Un “itineriario dantesco” tra storia, cultura, arte e tradizioni: le meraviglie di Viterbo.

di Nica FIORI

Chi viene a Viterbo non va più via”:

è questo uno dei luoghi comuni più ricorrenti in quella che è considerata la capitale dell’Alto Lazio. Una città che, dal dopoguerra in poi, ha assorbito una quantità notevole di immigrati da altre regioni italiane e dall’estero, senza perdere l’orgoglio delle antiche tradizioni e la sua vitalità culturale. Gran parte del suo fascino è legato al suo aspetto medievale e all’emozionante scoperta di piazze e palazzi dove sono transitati papi e imperatori, santi e capitani di ventura, mercanti e artisti, letterati e registi cinematografici.

Viterbo, panorama

Le prime notizie storiche su Viterbo risalgono all’VIII secolo d.C., al tempo del re longobardo Desiderio, che fortificò il colle di S. Lorenzo per la felice posizione strategica sulla vecchia via Cassia, ma le origini sono ben più antiche, come sembra suggerire una non ben identificata vetus Urbs (città vecchia), alla quale si potrebbe far risalire il toponimo di Viterbo. L’attenzione degli archeologi si è concentrata sull’abitato di Surna o Surrena, di cui si ha testimonianza in un’iscrizione murata di via Orologio Vecchio. Il nome corrisponde a quello di una divinità etrusca del mondo infero, probabilmente legata alla presenza di fenomeni sulfurei e termali nelle vicinanze (Bullicame). Resti di mura dell’abitato di Surrena, caratterizzate da blocchi squadrati di grandi dimensioni, sono visibili nei pressi della piazza del Duomo, alla base del muro di contenimento del Seminario Arcivescovile e del vecchio Ospedale degli Infermi.

2 Resti di mura etrusche nel Seminario Diocesano

Secondo una leggenda l’antica città sarebbe stata legata al mito di Ercole, che con un prodigioso colpo di clava aveva fatto scaturire il vicino lago di Vico. A Ercole si deve, secondo una tradizione, il simbolo araldico di Viterbo, il leone, in ricordo della belva da lui uccisa nella selva Nemea (al leone sarebbe stata poi aggiunta la palma, che era il simbolo della città di Ferento, conquistata dai viterbesi nel 1172).

3 Stemma di Viterbo in piazza del Plebiscito

In realtà le ipotesi riguardanti la Viterbo prelongobarda sono tante e tutte ispirate a fantasiose leggende. Secondo una delle più curiose credenze popolari, le forze occulte evocate al tempo degli Etruschi avrebbero determinato una sorta di negatività paranormale, responsabile della sorte infausta dei papi che sono stati in stretto rapporto con la città. Alessandro IV (1254-1261), sotto il cui pontificato venne dato inizio alla costruzione del Palazzo Vescovile, poi divenuto Palazzo Papale, morì 17 giorni dopo che vi si era stabilito; Clemente IV (1265-1268) vi spirò senza essere mai potuto entrare in Roma; Adriano V morì in modo misterioso, ad appena 39 giorni dalla sua elezione, nel 1276. L’anno successivo, infine, nel crollo del pavimento della sua camera, rimase ucciso Giovanni XXI (1276-1277), l’unico papa portoghese della storia e l’unico che Dante colloca nel Paradiso, a dispetto della sua fama di mago (in realtà era filosofo, medico e scienziato).

Al visitatore il centro della città appare superbamente chiuso da una cinta muraria a tratti coronata da merlature guelfe; una decina di porte, tutte con il nome e l’anno della costruzione, permettono l’ingresso. Una di esse, risalente al 1095, così viene ricordata:

Mi chiamo Sonsa, porta di Viterbo la splendida, grande il mio nome, eterni i miei privilegi …”.

Un’altra, chiamata Faul, sembra alludere alla leggenda secondo cui il primo nucleo cittadino si sarebbe formato dall’unione delle città di Fanum, Arbanum, Vetulonia e Longula (le cui iniziali formano l’acronimo F.A.V.L.).

