I ricordi di Casimiro Porro, un libro che ripropone il dilemma fra la tutela statale del patrimonio storico-artistico italiano e le esigenze del libero mercato dell’arte.

di Mario URSINO

Casimiro Porro, o dell’arte di vendere l’arte

fig 1

Ho letto con un certo disappunto, mi spiace dirlo, alcune parti del recente libro di Casimiro Porro, Per le strade dell’Arte. Ricordi e riflessioni di un protagonista, tra mercato e istituzioni, Milano 2018 [fig. 1]. Lo dico però con tutto il rispetto per un signore quasi novantenne, che ha la fortuna di presiedere ancora la sua seconda creatura la Porro & Co [fig. 2], la casa d’aste da lui fondata nel 2002, dopo la storica Finarte [fig. 3] del 1959, di cui quest’anno ricorrono i sessanta anni di fervida attività. Come è noto, la Finarte ha avuto trasformazioni societarie nel 2011, ma è tuttora attiva a Milano e a Roma con la nuova gestione. La Porro & Co, invece, è stata fondata con alcune differenze, per quanto mi è dato comprendere, ovvero anche come Art Consulting,nata con l’obiettivo di operare nel segmento più alto del mercato dell’arte in Italia, sia nella compravendita di opere molto significative, che nella gestione di collezioni importanti e nell’organizzazione di vendite all’asta di alto profilo e qualità”, come recita il suo profilo in rete.

fig 4

Di codesta società, Casimiro Porro [fig. 4] è Presidente e Amministratore delegato, e vanta, come è noto, un lungo passato quale protagonista italiano e internazionale nel mercato dell’arte, prima come socio fondatore della Finarte, come detto, e poi come Presidente della nuova società: “traghettando il vecchio concetto che vedeva nelle case d’aste un attore interessato esclusivamente alla vendita, verso una concezione moderna di tale tipologia di intermediario, che comprende non solo la vendita, ma anche e soprattutto la consulenza nella gestione di collezioni importanti”. Difatti, solo per fare un esempio tra i più noti, suo merito è l’essere riuscito a “traghettare” il nucleo storico della celebre collezione Jucker nello splendido Museo del Novecento a Milano, dove oggi possiamo ammirare quei capolavori primonovecenteschi, di cui Porro traccia bene la storia (avendone avuto la custodia in Finarte tra il 1990-1992, per effettuare la intermediazione nelle operazioni di vendita al Comune di Milano).

Nelle prime pagine dell’interessante memoriale Porro ne narra la storia:

una storia comunque non priva di difficoltose trattative per giungere all’importante risultato in favore delle pubbliche istituzioni (non escluse però talune dispersioni, come Mondrian, Morandi, e un significativo dipinto di Giorgio de Chirico del 1911, acquistato da Finarte, e oggi in collezione privata, e quindi non visibile, quale rara testimonianza  in Italia di opere del primo periodo metafisico del maestro). Ecco come Porro ci descrive orgogliosamente l’allestimento nel Museo del Novecento della sala riservata alla collezione Jucker:

solo dopo aver varcato le soglie vere e proprie del museo si dispiega al visitatore il nucleo internazionale della collezione Jucker. Nel piccolo spazio che funge da anticamera alla grandiosa Sala delle Colonne non si può che restare catturati dall’intenso Picasso del 1907, da Kandiskij, da Klee, da Mondrian, dalla celebre Odalisca di Matisse e, sulla parete opposta, dal Morandi metafisico del 1918 e dal Braque del 1913. La Jucker – aggiunge – continua poi ad occhieggiare lungo il percorso: gli altri suoi pezzi “italiani”, accanto ai numerosi della collezione Boschi, signoreggiano nei ranghi del futurismo, con Boccioni, Soffici, Balla, Severini, per arrivare ai De Chirico, riservati alla sala della pittura metafisica.” (op. cit. 2018, p.16).
fig 5
fig 6

Porro non esagera, è proprio così; la medesima sensazione l’ho avuta anch’io, quando visitai, anni fa, il milanese Museo del Novecento nella restaurata sede razionalista dell’Arengario, edificato tra il 1936-1956 su progetto degli architetti Portaluppi, Muzio, Magistretti, Griffini, e decorato sulla facciata da bassorilievi di Arturo Martini [fig. 5].

