bisogna oggi soprattutto imparare a difendersene. Giordano soffre di un eccesso di commento. Forse è venuto il momento di chiudere temporaneamente i libri. D’altronde è vero quello che dici: se di Giordano sappiamo tutto o quasi tutto, il secondo ’600 è ancora malnoto, specialmente nelle figure di raccordo tra i grandi maestri, Giordano, Preti, Solimena e Lorenzo Vaccaro. Come succede anche nel caso di Salvator Rosa, che si continua a investigare con pertinace affrontamento monografico, una migliore conoscenza dei compagni di strada, anche dei gregari, ci consentirebbe di rileggere Giordano, se non con occhi nuovi, almeno più freschi.

20. Luca Giordano, Incontro dei santi Carlo e Filippo, 1704. Napoli, chiesa dei Girolamini.

-L’esposizione si chiude con le tele della Cappella Lombardo ai Girolamini, restaurate per l’occasione. L’ Incontro tra i santi Carlo e Filippo, firmato e datato 1704, è, tra le opere su tela, forse il testamento artistico di Giordano (fig. 20). Ma, come scrivi, i pittori del Settecento napoletano, e in particolare Solimena e De Mura, guarderanno con sospetto alla libertà e alla felicità della produzione estrema del maestro, che proveranno a normalizzare imponendogli la ‘camicia pulita’. La ‘rivincita’ di Luca, per te, avviene invece nell’Ottocento, quando i grandi pittori francesi e spagnoli non potranno che ripartire dai suoi passi.

R: Giordano fu una miccia veloce. A vent’anni aveva già superato e virtualmente svuotato di senso la stagione del naturalismo di matrice caravaggesca. Con la pala di Santa Brigida, firmata nel 1655, il processo di liquidazione del Caravaggio è compiuto. I maestri locali non glielo perdoneranno mai. La pittura successiva alla sua morte (1705), ma in realtà già dal 1700 in punto, che è la data delle tele di Solimena a Donn’Albina, segna il tentativo, perfettamente riuscito, di sconfessare quella che il settecentesco De Dominici, con espressione definitiva, definisce come la “dannata libertà di coscienza” di Giordano. Il ’700 napoletano ha avuto con il nostro pittore un rapporto da ricontrattare tutte le volte. Su Giordano ha lavorato bene Goya, come ci ha mostrato Longhi per primo e, naturalmente, i francesi dell’epoca di Luigi XVI. A Napoli, invece, è come se Caravaggio non se ne fosse mai andato; e di fatto gli ultimi maestri napoletani di nascita o adozione – Antonio Mancini e Vincenzo Gemito – esprimono, nella fase più antica e sperimentale, che è tutta ottocentesca, alcuni degli ultimi grandi fatti di caravaggismo moderno.

-In mostra il dramma della peste diviene occasione di confronto fra quelli che definisci i tre geni di metà secolo: Micco Spadaro, Preti e Giordano. Il quadrone di Luca per Santa Maria del Pianto (fig. 21) può essere assunto a ulteriore dimostrazione della fortuna del pittore nella seconda età moderna, dal momento ch’esso potrebbe aver ispirato, oltre che Giambattista Tiepolo nella Santa Tecla del Duomo di Este, Théodore Géricault stesso nella concezione della Zattera della Medusa

21. Luca Giordano, San Gennaro intercede per la peste del 1656 presso la Vergine, Cristo e il Padre Eterno, 1660-61. Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte (proveniente dalla chiesa di Santa Maria del Pianto).

R: Mi sono sempre chiesto se questo quadro stupefacente non fosse finito, in qualche modo, tra i ricordi figurativi di Manzoni, così ben ricostruiti dalla giovane Mina Gregori in un celebre articolo su ‘Paragone’ degli anni ’50. Personalmente sono convinto che tra quanti videro il dipinto di Giordano vi fosse anche il giovane David. Sul confronto tra Tiepolo e Géricault non ho inventato nulla dato che il primo a imbastirlo fu il solito Longhi in un sottopassaggio di quel saggio sulfureo e irriverente che è il Viatico per i cinque secoli della pittura veneziana. Longhi adorava Giordano e detestava Ribera (e in fondo anche Solimena): il che non toglie che nella collezione Longhi manchi Giordano e vi siano, invece, due operette del Solimena e una bella serie di figure di Ribera (ammesso sia lui e non il ‘Maestro del Giudizio di Salomone’ l’autore degli Apostoli). Quanto alla Zattera della Medusa, non so se questo confronto possa essere portante più che suggestivo: certo i grandi pittori e poeti francesi dell’Ottocento che hanno adorato e innalzato il verismo di Ribera non sapevano che, spesso, stavano guardando dei veri Giordano. La fortuna di Ribera nella pittura francese dell’Ottocento, almeno fino a Ribot e a Léon Bonnat, in realtà è usurpata.