All’interno dell’abitato si notano subito le numerose chiese, tutte artisticamente interessanti, e le particolari fontane di pietra, i cui getti d’acqua spesso zampillano da bocche leonine. Più che monumenti, sembrano i segni di un sapiente arredo urbano concepito per soddisfare le esigenze della popolazione e dei pellegrini.

4 Fontana della Loggia nel Palazzo papale

 

5 Una fontanella con testa leonina
6 Palazzo del podestà con la Torre dell’Orologio

Il centro della vita cittadina è la piazza del Plebiscito, delimitata da vari palazzi, dal Palazzo Apostolico (oggi sede della Prefettura), al quattrocentesco Palazzo dei Priori, sede del Comune (con un bel cortile che si affaccia sulla valle Faul), a quello del Podestà (XIII secolo), contraddistinto da un elegante balcone e dagli stemmi cittadini collocati sullo spigolo. La slanciata torre dell’Orologio, ricostruita nel 1488 dopo il crollo di quella preesistente, completa l’edificio.

Di fianco sorge la chiesa di Sant’Angelo in Spatha, consacrata nel 1145; sulla facciata, a destra del portale d’ingresso, era collocato un tempo un sarcofago romano del III secolo (poi trasportato nel Museo Civico e sostituito da una copia), che per voce di popolo era la tomba della “Bella Galiana”, una mitica bellissima fanciulla vissuta nel XII secolo, trafitta dalla freccia di un cavaliere straniero. In un’iscrizione che la ricorda, si legge:

Per decreto della comunità viterbese l’anno 1138 fu sepolta in questo marmoreo avello la fanciulla Galiana, incomparabile per bellezza e virtù, fiore e onore della patria. Alla sua morte tutta la Tuscia parve rattristata e spento ogni gaudio cittadino”.

Il sarcofago raffigura una scena di caccia al cinghiale con un leone che lo sovrasta e lo uccide. Ma cosa c’entra Galiana con questa scena?

7 Sepolcro della Bella Galiana

La spiegazione potrebbe trovarsi nella leggenda che mette in relazione la sua figura con le mitiche origini troiane della città. Si racconta che gli esuli troiani che si erano stanziati nel Viterbese ogni anno immolassero una vergine a una scrofa (o cinghialessa) bianca, sacra a Venere. Galiana da bambina era stata destinata a questo sacrificio, ma un leone la salvò dalla sua triste sorte. Per questo motivo, quindi, e non in ricordo di Ercole, il leone sarebbe assurto a simbolo della città. Divenuta giovinetta, di lei s’invaghì un barone romano che, respinto, cinse d’assedio Viterbo. Dopo inutili tentativi di prendere la città, l’innamorato deluso fece sapere agli assediati che se ne sarebbe andato solo dopo aver visto apparire sulle mura la fanciulla. E fu così che Galiana si affacciò da una finestra della torre di Porta Faul, ma non si era ancora spento il grido di ammirazione per la sua avvenenza che una freccia la colpì nel petto, trasformandola così in un simbolo immortale di bellezza e virtù.

Un’altra piazza decisamente suggestiva è quella di San Lorenzo o del Duomo, dove, oltre alla cattedrale dalla facciata cinquecentesca e l’interno romanico, si affaccia il celebre Palazzo dei Papi, l’edificio più importante della città, completato intorno al 1266. La sua severa facciata di pietra è alleggerita dalle eleganti bifore del piano superiore e dalla splendida Loggia, decorata da sette archi, sostenuti da colonnine binate che si intrecciano superiormente a formare un raffinato motivo. Una massiccia scala conduce al Salone del Conclave, disadorno ma ricco di memorie.