 

Devo segnalare inoltre, per completezza di informazione, che manca nella collezione il famoso dipinto metafisico di Carrà, L’Ovale delle apparizioni, 1918 [fig. 6], che Riccardo Jucker (1909-1987) vendette direttamente alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna nel 1986 (e una Natura morta, 1918 di Morandi, fig. 7), con grande risentimento dell’allora soprintendente a Brera, Rosalba Tardito, per lo scorporo di quell’opera tra quelle  notificate allo Jucker.

Ma questo non è stato il solo caso, come detto più sopra, e quindi il dipinto fortunatamente è rimasto a Roma, e comunque esposto sempre in un pubblico museo; va considerato inoltre, a mio avviso, che codesta opera è particolarmente significativa  per Roma, poiché lo stesso Carrà la volle riprodotta nel primo numero della celebre rivista romana “Valori Plastici” (1918-1921) [fig. 8], poiché L’Ovale delle apparizioni fu eseguito dal maestro nello stesso anno della nascita della rivista fondata da Mario Broglio.

***

Ma per tornare al memoriale di Casimiro Porro, oggetto della presente nota,

il mio disappunto, per non dire dispiacere vero e proprio, l’ho provato per taluni pensieri e affermazioni riguardanti i suoi giudizi dichiaratamente negativi sulla legislazione della tutela dei Beni Culturali in Italia; e tanto più sono rimasto sorpreso per prese di posizioni, da parte di un personaggio della sua levatura culturale e imprenditoriale in questo settore, che mi sono apparse, e mi scuso se lo dico con franchezza, dettate spesso da certi luoghi comuni diffusi tra la moltitudine di persone che non si occupano professionalmente, come lui, di vendite e consulenze in materia di opere d’arte. Quali sono codesti luoghi comuni è presto detto: l’immensa quantità di opere che costituiscono il patrimonio storico-artistico italiano è il “nostro petrolio” (copyright ministro Beni Culturali, Mario Pedini, 1976-1978; cfr, anche Vittorio Emiliani, Stupidario dei Beni Culturali, in Patrimoniosos.it, 9 giugno 2014); in proposito Casimiro Porro scrive:

La contrapposizione fra pubblico e privato nella gestione o valorizzazione (non vedo contrasto tra i due termini, come invece vedono altri) è certo fuorviante, ma purtroppo costituisce ancora oggi il perno culturale su cui incardinano le proprie tesi alcuni, alcuni anche giovani, esponenti del mondo accademico italiano. E sempre partendo dalla stigmatizzazione di quei fatidici anni ottanta, in cui anche in Italia la politica ha incominciato a parlare di beni culturali come risorsa economica, come il vero “petrolio” italiano” (op. cit. 2018, p. 40).

Porro, poi si lascia andare a considerazioni sullo stato di degrado, secondo lui, nel quale versano realtà “archeologiche, museali, architettoniche…”. Sinceramente mi sembra un po’ troppo. Si tenga conto che oggi molti depositi di musei sono visitabili e a disposizione di studiosi che possono contribuire alla conoscenza di opere sino ad ora trascurate, se non addirittura ad importanti scoperte. Ed è per questo che non possono essere oggetto di alienazioni. E’ senza dubbio una gestione difficile data la vastità dell’immenso patrimonio pubblico, non esente, in taluni casi, da carenze conservative per scarsità di fondi, ma da qui mi pare eccessivo considerare l’inutilità di tenere nei depositi dei musei enormi quantità di reperti presumibilmente inutili, sempre secondo l’illustre personaggio, il quale incredibilmente ci ricorda nel suo memoriale una inammissibile sua proposta all’allora Ministero della Pubblica Istruzione risalente quindi a molto tempo fa, laddove scrive:

Nei primi anni sessanta, mio suocero Gian Marco Manusardi, con il quale avevo fondato Finarte, ebbe l’idea di chiedere presso il Ministero della Pubblica Istruzione (allora non esisteva il Ministero dei Beni Culturali) la concessione di aree archeologiche regolamentate dallo Stato e dalle soprintendenze, con formula riassumibile grosso modo nei termini di «beni contro servizi»”.

