L’epifania della miseria: dalla Grande Depressione al Pitocchetto, tra fotografia, cinema e pittura il dramma dei derelitti.

di Beatrice TANZI

Beatrice Tanzi (Cremona nel 1991), si è laureata in Storia dell’arte alla Statale di Milano con Giovanni Agosti e quindi a Bologna con Daniele Benati (2016), prima su temi cinquecenteschi relativi al rapporto tra arte, committenza e inquietudini religiose al tempo del Concilio di Trento, poi con un lavoro monografico su un pittore anticlassico con una geografia artistica piuttosto variegata, Filippo da Verona. Ha lavorato nel mercato antiquario ed è attualmente dottoranda di ricerca all’interno del progetto ERC – Architectural Culture of the Early Modern Eastern Adriatic presso Ca’ Foscari a Venezia. Ha all’attivo due monografie sugli argomenti delle tesi rispettivamente triennale e magistrale, Colombino Rapari. Arti e inquietudini religiose a Cremona nel Cinquecento (2015) e Filippo da Verona (2018). Con questo articolo inizia la sua collaborazione con ABOUT ART

Il panico finanziario che si abbattè improvviso sulla Borsa americana nel celebre “giovedì nero”, il 24 ottobre 1929, non interruppe solo la lunga fase di espansione che l’economia degli Stati Uniti aveva conosciuto dopo la prima guerra mondiale.

Ebbe altresì l’effetto di rigettare nell’incertezza le economie di tutti i paesi capitalistici, anzitutto di quelli europei che, grazie ai prestiti americani, stavano appena superando le difficoltà di un lungo dopoguerra. Anche per questo, la crisi del 1929 – la “Grande Crisi” – fu vissuta come un trauma epocale, punto d’origine di un marasma destinato a tormentare economie e società per un decennio; come una lacerazione nel tessuto sociale, simboleggiata dalla disoccupazione di massa. L’indispensabile equilibrio fra le forze in contrasto, virtù essenziale della natura e degli uomini, era stato profondamente intaccato, nel mondo economico, dall’offerta soverchiante a dismisura la domanda. Crisi da sovrapproduzione, quindi, provocata da una dilatazione della capacità produttiva che aveva largamente sopravanzato il potenziale assorbimento del mercato. La profondità e la drammaticità della crisi del 1929 vennero acutizzate e amplificate dal rapporto tra economia reale e finanza, che ne doveva dilatare gli effetti oltre misura.

Fu Franklin Delano Roosevelt a porvi rimedio con il New Deal, avviando un’esaltante stagione di esperimenti politici ed economici. Il presidente ridisegnò l’America perduta dalla depressione, mobilitò le forze del lavoro e dell’arte collettiva e, al di là della crisi economica, restituì speranza al paese.

Il trentaduesimo presidente degli Stati Uniti entrò in carica con un paese stremato dall’inerzia dell’amministrazione precedente: la crisi era scoppiata nell’ottobre 1929 e Roosevelt giurò di difendere la costituzione solo il 4 marzo 1933, tre anni e mezzo più tardi. Questo fatto rese inevitabili scelte assai più rapide e drastiche da parte della Casa Bianca e creò un rapporto del tutto diverso rispetto al passato con il Congresso.

Roosevelt diventò una sorta di messia per un Congresso in preda all’incertezza.

Otto giorni dopo l’elezione il presidente inaugurò la serie delle sue “conversazioni al caminetto” radiofoniche, una novità assoluta per l’epoca. Utilizzò con lungimiranza l’occasione per spiegare in parole semplici la crisi finanziaria e invitare gli ascoltatori ad avere fiducia quando le banche avrebbero riaperto. La risposta degli americani fu straordinaria e il giorno dopo i depositi di credito sarebbero stati il doppio dei prelievi. La Borsa riaprì mercoledì 15 e l’indice Dow Jones balzò del 15% in avanti in una sola seduta. Raymond Moley, fra i protagonisti del New Deal, proclamò in seguito che “il capitalismo fu salvato in otto giorni”.