Si ricorda a questo proposito che il termine conclave (cum clave, cioè chiuso a chiave) fu coniato proprio a Viterbo in occasione dell’elezione più lunga di tutto il papato, quella di Gregorio X. La fumata bianca giunse il 1° settembre 1271, dopo due anni, nove mesi e ventuno giorni dalla morte di Clemente IV. Il capitano del popolo Raniero Gatti, per accelerare i tempi, aveva costretto i cardinali a radunarsi nel Palazzo Vescovile, dove furono chiusi a chiave. Ma la precauzione si rivelò inutile, tanto che si dovette ricorrere a un certo punto allo scoperchiamento del tetto del palazzo, così che

l’inclemenza dell’aere e la imminente canicola espugnassero la caparbietà di quegli implacabili elettori …”.
8 Palazzo dei Papi

Il quartiere di San Pellegrino è forse il più noto della città per l’eccezionale stato di conservazione e l’atmosfera d’altri tempi. Sembra una vera cittadella medievale, con un groviglio di stretti passaggi, scavalcati da archi a tutto sesto e volte massicce. Le vie hanno nomi antichi e stravaganti. Pure curioso appare il nome del ponte Paradosso che unisce e divide al tempo stesso il quartiere di San Pellegrino da quello di Pianoscarano. Numerose sono le torri gentilizie e i caratteristici balconi, detti profferli, cui si accede da scale esterne.

9 Un profferlo nel quartiere San Pellegrino
10 Trasporto della Macchina di Santa Rosa

Nella piazzetta centrale, oltre alla chiesa di San Pellegrino e al Palazzo Alessandri, vi è il piccolo Museo del Sodalizio dei Facchini di Santa Rosa, con cimeli relativi alla grande festa patronale della città. Questa si celebra il 3 settembre e culmina, alle ore 21, nel trasporto della celebre “Macchina di Santa Rosa”, un altissimo pinnacolo (circa 30 metri) che viene trasportato da un centinaio di facchini vestiti di una tunica bianca fasciata di rosso. Il percorso va dalla chiesa di San Sisto (presso Porta Romana) al santuario della santa viterbese. L’ultimo tratto, in salita, viene compiuto di corsa con uno sforzo estremo. Questo trasporto è considerato parte integrante della storia e della cultura della città, tanto da aver avuto il riconoscimento da parte dell’UNESCO di patrimonio immateriale dell’umanità.

Tra i diversi itinerari che si potrebbero compiere a Viterbo, oltre alla visita dei quartieri cittadini, degli edifici più importanti e dei musei (ricordiamo il Museo Civico ospitato nel Palazzo dei Priori e quello Nazionale etrusco di Rocca Albornoz), il Comune propone un itinerario in compagnia dei versi di Dante, ideato e redatto nel 2021 in occasione dei 700 anni dalla morte del Sommo Poeta. Una serie di cartelli, posizionati in corrispondenza dei luoghi legati alla Commedia e al poeta fiorentino, presentano suggestive immagini e descrizioni, leggibili dai visitatori in più lingue attraverso i QR code dei propri smartphone.

ITINERARIO DANTESCO

Porta Romana

L’itinerario può essere fatto in completa autonomia, ma, volendo suggerire un ordine, si potrebbe cominciare da Porta Romana, già detta di San Sisto per via dell’abside e del campanile dell’omonima chiesa, inglobati nella cinta muraria accanto alla Porta. Qui, secondo la tradizione, deve essere passato il poeta, recandosi a Roma in occasione del Giubileo del 1300, e, intorno a quegli stessi anni, la porta è stata attraversata da innumerevoli pellegrini e alcuni celebri personaggi storici.

11 Porta Romana

La palina posizionata in questo luogo presenta un testo intitolato “Il mistero dell’arcivescovo”, accompagnato da questi versi:

 Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino, / e questi è l’Arcivescovo Ruggieri: / or ti dirò perché i son tal vicino. / Che per l’effetto de’ suo’ mai pensieri, / fidandomi di lui, io fossi preso / e poscia morto, dir non è mestieri.” (Inferno XXXIII, 13-18).