E Porro soggiunge “Dalla vendita all’asta (ovviamente sottintende la Finarte, ça va sans dire, n.d.A.) dei reperti archeologici si sarebbero cioè potuto ricavare risorse da destinare alla cura dei musei, dei siti archeologici, o a ogni altra iniziativa culturale in mano pubblica”. L’esimio dealer in sostanza sosteneva (e ancora sostiene) che bisognava alienare, e naturalmente insiste, “attraverso aste”, “pezzi archeologici di secondaria importanza storico-artistica (ma chi lo può dire in senso assoluto? n.d.A.) che, ieri come oggi straripano nei magazzini dei musei in molte città” […]. La proposta, invece, fu accolta con molta freddezza dalle alte sfere e giudicata addirittura oltraggiosa (e ci credo! n.d.A.) da alcuni sovrintendenti che pertanto rigettarono senza appello”. Ma come poteva essere accolta una tale proposta, ignorando del tutto, se non travolgendo, il principio della tutela del patrimonio storico-artistico nazionale, come recita l’art. 9 della Costituzione, e soprattutto per l’archeologia, dove, anche se in un terreno privato, ciò che si trova nel sottosuolo, o nei fondali marini (v. Bronzi di Riace), come reperto archeologico, appartiene per legge allo Stato (art. 91, Codice dei Beni Culturali), fatto salvo per il proprietario di un indennizzo, oppure consentendogli di trattenere per sé qualche reperto d’accordo con la soprintendenza competente.

Ad ogni modo, va ricordato soprattutto l’art. 53, Beni del demanio culturale, comma 2 del Codice dei Beni Culturali del  2004,

che dichiara espressamente: “I beni del demanio culturale non possono essere alienati, né formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei modi previsti dalla legge”, ribadito nel successivo art. 54, Beni inalienabili, comma 1: “Sono inalienabili i beni culturali di seguito indicati: a) gli immobili e le aree di interesse archeologiche; insomma questa è la legislazione in Italia; se ne può dissentire, ma non trasgredire con proposte del tipo più sopra citato. Certamente esiste un mercato clandestino, ma questo traffico viene abilmente contrastato dal competente Comando dei Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, e dell’omologo della Guardia di Finanza; i loro depositi sono stracolmi di opere recuperate e sequestrate, per poi essere affidate alle soprintendenze: io stesso li ho visitati personalmente nell’ambito del mio passato servizio ai Beni Culturali.

Casimiro Porro, poi, nel suo testo porta esempi di come la tutela dei beni artistici si esercita in altri paesi

come Inghilterra, Francia, Germania, Svizzera, Stati Uniti; e tra questi, gli ultimi due ovviamente sono tra i più liberali in materia, anche perché sono i principali paesi importatori piuttosto che esportatori di opere d’arte. Non poteva mancare inoltre la condanna dell’istituto della notifica, e porta come esempio tra i danni più clamorosi del XX secolo causati, a suo dire, da questo provvedimento di tutela, quello subito dal mercante-collezionista Ernst Beyeler, che Porro considerava senza remore come il legittimo proprietario del dipinto Il giardiniere di Van Gogh, senza fare un minimo cenno al modo fraudolento con cui il gallerista svizzero voleva trasferire all’estero un’opera notificata dal 1954 (si veda al riguardo il mio recente articolo apparso su questa rivista la settimana scorsa: https://www.aboutartonline.com/il-giardiniere-e-l-arlesiana-di-van-gogh/).