-L’esposizione propone una selezione di fogli molto ben calibrata. Del resto, hai più volte tenuto a ribadire che quella della grafica resta una delle piste di ricerca più promettenti negli studi giordaneschi. Come valuti Giordano disegnatore?

22. Luca Giordano, Giuditta trionfante mostra la testa di Oloferne. Napoli, Società Napoletana di Storia Patria.

R: I fogli di Giordano sono di qualità spettacolare e alcuni, come la Giuditta e Oloferne (fig. 22) o la Susanna e i vecchioni, sono tra i capolavori della grafica barocca. A suo tempo un conoscitore pressoché puro come Vitzthum caricò sulle spalle di Ribera il peso di aver avviato la grafica napoletana. Ora, dopo gli studi di Marina Causa dei primi anni ’90 su ‘Paragone’, sappiamo che questa responsabilità è tutta di Battistello, il primo grande disegnatore locale del ’600. Dopo di lui viene il turno di Giordano, il cui processo creativo potremmo cominciare a seguire meglio se il numero di disegni non fosse infinitamente minore rispetto a quello dei quadri. La proporzione, per dire, è di uno a cento. Quelli che hanno criticato il fatto che a Parigi la selezione dei disegni fosse insoddisfacente, ricaricheranno l’artiglieria a Napoli, dove non abbiamo esposto più di una dozzina di fogli (fig. 23).

23

Ma gli spazi della sala Causa, per quanto belli, non sono ampi. Inoltre continuo a pensare che le mostre non si facciano solo per gli storici dell’arte e gli happy few specialisti di Giordano. Piacerebbe che venisse ogni tanto qualcuno che ne sa poco e ne vorrebbe sapere di più: per loro potranno bastare anche pochi disegni, ma di qualità suprema.

-Reputo condivisibili le tue riserve sulla recente settorializzazione degli studi sulla grafica. Allo stesso modo, anch’io credo poco nello specialismo della natura morta. I rapporti fra Giordano e i pittori di genere rappresentano, d’altronde, un capitolo di estremo interesse, su cui c’è ancora tanto da dissodare. Nel tuo saggio in catalogo sostieni, difatti, che il più importante ‘allievo’ di Luca fu il principale naturamortista meridionale: Giuseppe Recco.

R: La vicenda della scuola di Giordano – che non abbiamo potuto neanche sfiorare nelle mostre di Parigi e Napoli – appare tanto complessa quanto molto deludente. Talvolta si ha l’impressione che, cambiate tutte le cose da cambiare, il giordanismo funzioni un poco come il peggior leonardismo. Vi sono, naturalmente, delle eccezioni: Giacomo Farelli è un notevole espressionista giordanesco. Anche gli stucchi di Andrea Falcone nella sagrestia della Cappella del Tesoro sono un mirabile esempio di traslato del pittore. Ma tra gli aiuti stretti va menzionato almeno Nicola Malinconico che, nelle giocate migliori, funziona un poco come il Giulio Romano di Giordano. Imitare o emulare Giordano era un’operazione suicida, anche se tutto il secondo ’600, non solo napoletano, vi si applica lodevolmente, con risultati diversamente memorabili. Quanto alle nature morte autonome, chiedersi se Giordano ne abbia dipinte o meno è un falso problema; o, piuttosto, un problema mal posto. Più urgente riconoscere che, nella natura morta di metà secolo e oltre, dilaghi la concezione di questo mondo in abbozzo, senza fine. In Giordano va riconosciuto uno dei motori della trasformazione stilistica, cioè mentale, in una natura morta di parata; al massimo volume di presentazione, per così dire. Le composizioni trionfali di casa d’Avalos, oggi a Capodimonte, sono una continuazione della politica di Giordano con altri mezzi.