Il personaggio del conte Ugolino della Gherardesca è sicuramente tra i più noti dell’Inferno dantesco e il suo antagonista, colui che lo avrebbe tradito e incarcerato a Pisa nella torre della Muda, insieme ai figli, è proprio l’arcivescovo Ruggieri degli Ubldini, il cui capo viene bestialmente roso per l’eternità dal conte, per ricordare la terribile fame subita da lui e dai figli e che forse lo avrebbe addirittura spinto al cannibalismo.

In seguito a questo crimine, l’arcivescovo venne trasferito da papa Niccolò IV nel 1289 a Viterbo, dove scontò la pena del carcere perpetuo nel convento domenicano di Santa Maria in Gradi (attualmente sede dell’Università della Tuscia) e vi morì nel 1295.

12 Chiesa del Gesù

Piazza del Gesù

Nel centro storico di Viterbo, in piazza del Gesù, è situata l’omonima chiesa del Gesù, un tempo detta di San Sivestro, caratterizzata da una facciata romanica sormontata da due leoni. In questa chiesa il 13 marzo 1271 avvenne quello che passò alla storia come “il delitto del secolo”.

In quel momento Viterbo era al centro dell’attenzione politica europea per via del lungo conclave che si protraeva da anni e, proprio per sollecitarne la conclusione, arrivarono in città il re di Francia Filippo III e Carlo I d’Angiò, re di Sicilia, presso la cui corte vi era il giovane Enrico di Cornovaglia, cugino di re Edoardo I d’Inghilterra.

Giunsero in città anche Guido e Simone di Montfort, figli del conte di Leicester, che aveva capeggiato una rivolta di baroni, conclusasi sanguinosamente nel 1265 nella battaglia di Evesham; nonostante il ribelle Leicester si fosse arreso, Edoardo d’Inghilterra lo aveva fatto uccidere e il suo corpo venne straziato e oltraggiato. La presenza di Enrico di Cornovaglia a Viterbo apparve subito propizia ai due Montfort per vendicare il padre: colsero di sorpresa il giovane principe, che si era recato ad assistere alla messa nella chiesa di S. Silvestro e lo trucidarono ai piedi dell’altare; uccisero pure un chierico che aveva cercato di interporsi e un altro fu ferito mortalmente. Il cuore del principe fu poi portato a Londra e collocato nell’Abbazia di Westminster.

Dante si rese interprete dell’universale orrore del delitto perpetrato a Viterbo, ponendo Guido di Montfort nel cerchio infernale dei violenti contro il prossimo, immerso fino alla gola nel sangue bollente del Flegetonte e isolato rispetto agli altri dannati  (evidentemente per l’efferatezza del suo crimine). Non fa direttamente il suo nome ma ci fa sapere che “fesse” (trafisse) in chiesa il cuore che ora si venera sul Tamigi:

Mostrocci un’ombra dall’un canto sola, / dicendo: Colui fesse in grembo a Dio / lo cor che ‘n sul Tamisi ancor si cola” (Inferno XII, 118-120).

Anche se la vicenda suscitò grande esecrazione, i Montfort riuscirono a farla franca, almeno temporaneamente. Il pontefice eletto in quello stesso anno nel conclave viterbese, Gregorio X, il 1° marzo 1273 scomunicò Guido, privandolo dei titoli nobiliari e dei beni; ma nel 1283 venne reintegrato da Martino IV, che lo nominò capitano generale delle milizie della Chiesa impegnate in Romagna. Quattro anni dopo, avendo partecipato alla formazione della flotta angioina destinata a una grande offensiva navale contro la Sicilia, fu fatto prigioniero dai siculo-aragonesi nella battaglia navale di Napoli del 1287 e lasciato morire nel carcere di Messina.

Piazza del Duomo

Nella piazza del Duomo, in corrispondenza della Cattedrale di San Lorenzo, affiancata dal Palazzo dei Papi, l’itinerario dantesco ricorda ben tre papi che risiedettero a Viterbo.