La notifica invece è l’unico strumento giuridico per controllare e disciplinare la fuga di opere d’arte

di interesse storico-artistico da un paese esportatore come il nostro, mentre è considerata  come un vero e proprio esproprio dagli operatori nel mercato dell’arte; viceversa posso concordare con Porro, quando lamenta che in Italia “oggi non c’è ancora un catalogo delle opere notificate, e, magari rese di pubblico godimento nei musei”, ma dirò di più, e mi scuso se mi permetto di autocitarmi, poiché già nel lontano 1987 era mio convincimento che la notifica non doveva essere considerata come un esproprio, ma auspicavo la formazione di un libero mercato nazionale con questa speciale categoria di beni, se adeguatamente resi noti, e senza timore da parte dei proprietari (cfr. Mario Ursino, La notifica-spauracchio: ma non è un esproprio, Il Giornale dell’Arte, n. 50, novembre 1987, fig. 9).

fig 9

Da giovane funzionario ho frequentemente parlato con i miei superiori della necessità di procedere ad un censimento delle opere notificate in elenco negli archivi delle soprintendenze e del Ministero, ma sono prevalse sempre ragioni per considerare cose più urgenti da fare, e del resto io stesso non ho mai avuto l’autorità per poter realizzare autonomamente questo progetto almeno per Roma, tra la Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici a Palazzo Venezia, e la Galleria Nazionale d’Arte Moderna.

Quanto sin qui sopra esposto, in questo mio commento, riguarda la prima parte dell’interessante volume di Casimiro Porro, Per le strade dell’arte, con il contributo di Gianpietro Borghini, giornalista e noto personaggio politico di Milano, amico e prefatore di codesto memoriale.

La loro tesi è intelligentemente ispirata dal concetto di “elasticità”,

fig 10

che simbolicamente essi hanno scelto di rappresentare anche sulla copertina del libro, con la stupefacente opera di Umberto Boccioni, Elasticità, 1912, un olio su tela, cm.100×100 [fig. 10], già collezione Jucker, oggi nel Museo del Novecento a Milano. Borghini si richiama inoltre ad un provocatorio scritto di Marinetti apparso cento anni fa, Democrazia futurista,  nel quale il prorompente personaggio futurista, definito da D’Annunziouna nullità tonante”, sosteneva paradossalmente che

Le nostre opere d’arte antiche, vendute in America, in Inghilterra, in Russia, diventeranno la più efficace delle «reclames» al genio creatore della nostra razza”.
fig 11

Marinetti ignorava, o fingeva di ignorare, che già Napoleone aveva razziato in Italia sommi capolavori della nostra “razza”, come grande capolavoro, tanto per fare un solo esempio dalla moltitudine di predazioni effettuate durante la campagna in Italia, è la grandiosa tela Le nozze di Cana  del Veronese [fig. 11], sottratta alla Repubblica di Venezia, che, al Louvre fronteggia l’insopportabile Gioconda, davanti alla quale, come diceva Berenson, torme di giapponesi, e non, si inchinano (oggi si fanno selfies), e senza aver capito nulla se ne vanno. Ignorava pure il Marinetti che fu proprio Berenson, a formare con famosi dipinti antichi di arte italiana la strepitosa collezione americana della miliardaria Isabella Stuart Gardner a Boston; e come Berenson altri influenti connoisseurdealer tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi del Novecento potevano tranquillamente trasferire all’estero ogni tipo di capolavori dell’arte italiana. Dunque su queste premesse, il giovane Stato Italiano sin dal 1870 si preoccupò con provvedimenti vari di arginare la dispersione, e in seguito nel 1902, sino a promulgare la famosa Legge Rosada nel 1909 che introdusse per la prima volta l’istituto della tanto deprecata notifica, che si vorrebbe abolire secondo il principio simbolico della “elasticità”, al quale secondo gli illustri protagonisti del volume, e degli altri collezionisti intervistati dall’autore, dovrebbero ispirarsi tutti gli accademici e i soprintendenti, affetti da un irriducibile “conservatorismo” nei rapporti tra istituzioni pubbliche e mercato dell’arte.

Ma a parte codesta posizione così radicale di Borghini e Porro (che naturalmente non condivido),

devo dire che la seconda parte del volume riguarda esclusivamente i rapporti intrattenuti da Casimiro Porro, descritti con profonda e sensibile umanità, con personaggi e collezionisti suoi amici. Essi vanno dall’artista Gianfranco Ferroni (1927-2001), esponente di un’algida pittura esistenziale [fig. 12], all’umorale Giovanni Testori (1923-1993), noto scrittore, drammaturgo, storico dell’arte, critico letterario e collezionista, al professor Carlo Volpe (1926-1984), storico dell’arte, esperto della pittura dei “primitivi italiani”, allo scoppiettante e stravagante Federico Zeri (1921-1998) [fig. 13], che fu giovane ispettore storico dell’arte nella statale Galleria Spada di Roma, dimessosi prematuramente negli anni Cinquanta per dedicarsi maggiormente ai suoi studi e ricerche erudite, anch’egli collezionista e adviser per musei (il Getty), e per la stessa Finarte;

