Gli stereotipi di una femminilità ‘addolcita’ sotto la lente di due artiste femministe: un punto di vista da meditare

di Giorgia TERRINONI   Critica e Storica dell’Arte

Tra il 2007 e il 2009 l’artista canadese Dina Goldstein ha realizzato una serie di dieci tableaux fotografici intitolata Fallen Princesses.

Le principesse di Goldstein sono estrapolate dalla versione disneyana delle più note fiabe, ma sono calate all’interno di una quotidianità flagellata di realtà. È così che Cenerentola beve solitaria china sul tavolo di un anonimo locale frequentato da soli avventori maschi; Cappucceto Rosso, a furia di occuparsi solo di cestini di provviste, è diventata obesa; il sogno di Biancaneve si è infranto, quando si è ritrovata carica di figli e zavorrata da un amato che ha ceduto all’inedia piccolo borghese…e via dicendo.

Da femminista e da madre, l’artista esplicita il suo turbamento di fronte agli stereotipi costruiti dal mainstreaming disneyano intorno alle ragazze e alle giovani donne; inoltre muove una critica esplicita al “lieto fine” generato dalla manipolazione delle fiabe originali che rimuove il loro valore di parabole, di metafore di realtà.

Lo scorso settembre, al Festival di Venezia è stato presentato Piece of Woman, un film del regista ungherese Kornél Mundroczò. Il film srotola il dramma di una coppia che si trova a sopravvivere alla morte di una figlia. I primi venti minuti mettono in scena lo straziante travaglio della donna che sceglie – folle anacronismo in voga negli ultimi quindici anni – di partorire in casa. L’ostetrica sbaglia qualcosa oppure più semplicemente a mancare è la spesso necessaria assistenza ospedaliera. E la bambina muore mentre viene alla luce.

Da questo momento in poi le strade dei genitori in lutto si dividono irrimediabilmente. Pochissimo interessante quella di lui, centrata su un dolore reale ma egocentricamente vissuto. Devastante quella della madre, non solo in quanto madre, ma anche in quanto donna che trascina con sé l’esperienza fisica della maternità, un’esperienza che è accettabile solo in presenza del figlio: il corpo che continua a espellere le scorie uterine non più necessarie, il seno che si riempie di latte da svuotare artificialmente.

Il corpo della donna diventa presenza di un’assenza e, gonfio di materia, la conduce verso una tale dissoluzione che sarà poi anche inevitabile e forse un po’ crudele rinascita. Il leitmotiv della dissoluzione della donna sono le sue mani dalle unghie smaltate di nero. Durante il travaglio la regia indulge, a tratti, su quelle mani curate e perfettamente pittate pur in un momento in cui il corpo perde necessariamente aderenza con la sua necessità di ornarsi. In un primo momento, l’insistenza sulle mani sembra quasi troppo frivola, gratuita. Poi però quelle mani che si disfano, mentre lo smalto si sbrecca e le unghie crescono, diventano il segno del disfacimento di un corpo ingombro che non ha riafferrato il contatto con ciò che era prima della maternità bloccata dalla morte.

Jenny Saville, artista inglese che tende a materializzare – esasperandola – la bellezza del corpo femminile, una decina di anni fa ha scelto di rappresentare se stessa, il suo corpo e i suoi figli dopo un parto gemellare (The Mothers, 2011). Come sempre nel lavoro di Saville, una pittura filamentosa evoca la stratificazione bio-chimica di cui si costituisce il corpo. Similmente alla straziata Madre! di Darren Aronofsky (una rilettura dell’apoteosi maschilista raccontata nella Genesi), l’artista usa un’iconografia riconoscibile che attinge, per esempio, a Leonardo, Raffaello e Lucien Freud, per evidenziare una condizione femminile edulcorata ma perennemente inascoltata.

Nelle parole spese sopra ho guardato a una certa declinazione del corpo della donna secondo il taglio datone dalle arti visive (fotografia, cinema, pittura). Eppure, tali arti mi sembrano restituire una realtà maggiore rispetto ai modelli femminili che la società mi ha messo davanti agli occhi almeno negli ultimi due decenni. Le presunte donne reali alle quali ispirarsi sono quasi affini a irraggiungibili divinità del calibro di Atena e Afrodite. Lasciamo stare Diana, ma dov’è finita Dafne? Dafne era quella bellissima ma disperata ninfa che si fece tramutare in un albero di alloro pur di sfuggire alla foga sessuale di Apollo. Dafne era disperata perché amava la sua libertà e, complice il padre, oppose alla brutalità di Apollo la sua corteccia. Quanto deve esserle costato rendersi inanimata!

Anche in questo caso è il corpo femminile ad essere al centro! Il corpo desiderabile di una donna che però non vuole essere desiderata. Ecco una serie di esempi, tutti provenienti dall’arte, in cui la sessualizzazione del corpo femminile non coincide con il desiderio maschile. Perché il corpo è anche molto altro…

Giorgia TERRINONI   Roma 28 febbraio 2021