Simona Weller, le emozioni, gli incontri e le idee di una pittrice saggista e letteraria engagé (parte 1^)

Anna Maria PANZERA

Anna Maria Panzera collabora da tempo con enti di ricerca ed istituzioni museali in attività di didattica dell’arte e formazione, ha partecipato alla realizzazione del secondo volume della collana Educare all’Arte (Electa, Mi, 2009) a cura di P. Vassalli e C. Francucci. E’ autrice di numerose pubblicazioni su riviste scientifiche e di importanti volumi, tra cui Caravaggio, Giordano Bruno e l’invisibile natura delle cose (L’Asino d’oro, Roma, 2011) e Camille Claudel, prima biografia italiana sulla scultrice (L’Asino d’oro, 2016); ultimamente ha curato insieme a Veronica Montanino  Femm[e] Arte [eventualmente] femminile (Bordeaux edizioni, Roma, 2019). Attualmente insegna storia dell’arte nei licei. Con questa intervista inizia la sua collaborazione ad About Art

SIMONA WELLER – INTERVISTA A CALCATA, 23/24 FEBBRAIO 2019 – PRIMA PARTE 

Il 21 marzo 2019 si è aperta presso la Galleria Tiziana Di Caro – Piazzetta Nilo 7, Napoli – un’importante personale di Simona Weller. La mostra si apre con un grande dipinto del 2014, intitolato Plenilunio, per proseguire attraverso tre sezioni che offrono ai visitatori i temi di ricerca fondamentali della pittrice, affrontati attraverso le grafie cromatiche, i riferimenti a Claude Monet, Vincent Van Gogh e soprattutto George Seurat, le geografie del pensiero inscritte nel nero delle lavagne.

Ho incontrato Simona Weller nella sua casa di Calcata lo scorso 23 febbraio, quando la mostra era ancora in preparazione. La lunga intervista, gli scambi di opinioni, la vicinanza infine amicale, sono qui restituiti nella loro prima parte: troppo preziosi per essere ritagliati e sintetizzati, saranno restituiti integralmente, “al lettore piacendo”.

Anna Maria Panzera

-Simona Weller: se ci fossero lettori che non ti conoscono ancora, come ti presenteresti?

R: Comincerei dicendo che sono una pitto-scrittrice, ma questa specie di doppia militanza m’imbarazza sempre e finisco per parlare di me come scrittrice e come pittrice in due modi diversi. Qualcuno dice che, poiché scrivo, di conseguenza dipingo con le parole, ma francamente non credo sia questa la ragione.

Nel pluralismo dell’arte contemporanea, il tuo grafismo prende una strada di profonda astrazione, che lascia scivolare completamente il senso delle parole nella loro immagine

R: Allora bisogna cominciare dall’inizio. Ho sempre amato dipingere e devo molto a una pittrice che, pur senza avere guizzi particolari, m’insegnò le tecniche alla perfezione. Dopo il liceo classico, che mi ha assicurato una formazione ampia ed elastica, Ho superato facilmente l’ammissione in Accademia. Qui, come su una passerella felliniana, ho cominciato a incontrare tutti gli artisti della Scuola Romana: Ferruccio Ferrazzi, Mario Mafai, Mino Maccari e naturalmente Toti Scialoja, insegnante che divenne subito un amico: stimolante, capace anche di far appassionare ai libri. Ai miei occhi, allora, erano tutti circonfusi di un’aura straordinaria ma il più grande, e il più umile, è stato Ferrazzi; aveva lavorato molto sotto il fascismo e l’Accademia gli aveva riservato una grande studio, nel quale ci insegnò tutte le tecniche dell’affresco. Il contesto era emozionante. Pochissime donne con me, fra cui Paola Pallottino, figlia del famoso storico, la quale divenne poi illustratrice e paroliera di canzoni. Soprattutto, tantissimi studenti stranieri, egiziani, libanesi, iracheni, iraniani, thailandesi e altri asiatici, che per me costituivano una novità assoluta. Coltissimi, raffinati, non paghi di quello che facevano in Accademia, avevano affittato uno studio e ingaggiato una modella, invitando anche me a disegnare con loro. Dopo aver vissuto il collegio e la severità materna, mi sembrava di toccare il cielo con un dito. I loro racconti di risaie, di templi nascosti nelle giungle, di mari e spiagge esotiche, mi facevano desiderare mete che ritenevo irraggiungibili. E invece, loro mi insegnarono che potevo ottenere quello che volevo: mi aiutarono a preparare e presentare tutta la documentazione per una borsa di studio  dell’U.N.E.S.C.O.;  a 19 anni, barando un po’ e spacciando per buono un inglese improbabile, eccomi attesa dall’Accademia di Bangkok!  M’imbarcai in un lungo viaggio iniziatico in nave e in aereo, improvvisamente catapultata nel mondo. Lì i paesaggi, gli orizzonti infiniti, le stoffe colorate, la gente bellissima, mi hanno cambiato il modo di guardare. Il resto lo devo a Corrado Feroci (che aveva preso il nome thai Silpa Bhirasri ed è considerato il padre del modernismo thailandese, n.d.A.), al tempo direttore della locale Accademia, il quale fu in grado di farmi conoscere l’arte e la cultura di quel Paese fuori dal tempo. Mi sentivo in un romanzo di Conrad o di Malraux.