13 Cattedrale di San Lorenzo

Il primo che Dante incontra è Niccolò III. Il poeta lo punisce come simoniaco e nepotista nella terza bolgia dell’VIII cerchio dell’Inferno. “Figliuol de l’orsa”, in quanto nato come Giovanni Gaetano Orsini, venne eletto papa a Viterbo nel 1277 e morì a Soriano nel Cimino, dove aveva fatto costruire un massiccio castello, nel 1280. Nei versi di Dante viene dipinto come affamato di ricchezza e pronto a favorire i propri parenti, definiti “orsatti”:

sappi ch’i’ fui vestito del gran manto; / e veramente fui figliuol de l’orsa, / cupido sì per avanzar li orsatti, / che sù l’avere e qui me misi in borsa” (Inferno XIX, 69-72).

Martino IV, l’ultimo tra i papi che risiedettero a Viterbo, è citato tra i golosi nel Purgatorio. Era di origine francese, e più precisamente secondo Dante veniva “dal Torso”, ovvero da Tours. Fu eletto il 22 febbraio del 1281. Pare che i romani non gradissero questo pontefice, in quanto imposto da Carlo d’Angiò, e pertanto Martino IV fu costretto a vivere tra Viterbo, Montefiascone, Orvieto e Perugia, dove morì nel marzo del 1285 e dove fu sepolto.

Dante raccolse la voce del suo vizio di gola, e ce lo mostra ghiotto delle anguille arrosto del lago di Bolsena, che accompagnava con la vernaccia, un vino locale molto forte.

(…) e quella faccia / di là da lui più che l’altre trapunta / ebbe la Santa Chiesa in su le braccia: / dal Torso fu e purga per digiuno / l’anguille di Bolsena e la vernaccia” (Purgatorio XXIV, 20-24).

Nel Paradiso Dante incontra nel cielo del Sole, quello degli spiriti sapienti, Giovanni XXI (il portoghese Pietro Ispano), che morì a Viterbo, dopo solo otto mesi di regno, a causa del crollo di un’ala del Palazzo Papale, verificatosi la mattina del 20 maggio 1277. Fu un uomo dalla cultura ricca e dall’intelletto vivace, autore di un’enciclopedia medica e delle Summulae Logicales (i “dodici libelli” ricordati da Dante), un manuale di dialettica che ebbe un grande successo anche nelle epoche successive: “(…) Pietro Spano / lo qual giù luce in dodici libelli” (Paradiso, XII, 134-135).

14 Monumento sepolcrale di Giovanni XXI

Il monumento funebre in suo onore, che oggi vediamo nella cattedrale, è la rielaborazione di uno precedente, che presenta comunque la statua funebre in peperino (ricavata da un coperchio di sarcofago etrusco) risalente al XIV secolo.

Chiesa di San Francesco

Altri due papi legati a Viterbo e citati da Dante vengono ricordati presso la chiesa di San Francesco alla Rocca.

Il primo è Clemente IV (anche se inizialmente fu sepolto nella cattedrale di San Lorenzo e poi nella chiesa domenicana di Santa Maria in Gradi).

 

15 Basilica di San Francesco alla Rocca

Questo pontefice è legato alla vicenda di Manfredi nel canto III del Purgatorio, in quanto, secondo Dante, sarebbe stato lui a inviare al vescovo Bartolomeo Pignatelli di Cosenza l’ordine di gettare nel fiume Verde il corpo dello scomunicato imperatore Manfredi, figlio di Federico II:

 “Se il pastor di Cosenza, che alla caccia / di me fu messo per Clemente, allora / avesse in Dio ben letta questa faccia, / l’ossa del corpo mio sarieno ancora / in co del ponte presso a Benevento, / sotto la guardia della grave mora” (Purgatorio III, 124-129).

