Precisazioni e nuove proposte sul passaggio di Guido Reni a Roma.

di Massimo FRANCUCCI

Solitamente sono gli anni di formazione di un pittore, quelli in cui si pongono le basi per l’attività matura, a rivestire il maggior interesse per gli studiosi ai quali rivolgono i quesiti più complessi, una situazione aggravata spesso dalla carenza di riferimenti documentari precisi tanto da doversi affidare quasi completamente alle fonti secondarie quando disponibili.

Guido Reni non fa eccezione avendo avuto un apprendistato abbastanza travagliato, iniziato come molti dei suoi colleghi felsinei presso la fucina di Denis Calvaert nella quale l’insegnamento era rigoroso ma pedissequo al punto da sfruttare o tarpare le ali agli allievi più talentuosi tra i quali figurava ovviamente anche Guido. Fuggitone appena possibile, e incamminatosi sulla via indicata dall’Accademia dei Carracci, il pittore vi si era ben presto messo in luce, tanto da fare paura allo stesso Annibale, a voler dar credito al racconto di Malvasia, che notoriamente aveva una predilezione particolare per Reni:

“Non gl’insegnar tanto a costui, non gl’insegnar tanto, che un giorno ne saprà più di tutti noi. […] Raccordati, Ludovico, che costui un giorno ti vuol far sospirare”.

Una profezia presto realizzatasi, se è vero che in occasione del passaggio di Clemente VIII a Bologna, fu proprio Guido a ottenere la commissione delle decorazioni effimere, soffiandole a Cesi e a Ludovico stesso e sbaragliando Francesco Albani in un confronto ravvicinato. Messosi così in luce di fronte ai tanti cardinali presenti, Reni si sarebbe trasferito a Roma un paio di anni dopo accompagnato dallo stesso Albani, iniziando il rapido cursus honorum che lo avrebbe portato a breve a guadagnarsi la nomea di divino. L’interesse verso questi primi anni romani è stato rinnovato ultimamente dall’emersione di due paesaggi, accomunati da una volontà quasi miniaturistica e da una provenienza illustre, ma profondamente diversi per tematica e timbro cromatico. Si tratta degli Amorini in gioco provenienti dalla collezione Farnese (fig. 1) [1],

fig. 1 Guido Reni, Amorini in gioco, Collezione privata

di recente esposti presso il museo civico di Rimini, e della Danza campestre tornata nelle raccolte “Borghese” (fig. 2), nelle quali era presente almeno dal 1620 e che sarà a breve protagonista di una esposizione dedicata[2].

fig. 2 Guido Reni, Danza campestre, Roma, Galleria Borghese

Se la pittura bolognese aveva in sé tutte le caratteristiche per dare vita a questi due ‘paesi’, vi si può allo stesso tempo registrare, soprattutto negli Amorini, un primo riflesso dell’arte romana che certamente influenzò il pittore e lo indirizzò verso le sue creazioni più idealizzate.

In questa occasione si vuole ritornare su una riflessione già accennata in precedenza [3], che prendendo spunto da una nota di Lorenzo Pericolo [4] rimescola le carte sulla questione dell’arrivo di Guido Reni a Roma, tramandatoci da tre fonti storiografiche principali che annoverano, oltre al già citato Malvasia, anche Bellori e Passeri. Il canonico bolognese[5], si sa, era molto più preciso sui fatti felsinei rispetto a quelli avvenuti lontano dalle due torri: egli inserisce la chiamata a Roma sulle coordinate dei rapporti tra il cardinale Facchinetti e lo Sfondrato, presso i quali il pittore si era fatto apprezzare quale abile copista della Santa Cecilia di Raffaello [6].

I due porporati avevano toccato con mano le qualità artistiche di Guido essendo presenti alle già citate celebrazioni avvenute durante il passaggio di Clemente VIII a Bologna al ritorno da Ferrara in occasione della devoluzione del ducato estense (1598). Bellori e Passeri dal canto loro ricordano che il pittore, insieme a Francesco Albani e, in seguito, a Domenichino, furono ospitati nel monastero di Santa Prassede, secondo Passeri dal cardinale titolare, mentre per Bellori fu Sfondrato, in quanto protettore dei Vallombrosani, ad allocarveli. Sebbene ciò sia stato ripetuto a iosa, il nipote di Gregorio XIV non aveva la cura dei Vallombrosani[7], bensì degli Olivetani. E dunque come poteva dare ospitalità ai giovani artisti a Santa Prassede che è affidata ai Vallombrosani fin dal 1198?

fig. 3 Ottavio Leoni, Il Cardinale Antonio Maria Gallo, Berlino, Kupferstichkabinett, Staatliche Museen zu Berlin