Cosa dipingevi in quel periodo?

R: Ero letteralmente “schiaffeggiata” da quello che mi circondava, golosa di tutto; dipingendo mi appropriavo di quello che vedevo; per fortuna lo facevo in modo acerbo, ero brava ma non tanto da esprimermi in un realismo accademico. Le risaie che riflettevano il cielo mi avevano suggerito naturalmente il rapporto tra superfici specchianti; dall’alto del mio atelier, le figure che passavano (sagome coi grandi cappelli, file di bonzi in fila lungo i clon –canali- di notte con le loro lanterne) divenivano i miei modelli da ritrarre. Ne feci una mostra, ospitata in un padiglione del giardino del Ministero degli Esteri; quando il sole colpì, quei quadri si “incendiarono”: li avevo dotati di colori straordinari, che non ho mai più dimenticato. Erano la mia libertà. Tornata in Italia, speravo di ritrovare questa sensazione anche nei miei compagni e compagne d’arte, ma non fu così.

Questo non ti ha impedito di proseguire la tua strada…

R: Assolutamente no, nonostante le difficoltà. Aspettavo un figlio, mi sono sposata, ho cominciato a insegnare …poi con tutta la famiglia mi sono trasferita al Cairo, nuovamente grazie a una borsa di studio. Con mia grande sorpresa, la locale Accademia, funzionava benissimo. Anche quello era un mondo affascinante, oggi perduto. Ospite presso due principesse, dipingevo in una stanza grigia, piena di armadi a muro, nella quale una porta chiusa attirava costantemente la mia attenzione. Come di consuetudine, arrivò il momento di mostrare il mio lavoro e mi fu proposto il Museo d’Arte Moderna: mi sentivo inadeguata a esporre in un luogo così importante, i miei lavori erano parte del mio itinerario, ma sapevo che non erano maturi, né particolarmente ispirati; tuttavia il direttore del museo m’incoraggiò molto. In quell’occasione accaddero due cose significative. La prima fu che tutti quelli che passavano dalla mostra andavano a congratularsi con mio marito, perché io ero “solo” una donna; seguì una campagna a mio sfavore da parte della stampa antigovernativa, che usava qualunque pretesto per screditare Nasser (Presidente della Repubblica egiziana, dal 23 giugno 1956 al 28 settembre 1970, n.d.A.).  La seconda, fu ascoltare le parole di un insegnante della locale Accademia: «Tutto quello che lei ha fatto non serve a niente – mi disse – è solo folklore. Però vedrà fra qualche anno. I geroglifici, la scrittura arabo-egiziana: ecco cosa le sarà davvero utile». Si avvicinava la partenza. Come premio d’addio le due principesse decisero di farmi oltrepassare la porta segreta: mi trovai di fronte a un campionario straordinario di arte europea, dai più noti impressionisti come Manet e Renoir a Rubens, Rembrandt, Van Dyck, capolavori visti lì per la prima volta che aspettavano solo di uscire allo scoperto, tra enormi difficoltà e timori di confische. Mi fu chiesto di portarli in Italia nella cassa dei miei quadri, ma non ebbi il coraggio. Dopo anni, arrivò a Roma una mostra intitolata Les Oubliés du Caire: erano i quadri che avevo visto in Egitto e mai dimenticati.

