Tintoretto tra arte e mercato, la strana vicenda del “bozzetto” del Paradiso

di Rita RANDOLFI

Come è noto nel 1577 un incendio rovinò irrimediabilmente l’Annunciazione e Incoronazione della Vergine, quest’ultima comunemente denominata il Paradiso, che Guariento aveva affrescato nel 1360 nella sala del Maggior Consiglio di palazzo Ducale a Venezia. Per rimediare alla tragedia la Repubblica bandì un concorso, al quale parteciparono i più importanti artisti dell’epoca tra cui Veronese, Francesco Bassano, Jacopo Palma il giovane e Tintoretto, che si aggiudicò la vittoria.

L’artista ideò diversi  i bozzetti allo scopo. Uno proveniente dai conti Bevilaqua, è finito al Louvre, ed è stato   esposto alla mostra monografica dedicata al pittore a Roma alle Scuderie del Quirinale[1]. Altri due studi  si trovano nella città lagunare nel Palazzo Sceriman e presso la Cassa di Risparmio.  Infine un ultimo progetto appartiene al  Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid (fig.1). Le sue misure (cm. 152 x 490,2) fanno supporre che si tratti della stessa tela ricordata nel 1664 in casa di Flavio Orsini dal Bellori[2].

L’opera, di nuovo menzionata nell’inventario dei beni redatto da Giuseppe Ghezzi nel 1668 alla morte del duca, venne ereditata dalla moglie, Marie Anne de la Trémoille, che  la concesse in prestito per la mostra di San Salvatore in Lauro del 1703. Giuseppe Ghezzi incaricato dal Pontefice di eseguire un «Progetto d’esposizione di quadri nelle Gallerie Vaticane in previsione della venuta a Roma di Filippo V», dichiarò di voler chiedere alla duchessa di Bracciano il Paradiso di Tintoretto «Ottimo da collocarsi  nel capo o a piedi le galerie»[3].

Alla morte di Marie Anne, sopraggiunta nel dicembre del 1722, la tela risultava inventariata da Domenico Maria Muratori che si soffermò a descriverne la cornice «Nera e fondo di radica d’oliva con il battente dorato», confermandone il prezzo già proposto dal collega, 1.000 scudi.

Nel 1723 il bozzetto passò ai Lante, che ricevettero in deposito tutta l’eredità della principessa Orsini con cui si erano imparentati grazie al matrimonio tra Luisa Angelica de la Trémoille, sorella di Marie Anne, e Marcantonio Lante.

Dal 1751, anno in cui furono compilati una serie di inventari di opere di Filippo e del cardinale Federico Marcello, i Lante avevano collocato il dipinto nel salone d’onore affrescato da Giovan Battista Romanelli. Vent’anni più tardi la tela era stata trasferita nell’«Anticamera verso La Sapienza», ed era stata dotata, per volontà dello stesso prelato, di una nuova cornice «Moderna velata».  Nel medesimo ambiente si trovava ancora nel 1781, come risultava dall’inventario compilato dopo l’acquisto definitivo della collezione di Marie Anne da parte di Luigi II Lante.

La notizia riveste un certo interesse se si pensa che invece le guide di Roisecco  e del De Lalande  ricordavano erroneamente l’opera come  ancora  collocata nel palazzo Orsini di piazza Pasquino, mentre già da tempo era stata trasferita nella dimora dei Lante in piazza dei Caprettari[4].

Nei due elenchi di dipinti redatti da Giuseppe Cades tra il 1794 ed il 1795, il bozzetto non solo recava  la valutazione di 1.000 scudi, ma presentava la stessa cornice già  descritta dal Muratori.

Agli inizi del secolo successivo il duca Vincenzo Lante,  in collaborazione con il pittore accademico Jean Baptiste Wicar, aveva ideato un  progetto museografico per restituire un po’ di lustro alla propria famiglia: secondo tale programma tutti i dipinti della raccolta dovevano essere suddivisi in quattro classi, rispettose dei canoni estetici dell’epoca. Il Paradiso di Tintoretto, dunque, è  per la prima volta definito nei documenti  abbozzo, e viene  incluso nella seconda classe, categoria in cui figuravano altri dipinti del Cinquecento italiano. Tuttavia, in seguito  alla morte del duca, la tela, già citata nell’inventario dei beni di Vincenzo,   fu  inserita dallo stesso Wicar in un elenco di opere vendibili. Il prezzo stabilito ammontava  a 1.300 scudi.