L’altro papa è Adriano V, ricordato nel canto XIX del Purgatorio, quello degli avari e dei prodighi. Questo papa, nato Ottobono dei Fieschi di Lavagna, regnò per un solo mese. Si traferì a Viterbo nell’agosto del 1276 per sfuggire al caldo estivo di Roma e andò a risiedere nel grande convento francescano vicino alla Basilica di San Francesco alla Rocca. Pochi giorni più tardi morì e le sue spoglie riposano nella stessa basilica.

16 Sepolcro di Adriano V

Nella Commedia egli confessa a Dante di essersi convertito tardi, dopo aver capito che i beni materiali non erano in grado di “acquietare” il suo cuore:

 “La mia conversione, omé! fu tarda; / ma, come fatto fui roman pastore, / così scopersi la vita bugiarda. / Vidi che lì non s’acquetava il core, / né più salir potiesi in quella vita; / per che di questa in me s’accese amore” (Purgatorio XIX, 106 -111).

Santa Maria Nuova

Un’altra chiesa inserita nell’itinerario dantesco è Santa Maria Nuova, dal cui pulpito esterno predicò il grande teologo Tommaso d’Aquino, invitato a predicare in questa chiesa da Clemente IV.

17 Santa Maria Nuova, pulpito esterno

San Tommaso sostò a Viterbo nel convento domenicano di Santa Maria in Gradi, dove compose una parte della sua Summa Theologiae, punto di riferimento filosofico imprescindibile per Dante che, nel Paradiso, affida a Tommaso d’Aquino l’elogio di san Francesco. Ribadendo la sua appartenenza all’ordine domenicano, Tommaso si presenta  così:

  “Io fui de li agni de la santa greggia / che Domenico mena per cammino / u’ ben s’impingua se non si vaneggia” (Paradiso X, 94-96).

Un altro grande teologo del Medioevo, ricordato pure da Dante nel cielo del Sole, è il francescano Bonaventura da Bagnoregio, che nel canto XII fa l’elogio di san Domenico e, a sua volta, si presenta con queste parole:

Io son la vita di Bonaventura / da Bagnoregio, che ne’ grandi offici / sempre pospuosi la sinistra cura” (Paradiso XII, 127-129).

Il legame con Viterbo è dovuto al fatto che il santo di Bagnoregio si trovava in questa città nell’estate-autunno del 1271 e con la sua presenza avrebbe favorito l’elezione di Gregorio X, a conclusione del lunghissimo conclave iniziato nel 1268.

Entrambi i santi teologi, scelti da Dante per esaltare i grandissimi Francesco d’Assisi e Domenico di Guzman, nel presentarsi a Dante pongono l’accento sulla necessità di vivere la vocazione mirando al vero bene indicato dai fondatori dei loro rispettivi ordini.

18 Torre della Malta

Piazza Benedetto Croce

In piazza Benedetto Croce, contigua a quella dei Martiri d’Ungheria, troviamo una palina in corrispondenza della Torre della Malta (omonima di una più celebre torre dell’Isola Bisentina, nel lago di Bolsena, adibita a prigione).

Il testo è intitolato “Entrare in Malta”. Il termine “malta” designava all’epoca di Dante un terreno fangoso e umido ed “entrare in malta” voleva dire andare in prigione. In una terzina del Paradiso una beata del cielo di Venere, Cunizza da Romano, usa questo termine quando denuncia i misfatti di Alessandro Novello, vescovo di Feltre:

 

Piangerà Feltre ancora la diffalta / dell’empio suo pastor, che sarà sconcia / sì che per simil non s’entrò in malta” (Paradiso IX, 52-54).

Non sappiamo se Dante in questo caso si riferisse alla Malta dell’Isola Bisentina, nota per essere riservata a membri del clero, o a quella di Viterbo, oppure semplicemente abbia usato il termine nel suo significato di “prigione”, che è tipico proprio della Tuscia.