Il giudizio che esprimi sul tuo lavoro in quegli anni mi fa venire in mente quanto il lavoro dell’artista sia necessario in ogni sua fase. Alla sua base c’è sempre un’insistenza, la ripetizione di un gesto, la stratificazione di un segno, fino al raggiungimento dell’opera che si sente, almeno per un momento, compiuta. L’arte è davvero un processo, che avviene in modi diversi, insistendo su uno stesso supporto o usandone molti. Sono convinta che per ogni artista apporre un segno sia estremamente impegnativo; coprirlo per andare oltre, ancora più audace!

Simona Weller

R: A molti miei colleghi rimprovero di non porsi il problema di superarsi; ogni risultato, se considerato una conquista definitiva, m’irrita profondamente. Uno dei miei primi studi, a via de’ Cartari, vicino via Giulia, era veramente piccolo; le vetrate lo facevano sembrare chissà che, ma poteva contenere solo un tavolo di due metri ed era dotato di una parete di tre sul fondo, non più di 4 mq. Per lavorare prendevo un rotolo di tela, ne svolgevo un certo tratto, su cui dipingevo/scrivevo di seguito, tornandoci più volte sopra coi colori (mi sembrava quasi di non vedere niente), e ri-arrotolavo, andando avanti finché lo spazio libero non si esauriva. Alla fine, per vedere tutta la tela intera, l’attaccavo alla parete di fondo con dei chiodi, quindi mi allontanavo in fondo allo studio per stenderla nella sua lunghezza: mi regalavo così l’emozione fantastica di scoprire cosa avevo realizzato, sapendolo – fino a quel momento – soltanto a memoria. Provavo sentimenti contrastanti, tra l’orgoglio e il senso di vittoria.

Usi il termine memoria apposta, per distinguerlo dalla figura nella mente, dal ricordo?

R: I francesi hanno un’espressione intraducibile in italiano, bellissima: savoir par cœur. Ecco, la mia era una memoria par cœur. Tante volte mi sono chiesta il senso di ciò che stavo facendo e rispondere non è mai stato facile. Il successo, le vendite, sono importanti ma decisamente accessori rispetto alla gioia di fare. Mi piace quando mi chiedono “cosa” dipingo, ma non quando vogliono conoscere le mie quotazioni. Non amo che giudichino il mio lavoro solo per monetizzarlo.

Anna Maria PANZERA   Calcata (Vt)  marzo 2019 (parte 1^)

*L’intervista a Simona Weller proseguirà nei numeri successivi. Ci piace concluderla citando alcune parole di Il fuoco nell’acqua, da lei scritto nel 1995 in occasione dell’omonima mostra presso la Galleria d’Arte La Borgognona di Roma:

«La memoria è la prima radice della pittura contemporanea. Intimamente legata alle scoperte della psicanalisi. All’inconscio, al sogno, al simbolo, ai fatti della vita. Il particolare per l’universale. Questo intendo per memoria. Laddove uno slogan femminista degli anni Settanta, diventa improvvisamente rivelatore. Il privato è politico? Credo proprio di sì. Il mio privato è la storia di un apprendistato alla coscienza. La storia di un conflitto irrisolto tra una visione romantica dell’artista e un Sistema spietato. Un Sistema che ribalta tutti i valori, tutte le certezze, di un giovane che ha creduto nell’arte. Illuso di potersi esprimere, e convinto di partecipare con il proprio talento alla costruzione di un tratto di strada della Storia umana».