Volendo continuare a credere che sia stato lui l’artefice della chiamata dei due pittori a Roma, probabilmente ha fatto affidamento sul cardinale titolare ossia Antonio Maria Gallo da Osimo (Fig. 3), volitivo esecutore dei dettami tridentini e amico personale di Sisto V, cosa che gli aveva permesso di divenire protettore della Santa Casa, vescovo di Osimo e, appunto, cardinale fino alla carica di decano del Sacro Collegio. Purtroppo non possiamo ancora affermare con certezza che Antonio Maria fosse a Bologna nel 1598: sicuramente presente a Ferrara, ospite del vescovo Giovanni Fontana [8], il suo nome, tra quelli dei  porporati recatisi nella città felsinea, può essere confuso con il quasi omonimo Tolomeo Galli. Lì, come detto, erano sicuramente accorsi Facchinetti e Sfondrato, il cui abboccamento con Guido poteva essere stato favorito dagli Olivetani bolognesi per i quali, per l’esattezza per l’abate Placido Fava, il pittore aveva realizzato in una data vicina al 1596 la Visione di Sant’Eustachio, ora in palazzo Durazzo Pallavicini a Genova, ma destinata inizialmente a quella stessa chiesa di San Michele in Bosco[9] il cui chiostro vedrà al lavoro Reni nel 1604, questa volta sicuramente sotto la supervisione del cardinale di Santa Cecilia, per volere del quale la martire trasteverina fu inclusa nelle decorazioni.

Resta il fatto che Sfondrato non avesse alcuna autorità su Santa Prassede, al contrario di Gallo, del quale studi recenti hanno messo in luce i rapporti con Guido che per lui ha realizzato almeno due pale destinate a Osimo, ossia un Cristo in Pietà adorato dai protomartiri Tecla, Vittore e Corona, e da San Diego D’Alcalà per il duomo, voluto per commemorare l’arrivo in città della preziosa reliquia della Sacra Spina[10] e una Trinità per la chiesa omonima (figg. 4-5)[11].

fig. 4 Guido Reni, Cristo in Pietà adorato dai protomartiri Tecla, Vittore e Corona e da San Diego D’Alcalà, Osimo, Duomo
fig. 5 Guido Reni, La Trinità, Osimo, Chiesa della Trinità

Questa pala presenta in basso il ritratto del cardinale e si era resa necessaria dopo che l’altare maggiore era stato considerato poco decoroso, cosicché nell’agosto 1604 la “nova cona” era pronta e messa in opera in un paio di mesi[12], data che viene a coincidere così con la presenza di Guido Reni a Loreto nell’ottobre dello stesso anno.

Gallo, gravemente malato, lo aveva inviato alla Santa Casa per verificare in sua vece l’opera di Lionello Spada al quale fu dato il benservito, chiaramente su indicazione di Guido[13].

Se la Trinità è coerente con questa datazione, la pala del duomo la precede sicuramente e, grazie ai suoi rimandi alla tela di Pieve di Cento del 1599, appare contemporanea, se non precedente, al ciclo ceciliano realizzato per lo Sfondrato. Quest’ultimo si potrebbe essere rivolto al collega marchigiano perché indecoroso ospitare i giovani pittori a Santa Cecilia, dal momento che sono le monache benedettine ad animarne il monastero fin dal 1527, anche se è più semplice spiegare tale scelta con una vicinanza tra i due cardinali più stretta di quanto ipotizzato finora. Erano infatti accomunati per gusto e sensibilità religiosa e alla ricerca di un giovane pittore di talento che potesse dare vita al loro immaginario spirituale legato alla Chiesa delle origini e al pieno rispetto del rigore controriformista.

Guido Reni si rivelò una scelta molto appropriata, grazie alla sua capacità di ripensare gli aulici modelli raffaelleschi in modo da dare nuova linfa alla raffigurazione dei protomartiri al cui culto, i due erano indirizzati dalle comuni frequentazioni oratoriane per cui, se uno venerava Santa Cecilia e Sant’Agnese, l’altro esaltava Tecla, Vittore e Corona affidando loro ruoli da protagonisti nella pala della Sacra Spina di Osimo.

Due volte Sfondrato fu nella cittadina marchigiana: nel 1592 allorché Gallo volle una speciale celebrazione per il suo arrivo, con giubilo e fuochi d’artificio[14] e il 16 settembre 1613 quando Paolo Emilio fu ospite dell’osimano; poco prima lo era stata Olimpia Aldobrandini (4 maggio) e poco dopo invece sarebbe stato il cardinale Giustiniani a soggiornarvi (il 6 di ottobre), lui sì protettore dei Vallombrosani negli anni della permanenza di Guido Reni.

fig. 6 Colonna della Flagellazione, Roma, Basilica di Santa Prassede

In una lettera del 22 aprile 1599 Sfondrato menzionava Gallo [15], il quale il 22 novembre successivo fu certamente tra i testimoni della solenne cerimonia in cui Clemente VIII depose le spoglie incorrotte della martire nella cripta di Santa Cecilia in Trastevere[16].