Bullicame

L’ultima tappa, più periferica ma non meno importante, è quella del Bullicame (o Bulicame), il complesso termale di grande rilevanza paesaggistica e storica, già noto agli Etruschi e ai Romani per l’uso terapeutico delle sue acque.

19 Il Bullicame

Viene citato nel canto XII dell’Inferno, quando il centauro Nesso scorta Dante e Virgilio lungo il Flegetonte, dove i dannati immersi nel sangue  (tra cui Guido di Montfort, del quale abbiamo precedentemente parlato) levano alte grida:

 Poco più oltre il centauro s’affisse / sovr’una gente che ’nfino a la gola / parea che di quel bulicame uscisse” (Inferno XII, 115-117)

e nello stesso canto ricompare poco oltre:

Sì come tu da questa parte vedi / lo bulicame che sempre si scema», / disse ’l centauro, (…)” (Inferno XII, 127-129).

Ricompare ancora nel XIV canto:

“Tacendo divenimmo là ‘ve spiccia / fuor della selva un picciol fiumicello, / lo cui rossore ancor mi raccapriccia. / Quale del Bulicame esce il ruscello / che parton poi tra lor le peccatrici, / tal per la rena giù sen giva quello” (Inferno XIV, 76-81).

Il termine “peccatrici” usato da Dante è stato interpretato in modi differenti. Potrebbero essere le meretrici che frequentavano il Bulicame, utilizzandone l’acqua per le abluzioni e per lavare i vestiti, come pure le donne che si erano redente dopo una vita mondana e utilizzavano l’acqua caldissima della sorgente sulfurea come mortificazione della carne. Ma c’è pure chi ritiene che si tratti di un errore di scrittura e che il termine vada letto come “pettatrici”, cioè le pettinatrici di lino e canapa, la cui macerazione aveva luogo nelle piscine derivate dal Bulicame. Nel Medioevo, in effetti, a Viterbo c’era un commercio molto florido delle fibre di canapa.

Il paesaggio del Bulicame, oltre ad aver ispirato alcuni versi dell’Inferno, è stato messo in relazione con un capolavoro pittorico del Cinquecento, conservato nel Museo Civico di Viterbo: la sublime Pietà di Sebastiano del Piombo e Michelangelo (olio su tavola, 1512-16).

Sebastiano del Piombo, Pietà, Museo civico, sede distaccata presso Palazzo dei Priori, portici, Viterbo

Giorgio Vasari ci fa sapere che questa tavola fu commissionata a Sebastiano da monsignor Giovanni Botonti, chierico di Camera di Papa Clemente VII, per la propria cappella gentilizia nella chiesa di San Francesco alla Rocca di Viterbo. Lo stesso Vasari ci informa che Michelangelo avrebbe creato il bozzetto, da cui Sebastiano avrebbe ricavato il capolavoro, non senza prendersi qualche libertà, come appunto l’ambientazione notturna in quello che sembra un paesaggio infernale pervaso dal peccato e dalla dannazione, che incombono e ricadono sull’umanità. Un’umanità che solo il sacrificio di Cristo potrà salvare.

Nel paesaggio si riconoscono i ruderi dell’impianto termale di Santa Maria in Silice, il ponte Camillario che scavalcava in origine il torrente Urcionio (il Flegetonte per Dante) e le chiese della Trinità e di San Lorenzo, anch’esse direttamente o indirettamente legate al poema dantesco.

Il bagliore nel fondo, inoltre, potrebbe alludere al famoso passo dell’Inferno, quando Dante, dopo essere stato traghettato da Caronte, sviene per il forte impatto emotivo della discesa agli Inferi, dove le tenebre si manifestano in tutta la loro potenza evocativa tra fragori di terremoti e venti fortissimi e dove una tonante luce vermiglia fa presagire sviluppi ancora più sinistri e inquietanti.

La terra lagrimosa diede vento, / che balenò una luce vermiglia / la qual mi vinse ciascun sentimento” (Inferno III, 133-135).

Nica FIORI  Roma 27 Agosto 2023