Ormai la situazione finanziaria dei Lante era al collasso, e gli eredi di Vincenzo tentarono il tutto per tutto pur di  salvare il patrimonio. Nel 1813  Gaspare Landi, contattato quale nuovo perito, valutò  il Paradiso  2.000 scudi. Dalle carte d’archivio risulta che Venezia aveva avanzato delle richieste, ma evidentemente le trattative non diedero esito positivo poiché il dipinto  risultava ancora presente in casa Lante, ed il Landi, in un  nuovo elenco, sempre  del 1815, ne tradusse il costo persino in franchi, nella speranza di  agevolarne la vendita.

Nel 1817 il conte Vincenzo Pianciani si offrì come acquirente, ma in un secondo momento ritirò la sua proposta, dichiarandosi disposto a comperare piuttosto un tondo raffigurante uno Scarpinello attribuito all‘Elsheimer. Non si conosce il motivo di tale ripensamento forse dovuto al prezzo troppo elevato, in ogni caso il conte fu esaudito: negli inventari Lante posteriori a tale data non vi è più traccia del tondo elshemeriano, mentre continua ad essere ricordato il Paradiso di Tintoretto, che compare  nella lista dei dipinti alienabili  presentata, nel 1818, da Pietro Ferrari, fedele computista del prelato Alessandro Lante, fratello del duca Vincenzo, a Monsignor Domenico Attanasio, uditore di Rota, il quale, a sua volta, doveva esibirla al cardinale Bartolomeo Pacca affinché la Reverenda Camera acquistasse in toto la collezione della dinastia.

Purtroppo, nonostante i tentativi del cardinale Alessandro, coadiuvato anche da Antonio d’Este e da Antonio Canova, di interessare lo Stato Pontificio al patrimonio artistico di famiglia, la Depositeria Urbana si dimostrò del tutto indifferente di fronte alla prestigiosa raccolta, anche perché, nel frattempo, il porporato era passato a miglior vita nell’estate del 1818.

Il Paradiso si individua nuovamente nell’elenco di opere stilato, nel 1822,  da Sebastiano Armano, di concerto con le famiglie Odescalchi e Borghese, che  rivendicavano dei diritti sul patrimonio degli Orsini, di cui i Lante risultavano, loro malgrado, eredi.

Intanto, sebbene il cardinal Pacca avesse assicurato al suo amico Alessandro il permesso di estradizione dei dipinti, la tanto attesa licenza non arrivava e verrà ottenuta soltanto nel 1827 da Giulio, primogenito di Vincenzo e nipote di Alessandro. Tuttavia questi, oppresso dalle pretese dei numerosi creditori, aveva già cercato di disfarsi di qualche oggetto e anche  il dipinto del Tintoretto era stato messo al pubblico incanto nel 1826, senza trovare  un offerente.

Successivamente  Filippo Agricola, consultato in qualità di agente dai Lante, ne abbassò il costo a  600 scudi, e finalmente il quadro  fu venduto, in quanto assente dalla nuova lista  di opere cedibili risalente al 18 luglio del 1828.

Probabilmente il celebre bozzetto, di cui da questo momento si perdono le tracce,  raggiunse l’attuale ubicazione mediante il mercato antiquario.

Quello che preme far notare è come attraverso i documenti sia possibile ricostruire la storia di un  quadro, e, attraverso di essa, l’altalenante vicenda di una famiglia trapiantata a Roma, che alternò a momenti di successo altri di crisi, durante i quali l’opera d’arte non è più concepita come un valore culturale, ma come un bene di commercio, da utilizzare in caso di necessità finanziarie.

Rita RANDOLFI   Roma  10 maggio 2020

[1] Cfr. M. Binotto, in Tintoretto, cat. della mostra a cura di V. Sgarbi, (Roma, Scuderie del Quirinale 25 febbraio-10 giugno 2012), Milano 2012, scheda 11, pp. 106-107, con bibl. prec.
[2] Per quanto riguarda la storia del bozzetto Orsini-Lante si rinvia a R. Randolfi, Palazzo Lante in piazza dei Caprettari, Roma 2010, pp.  71n., 84, 89, 124, 146, 151, 157, 157n., 159, 160, 161, 163n., 165, 166, 188, 192, 193, 193n., 221n., 260, 262, 274, 275, 286, 287, 294, 296, 299, 300, 304; Ead., Altro “ Paradiso”Del Tintoretto appartenuto ai Lante, in “Lazio Ieri e oggi”, Anno XLVIII, n. 7, (572), luglio 2012, pp. 204-207.
[3] G. De Marchi, Mostre di quadri a S. Salvatore in Lauro (1682-1725). Stime di collezioni Romane. Note e Appunti di Giuseppe Ghezzi, in “Miscellanea della Società Romana di Storia Patria, XXVII, (1987), (numero intero), pp. 363-367.
[4] N. Roisecco (1750, II, p. 13); J. De Lalande (1786, V, p. 57).