In un simile contesto storico e sociale, John Steinbeck si presenta come il cantore dell’antiepopea del popolo diseredato, dei losers che l’autore, cronista quasi ufficiale del New Deal, rimette on the road a ritentare la strada ormai velleitaria del sogno. Eppure sarà proprio la strada, una strada arsa di siccità – non più quella percorsa dai pionieri del secolo precedente verso il West –, a offrire uno spazio d’azione, la polvere reale e metaforica grazie alla quale prende le mosse anche una parte della nuova industria culturale del cinema e dell’editoria.

Alcuni scrittori provano a innestare un nuovo linguaggio espressivo e poetico in sintonia con il registro dei tempi. I migliori, attraverso le tecniche sviluppate dal Modernismo letterario anglo americano, coniugate a un’estetica lucida e rigorosa, prossima alla fotografia, traducono la dura materia del disagio sociale e le vecchie categorie del realismo e del determinismo naturalista in un linguaggio visivo, mediando fra fatti e corrispondente verità letteraria, fino a realizzare una sorta di naturalismo simbolico, quasi documentaristico, senza precedenti nella tradizione.

La scrittura sembra guardare alla fredda oggettività della fotografia, al nuovo, immediato realismo che lo scatto istantaneo, colto dalla strada, restituisce pervaso di forti contenuti patetici. Di fronte alla grandezza tragica della crisi, scrittori e fotografi convergono indipendentemente sugli stessi risultati espressivi e ideologici, riuscendo a far correre in parallelo sulla pagina parola e immagine.

Nel 1935 nasce la Rural Resettlement Administration allo scopo di documentare la situazione del settore agricolo nel periodo della grande riforma del New Deal; due anni più tardi l’agenzia divenne parte integrante del Department of Agriculture con il nome di Farm Security Administration. Si tratta di una delle più rilevanti esperienze di reportage fotografico della prima metà del Novecento: da questa istituzione alcuni tra i fotografi più importanti del XX secolo documentarono la crisi scoppiata nel 1929 negli Stati Uniti.

Rexford G. Tugwell, sottosegretario all’Agricoltura chiama a dirigerla un suo allievo, Roy E. Stryker, sociologo dell’Università di Columbia, con il preciso compito di organizzare un ampio reportage fotografico che non documenti soltanto le attività dell’ente, ma che possa fornire un’immagine esauriente della vita rurale americana. La F.S.A. opera fino al 1943 e si avvale, nel corso degli anni, di una trentina di fotografi che realizzano più di 270.000 scatti, materiale attualmente conservato presso la Library of Congress di Washington.

Il primo fotografo assunto per occuparsi dell’organizzazione del laboratorio è Arthur Rothstein, seguito poi, sempre nel 1935, da Dorothea Lange, Walker Evans e Paul Carter. In seguito sono affiancati da altri fotografi di grande valore come Ben Shahn, Carl Mydans, Marion P.Wolcott (dal 1938), Jack Delano, Edwin Rosskam, John Vachon (dal 1940), John Collier. Gordon Parks (dal 1941), Marjoire Collins, Peter Horne, Russel Lee, Todd Webb, Theodore Jung e altri.

Il lavoro dei fotografi documenta la vita delle classi subalterne americane negli anni trenta fornendo uno straordinario serbatoio di esperienze visuali per il cinema, che ha attinto a piene mani da questa esperienza, e per il giornalismo fotografico dei grandi rotocalchi, in particolare attraverso Walker Evans. Attraverso la pittura di Ben Shahn negli anni quaranta la F.S.A. ha influenzato profondamente non solo le correnti realistiche ma anche, successivamente, l’arte pop americana.

Quella della Farm Security Administration è una delle esperienze più significative della fotografia del Novecento, innanzitutto per la storia dell’immagine documentaria, ma anche per l’approccio a generi quali il paesaggio o il ritratto, e per le implicazioni morali e sociali della sua vicenda. Gli effetti della meccanizzazione dell’agricoltura, il mutare delle esigenze produttive legate allo sforzo bellico e alcuni anni di siccità sono le cause principali dell’impoverimento di migliaia di contadini, costretti ad abbandonare le proprie terre, dal Texas all’Oklahoma, dal Kansas al Dakota, trasformatesi in dust-bowls, tazze di polvere.