Oltre a rafforzare il ruolo svolto dal cardinale Gallo nei primi anni romani di Guido Reni, la sua presenza a Santa Prassede conduce poi a una ulteriore precisazione data la presenza nella basilica esquilina della reliquia della ‘Colonna della Flagellazione’, proveniente da Gerusalemme e portata a Roma nel 1223 dal cardinale Giovanni Colonna come il bene più importante della Terra Santa e oggi incastonata in una pregevole struttura bronzea progettata da Duilio Cambellotti accanto al sacello di San Zenone (fig. 6).

Divenuta subito celeberrima, la si vede precisamente raffigurata nel Cristo alla colonna di Guido Reni, conservato dallo Städel Museum di Francoforte (fig. 7), istituto che di recente ha fatto suo un bel rametto giovanile dello stesso pittore (fig. 8).

fig. 7 Guido Reni, Cristo alla colonna, Francoforte, Städel Museum
fig. 7 bis Guido Reni, Cristo alla colonna, Francoforte, Städel Museum (particolare).

Se fin qui si era ipotizzato che il Cristo alla colonna fosse una commissione del cardinal Sfondrato sulla base dei suoi legami col pittore e con la chiesa di Santa Prassede, bisognerà a questo punto virare quanto detto in favore di Antonio Maria Gallo, che aveva gli stessi rapporti con Guido Reni ed era titolare di quella chiesa.

La pala ora in Germania mostra quella peculiare congerie stilistica che vide il pittore bolognese aggiungere alla formazione carraccesca e alla meditazione sulla pittura tardomanierista di Baglione, d’Arpino e Pomarancio, una infatuazione caravaggesca che sarebbe culminata nella Crocifissione di San Pietro Aldobrandini. Alla stessa fase appartiene la Trinità di Osimo, un ulteriore elemento che contribuisce a fare del Gallo il principale indiziato a essere il committente anche del Cristo alla colonna.