fig 14

altre personalità in amicizia e consulenti di Casimiro Porro furono Giuliano Briganti (1918-1992) [fig. 14], noto storico dell’arte, e critico su “La Repubblica” dall’anno della fondazione del giornale nel 1976; seguono poi il famoso scrittore e collezionista Carlo Volponi (1924-1994), con la passione per l’arte, tanto che Porro lo volle come collaboratore in Finarte. Con tutti Porro ebbe consuetudini non solo professionali, dai quali, per sua sincera e disarmante ammissione, ha dichiarato di aver appreso molto nella materia della sua professione, ma nello stesso tempo aveva stabilito con questi amici, che non ci sono più, un rapporto umano ed empatico, in taluni casi commovente, come quando conclude i suoi ricordi con Volponi, sulla prematura scomparsa, in incidenti diversi, per ciascuno di loro, di un amato figlio:

fig 15
fig 16

Roberto Volponi nel 1989, Alessandro Porro [fig. 15], invece è scomparso a Londra nel 2012 a soli 51 anni, ed era una brillante giovane promessa nella Porro & C, di cui era divenuto amministratore delegato, e un originale organizzatore di mostre per la società, di cui il padre orgogliosamente ricorda nel libro il precoce successo ottenuto con la presentazione in Finarte dei disegni italiani di Edward Lear (1812-1888) [fig. 16], insieme alla sua monografia, Il viaggio come avventura estetica, Finarte, Milano 1994, dedicata all’artista e scrittore inglese.

                                                                  ***

Il libro Per le strade dell’arte di Casimiro Porro si conclude con interviste a quattro importanti collezionisti italiani:

Mario Scaglia, Guido Rossi, Giuseppe Iannaccone, e al manager Francesco Micheli, affascinato dal mondo dell’arte e dai suoi protagonisti, che fu cooptato da Porro e Manusardi in Finarte. Dai racconti di costoro emergono prepotentemente come nascono e si sviluppano compulsivamente le raccolte di opere d’arte, da parte non di studiosi della materia (divenuti nel tempo per forza di cose essi stessi esperti delle opere trovate, o inseguite con tenacia, si potrebbe dire metaforicamente, addirittura venatoria), ma di professionisti, avvocati, ingegneri, dirigenti aziendali, che hanno collezionato con lo stesso puntiglio svolto nel loro lavoro. E allora c’è chi privilegia la pittura bergamasca del sei-settecento, e ama medaglie e placchette antiche, chi accumula migliaia e migliaia di libri antichi e moderni, chi ha privilegiato la pittura italiana degli anni Trenta, e così via. Uno spaccato abbastanza inedito del collezionismo italiano, sperando che non venga mai disperso. Ma una cosa accumuna tutti questi signori collezionisti: l’avversione e condanna per la notifica, definita sprezzantemente da uno di loro:

La notifica è una normativa barbara perché distrugge cultura e mercato insieme e produce il paradosso per cui possedere un capolavoro di un autore storico italiano è peggio che avere un’opera minore”.

No comment.

Mario URSINO    Roma  marzo 2019

P.S.: Questa mia disamina del libro di Casimiro Porro, Per le strade dell’arte, è l’esito dialettico di un dibattito che si inscrive nell’annoso problema irrisolto del difficile rapporto fra la tutela statale del patrimonio storico-artistico italiano e le esigenze del libero mercato dell’arte. Ma devo aggiungere che l’autore, nonostante la sua ferma convinzione in materia, diversa, e in opposizione alla nostra, merita tutto il rispetto dovuto, sia per la sua veneranda età, sia per l’azione da lui svolta in sessanta anni (1959-2019) di appassionato lavoro, che nelle occasioni delle sue autorevoli mediazioni in favore di pubbliche istituzioni.