Sino ad oggi questa è la documentazione più capillare e fedele sugli anni della crisi, almeno per alcuni stati, mentre sembra essere più scarsa la documentazione su altre realtà. Nonostante la forte personalità dei singoli autori, le foto attualmente presenti nel fondo depositato presso la Libreria del Congresso, pur con comprensibili variazioni di qualità e stile, rivelano una notevolissima omogeneità.

La realtà immortalata dagli scatti della F.S.A. non ha corrispettivi nella contemporanea pittura americana, come pure ci si aspetterebbe, perché questa sembra più attirata dagli aspetti della solitudine delle metropoli, dell’alienazione dell’individuo, come nella produzione di Edward Hopper (ricordo, per tutti, il celeberrimo Nighthawks).

Penso alla pittura della realtà tra Seicento e Settecento in Lombardia, inquadrata oltre mezzo secolo fa in maniera esemplare da Roberto Longhi, il principale storico dell’arte italiano del Novecento.

 

Estremamente suggestivo mi è sembrato piuttosto il parallelo con una situazione figurativa totalmente diversa per cronologia e intenti.

In particolare, il milanese attivo a Brescia Giacomo Ceruti detto il Pitocchetto evoca nei suoi grandi dipinti di genere personaggi in qualche modo analoghi a quelli fotografati durante la Grande Depressione.

C’èlo stesso sguardo oggettivo e quasi impietoso in entrambi i casi, ma sia la F.S.A. sia Ceruti si avvicinano a questa realtà con una sorta di emozione trattenuta, di pietas per le miserie ineluttabili della vita.

Se però la documentazione fotografica aveva uno scopo di denuncia, i dipinti del Pitocchetto ornavano le case della nobiltà, come un memento tragico da tenere sempre sotto gli occhi.

Sono ancora insuperate le pagine di Roberto Longhi, nel lontano 1953 (I pittori della realtà in Lombardia, catalogo della mostra a cura di R. Cipriani e G. Testori, Milano 1953, p. XVI):

«A quella data, li [i gueux, i mendicanti n.d.r.] aveva già dipinti il Ceruti e, per giunta, senza ombra di umore, senza altezzoso distacco, anzi con una umana partecipazione che sembra, per quei tempi (e anche per oggi), miracolosa. Tutto ciò poi, si avverta, non già in quadrucci di pochi centimetri che sarebbero anche potuti passare come minuta suppellettile da salotto, ma in tele enormi, di figure grandi al vero, quasi che il pittore pensasse di aver trovato gli argomenti più importanti del mondo».

Pitocchetto fa quindi leva sulla fascinazione da sempre esercitata dalle immagini di mendicanti, macilenti e storpi e li ritrae in tutta la loro “nobile umanità”, senza mai cadere nel grottesco o nel caricaturale.

Sono opere crude, moderne e vere, con un grado di individuazione psicologica del soggetto popolare così forte, quale non si verificava in Italia dai tempi di Caravaggio; non c’è alcun riferimento allegorico o moralistico, né quella dimensione prettamente decorativa e divertita che si respira in certa produzione contemporanea.

Si pone quindi nel solco delle esperienze naturalistiche inaugurate da Georges de La Tour e dei fratelli Le Nain, con lo stesso approccio mentale e figurativo al tema: un impegno naturalistico e una visione concentrata e intensa che esulano decisamente dalle coordinate più diffuse della scena popolare.

I personaggi di Ceruti sono gli stessi dell’antiepopea dei Joad in Furore: questa gente non è simpatica né remissiva di fronte alla sofferenza, né si vuole dimostrare che è gente virtuosa, ma soltanto che è umana.

Beatrice TANZI   Cremona 28 febbraio 2021