-Giordano è probabilmente il pittore partenopeo meglio documentato. Come dici, egli è un ‘fossile’ dell’economia napoletana del tempo, e i dati in nostro possesso suggeriscono quanto effettivamente il suo mestiere si fosse andato strutturando nei meccanismi del capitalismo pre-moderno. Sulla base di ciò, non ritieni auspicabile un libro che provi a ricostruire, con il giusto passo, specialmente il ruolo dell’artista nella vita economica, sociale e culturale del suo tempo?

R: Un libro del genere, in effetti, è già uscito da poche settimane: ed è quello tuo sulla chiesa dei Gerolamini a Napoli, nel quale, per forza di cose, Giordano finisce per avere un ruolo da protagonista. Ma il volume sui Gerolamini – che io leggo come un omaggio ritardato al magistero di Haskell e al suo Mecenati e pittori del 1963, recentemente ristampato – riconsidera tutta la cultura figurativa meridionale seicentesca, anche nei suoi allacciamenti con Roma, aprendo al massimo le rette del compasso.

-Ti sono grato, ma reputo la parte giordanesca del mio libro solo un piccolo specimen delle potenzialità che un approccio di questo tipo potrebbe avere laddove fosse esteso all’intera vicenda del pittore. Per concludere, puoi dirci qualcosa sui tuoi impegni futuri? È stata già annunciata una nuova mostra su Battistello Caracciolo che il prossimo anno curerai al Museo di Capodimonte.

R: Ti confesso, Gianluca, che non avevo pensato a una mostra monografica su di lui. Avevo in mente, invece, di immaginare un dialogo con Mattia Preti che, nel periodo napoletano, ripensa e rimette in carta invenzioni precise di Battistello. Forse vale la pena di ricordare che, a suo tempo, la “Sant’Orsola confitta dal tiranno”, estremo lavoro del Caravaggio e dipinto cruciale per i primi ranghi del caravaggismo locale, fu riferita al Preti da Causa: quello che oggi mi sentirei di definire come il più intelligente degli errori. Alla fine abbiamo deciso, con Sylvain Bellenger e la Piscitello, di immaginare un discorso concentrato su Battistello, e, se le cose non dovessero di nuovo mutare, l’esposizione dovrebbe aprirsi per la fine dell’anno venturo. Non mi pare che, dopo il libro del 2000, il tema battistelliano, salvo uno o due interventi mirati di qualche peso, ivi incluso uno tuo, abbia smosso l’interesse. Battistello, che è un pittore tutto sommato raro, vive una sorta di schizofrenia: è troppo caravaggesco per interessare i cursori del ’600. O lo è troppo poco per solleticare i caravaggisti a tutto servizio. Non si sa bene da che parte prenderlo. Quando, nel 1991, Bologna curò la mostra su di lui, cui tu accennavi nella fin troppo generosa presentazione che mi hai fatto, il titolo – Battistello Caracciolo e il primo naturalismo a Napoli – zoppica parecchio per la prima parte. Bologna, in qualche modo, lascia Battistello esattamente lì dove lo aveva collocato Roberto Longhi settant’anni prima, nel 1915. Si capisce che in quella mostra in Castel Sant’Elmo – la cui introduzione al catalogo è senza discussioni il saggio seicentesco più importante degli ultimi trent’anni – lo interessassero molto di più, per dire, Filippo Vitale o i grandi anonimi caravaggeschi, anche nordici, del secondo decennio. Andò a finire che, nella mostra a lui intitolata, Battistello rimanesse, curiosamente, in secondo piano. Volutamente, sospetto: e lo dimostra il fatto che le sezioni su di lui, tra schede e saggio, fossero affidate a un giovane inesperto di 23 anni. Anche per questo, la nostra aspira ad essere la prima mostra monografica su di lui. Certo, il rapporto con l’esposizione dell’anno scorso sul Caravaggio, curata dall’ottima Cristina Terzaghi, e che pure si tenne in sala Causa, è voluto e cercato. Anche alla luce dei nuovi documenti, Battistello rimane quanto di più simile a quell’allievo in senso stretto che il Merisi non ebbe mai: al punto che quella su Battistello sarebbe la più bella mostra sul Caravaggio senza opere del Caravaggio. Ma il Caracciolo, dedito al disegno, all’incisione e all’affresco, rimane un caravaggesco molto bastardo; e già dopo il 1622, premono in lui altre istanze stilistiche: da Ribera a Lanfranco.

Gianluca FORGIONE  Napoli 28 ottobre 2020