Massimo FRANCUCCI  Roma 19 dicembre 2021

NOTE

[1] F. Gatta, Guido Reni e Domenichino: il ritrovamento degli “Scherzi di amorini” dai camerini di Odoardo e novità su due paesaggisti al servizio dei Farnese, in “Bolletino d’Arte”, 7 ser., 33-34, 2017, pp. 131-144; M. Pulini, Guido Reni e i suoi amori in gioco, 2019, Milano-Pesaro.
[2]  P. Matthiesen, Guido Reni. The ‘Divine? Guido: a trio. A Genre Scene with a Country Dance or Fete Champetre: A Portrait of Camillo Borghese: St. John the Evangelist, Londra, 2017.
[3] M. Francucci, Il cardinale Antonio Maria Gallo tra Rinascimento e Modernità, in “The Art Master”, maggio-giugno 2020, pp. 152-161.
[4] L. Pericolo, in Carlo Cesare Malvasia. Felsina pittrice. A critical edition and annotated translation, IX, Life of Guido Reni, Critical edition, translation, and essay by L. Pericolo; historical notes by L. Pericolo, with E. Cropper, S. Albl, M. Biffis, and E. Ferone; corpus of illustrations established by L. Pericolo, with M. Biffis and E. Ferone, Washington, 2019, p. 247.
[5] C.C. Malvasia, Felsina Pittrice, 1678, ed. 1841, II, pp. 13 e 151.
[6] Sulla copia dalla Santa Cecilia e la sua identificazione con l’esemplare a Dublino si rimanda a H. Economopoulos, Copiare Raffaello: il cardinale Sfondrati, Reni e le due versioni dell’Estasi di Santa Cecilia, in Principi di Santa Romana Chiesa, Cardinali e l’Arte 1, “Quaderni delle giornate di studio, Roma 4 marzo 2013”, a cura di M. Gallo, Roma 2013, pp. 43-56. Nella biografia manoscritta Malvasia indugia nell’incertezza su chi tra i due cardinali, Facchinetti o Sfondrato avesse commesso la copia a Reni, per poi propendere per il primo, nella versione a stampa.
[7] L. Pericolo, in Carlo Cesare Malvasia. Felsina pittrice. A critical edition and annotated translation, IX, Life of Guido Reni, Critical edition, translation, and essay by L. Pericolo; historical notes by L. Pericolo, with E. Cropper, S. Albl, M. Biffis, and E. Ferone; corpus of illustrations established by L. Pericolo, with M. Biffis and E. Ferone, Washington, 2019, p. 247.
[8] Z. Wazbinski, Il cardinale Francesco Maria Del Monte (1549-1626). Mecenate di artisti, consigliere di pontefici e di sovrani, Firenze, 1994, p. 151.
[9] M.C. Terzaghi, Caravaggio, Annibale Carracci, Guido Reni tra le carte del banco Herrera & Costa, Roma, 2007, p. 173. Il cardinale milanese allegava anche uno scritto dell’osimano, di cui non è purtroppo noto il contenuto.
[10] Celebrata dalle fonti più antiche – “admirabili pictura ornato” descrive l’altare qualche anno dopo Flaminio Guarnieri – aveva da tempo perso traccia del riferimento al pittore bolognese prima di essergli restituita da Daniele Benati, al quale l’avevo segnalata. D. Benati, Per Guido Reni ‘incamminato’, tra i Carracci e il Caravaggio, in “Nuovi studi”, 11, 2005, pp. 231-247, in part. 240. M. Francucci, in Da Rubens a Maratta. Le Meraviglie del Barocco nelle Marche 2. Osimo e la Marca di Ancona, a cura di V. Sgarbi, Milano, 2013, p. 202 n. 67; N. Falaschini, in L’eterno e il tempo tra Michelangelo e Caravaggio, catalogo della mostra a cura di A. Bacchi, D. Benati, A. Paolucci, P. Refice, Cinisello Balsamo, 2018, p. 410, n. 138.
[11] D. Benati, Per Guido Reni ‘incamminato’, tra i Carracci e il Caravaggio, in “Nuovi studi”, 11, 2005, pp. 231-247; M.C. Terzaghi, Caravaggio, Annibale Carracci, Guido Reni tra le carte del banco Herrera & Costa, Roma, 2007, p. 169, p. 315; M. Francucci, in Da Rubens a Maratta. Le Meraviglie del Barocco nelle Marche 2. Osimo e la Marca di Ancona, a cura di V. Sgarbi, Milano, 2013, p. 203 n. 68.
[12] Archivio Diocesano Osimo, S.ma Trinità, Congregazioni, Compagnia del s.mo Sacramento. c. 100. “Al nome d’Iddio Addi XV di Ag.to 1604. […] Prima si propone che stante la nova cona fatta nell’altare magg.re della Chiesa della s.ma Trinità fatta con tanta spesa et belliss.o artifitio et l’offerta che s’intende fatta dal Ill. s.r Ciriaco Gallo et sicurezza che dà che tra due mesi sarrà dorata et l’obligo nro di ornarla competen.te ad honore et laude del s.mo Sac.to, essendo necess.o haverla in baldachino corispondente à tanto artifitio si propone quod agendo largo modo.”.
[13] 24 ottobre 1604. “Messer Aurelio Palma depositario […] e più pagate al ser Lionello Spada scudi quaranta per essere venuto da Bologna aposta e per tornare a Bologna per causa di dipingere la sagrestia con la presentia del signor Guido Reno pittore venuto di Roma a tal’effetto mandato dall’ill.mo et rev.mo signor cardinale Gallo protettore. Scudi 40”. Grimaldi, Sordi, “Pittori a Loreto”, 1988, pp. 100-101; 113-114. Si veda M. Francucci, “Tra Guido Reni e il Pomarancio: la committenza del cardinale Antonio Maria Gallo a Osimo e Loreto”, in “Da Rubens a Maratta. Le Meraviglie del Barocco nelle Marche 2. Osimo e la Marca di Ancona”, a cura di V. Sgarbi, Cinisello Balsamo, 2013, pp. 39-45.
[14] Archivio Storico Comunale Osimo, Riformanze, vol. 45 (1588–1596), cc. 175v, 176, 28 febbraio 1592. “6 Super adventu Ill.mi et R.mi D.ni Card.lis Sfondrati in Hanc Civitatem Ill.mus et R.mus D.nus Car.lis Perusiae huius civitatis civis et episcopus ordinavit eum recipi, et hospitari in Palatio episcopali, et cupit a communitate honorari. […]. Super sexta. Ch’i sig.ri dell’uno et dell’altro Magistrato per la venuta dell’Ill.mo S.or Car.le Sfondrato habbiano autorità di fare tutte quelle honorate demostrationi, che li pareranno convenienti con fare sparare l’artellarie, sonare le campane, mandare ad incontrarlo, et fare ogn’altro segno di osservanza et d’allegrezza, et delle spese sene possano fare le bollette”.
[15] M.C. Terzaghi, Caravaggio, Annibale Carracci, Guido Reni tra le carte del banco Herrera & Costa, Roma, 2007, pp. 169, 418. Si trattava di una lettera indirizzata a monsignor Boccarini.
[16] D. Bartolini, Gli atti del martirio della nobilissima vergine romana Santa Cecilia, Roma, 1867, p. 139.