Novità su Agostino Melissi: un inedito disegno e altre restituzioni delineano la figura di un artista di primo piano del ‘600 fiorentino

di Franco POZZI con PDF

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AGOSTINO MELISSI, studiosissimo Pittore.

In memoria di Maurizio Balena.

La Storia dell’Arte è come un paesaggio notturno, con zone in piena luce e altre immerse nel buio più impenetrabile, che attendono le illuminazioni di studiosi e appassionati. Intere o parziali porzioni di questo paesaggio vengono periodicamente rischiarate. Documenti di archivio (elementi fondamentali, che precedono e talvolta confermano le intuizioni degli storici dell’arte) trovano riscontro in un disegno o in un dipinto che si credevano smarriti per sempre. Artisti negletti riacquistano una notorietà persa in secoli di dimenticanza.

Nel 1978 Agostino Melissi (1) era solo un nome. Un pittore senza quadri, caduto in un oblio quasi completo.

La sua memoria era strettamente connessa a qualche documento d’Archivio e ad una illustre testimonianza biografica.

È grazie agli studi, susseguitisi a partire da quell’anno, di C. Pizzorusso, A. Petrioli Tofani, Miles Chappel, S. Prosperi valenti Rondinò, R. Contini, C. Mombeig Goguel, G. Pagliarulo, A. Matteoli se la sua personalità è stata riesumata dal deserto di conoscenza nel quale si trovava e ha acquisito una fisionomia definita, un corpus considerevole di disegni (soprattutto) e dipinti, che va sempre più rimpinguandosi.

Di probabile origine laziale, nato tra il 1615 e il 1616, Melisi, come si firma in alcuni documenti autografi e della cui vita esistono poche notizie, viene citato ancora in vita (‘che vive al presente’) dal biografo Baldinucci (2) come allievo dapprima di Remigio Cantagallina, poi nel 1631 di Matteo Rosselli (maestro questo di pittori di assoluto rilievo come Giovanni da S. Giovanni, Domenico Pugliani, Francesco Furini, Jacopo Vignali, Lorenzo Lippi, Il Volterrano). Dopo tre anni, gli anni della peste, nella più vivace bottega di Firenze nel 1634, e fino al 1644, diventa allievo di Giovanni Bilivert, col quale completa il suo apprendistato.

Sfogliando il catalogo della straordinaria mostra sul Seicento fiorentino (3) del 1986-87, momento cruciale non solo per la rivalorizzazione di un secolo di grande pittura fiorentina (troppo frettolosamente e ingiustamente liquidata in passato come un periodo di decadenza), ma anche per la ricostruzione ad opera di Roberto Contini della biografia e dell’opera del pittore, che contava alcuni disegni ed un solo dipinto del nostro, si percepisce già la caratura e la personalità di Melissi. Il quale fu uno dei migliori allievi di Bilivert, o Biliverti, come veniva chiamato questo artista fiorentino di nascita ma di padre olandese (anch’egli pittore), e allievo di Ludovico Cardi detto il Cigoli. Il maestro, colpito nell’ultimo periodo della sua esistenza da grave infermità, che non gli permetteva se non con grandi sforzi lunghe sedute di lavoro, chiedeva all’allievo di eseguire numerosi disegni preparatori e di condurre sotto la sua guida gli abbozzi dei quadri, ai quali apportava le ultime correzioni e che firmava come suoi. Alla morte di Bilivert, nel 1644, Agostino ricevette il testimone della sua bottega e fu incaricato di terminare molti dipinti non finiti dal maestro, modificandoli spesso in maniera significativa.

Questo studiosissimo Pittore Fiorentino ha più disegnato, che dipinto, ed infatti i suoi disegni sono in grande stima. È morto circa gli anni 70.”

Queste le parole di elogio del Baldinucci che definiscono, nel suo Abecedario Pittorico (4), l’opera di Melissi, disegnatore inquieto ed estroso, dal segno ora saturnino e sciolto, ora indagatore e realistico. La sua data di morte non è certa, ma deve essere non troppo distante dall’11 marzo 1683, nel quale il nostro pittore risulta sepolto nella chiesa del monastero delle Murate (ex convento benedettino della Ss. Annunziata), come rilevato da Anna Matteoli (5).

fig 1Manifattura medicea, Mosè spezza le tavole della legge, arazzo da cartone di Agostino Melissi, Firenze, Uffizi.

Fondamentale, per la ricostruzione del suo percorso, perché ne costituisce un elemento importantissimo, la collaborazione, iniziata nel 1647 e terminata nel 1674, con l’Arazzeria Medicea (6), alla quale forniva disegni a tempera per la realizzazione degli arazzi da parte delle maestranze della manifattura (fig. 1) che non risultano sempre all’altezza delle raffinatezze e della qualità dei cartoni.

Questa attività, assai più documentata del suo lavoro pittorico, ha permesso di restituirgli con certezza alcuni disegni preparatori precedentemente ritenuti autografi di Cigoli, Gabbiani, e dello stesso Bilivert, dando avvio al recupero della sua opera.

Scorrendo il catalogo di una ventina di dipinti restituiti in questi trent’anni a Melissi, egli dimostra influenze più complesse del solo imprinting del suo maestro, pur muovendosi nel solco da lui creato e avendo assorbito a tal punto i suoi modi da rasentare, soprattutto nei quadri realizzati durante la sua permanenza in bottega, la mimesi. Ma indugiando in maniera del tutto personale sul dato naturalistico, privilegiato rispetto all’innegabile impianto manieristico del caposcuola. In una sintesi da artista capace di assimilare diverse suggestioni, non solo toscane, e di restituirle in uno sguardo personale.

fig 2 Agostino Melissi, Deposizione, Parigi, Galleria Sarti.

Nel 2008, nell’asta Tajan 8916 del 16 dicembre, è emerso un quadro fondamentale per precisare l’attività del pittore alle soglie della sua maturità artistica e assai rilevante per tutto il seicento toscano. Una Deposizione (fig. 2), intensamente ed intimamente devozionale, uno splendido manifesto della pittura controriformata (7) fiorentina, che porta sul retro una scritta autografa:

“167 FU FATTO NEL TEMPO. Che..SER°. PRINPE. MEDICI DI LEOPOLDO. LANNO 1647. Che. ERA: Governatore. E PRORE. FRANCO RUCELLAI. FATTO DA AGOSTINO MELISI 1647.

Curiosamente compressa all’interno della griglia imposta dal committente (funzionale al luogo per il quale era stata concepita) che costringe le figure ad inscriversi nel suo perimetro, la scena si svolge, aderendo perfettamente allo spirito che muoveva la Confraternita, rischiarata dalla luna che definisce in alto a destra il profilo di alcune nuvole, e con un netto contrasto tra luce e ombra per rendere l’atmosfera di lume di sottinsù citata da Baldinucci. San Giovanni, Gesù deposto, Maria con le braccia aperte, gli strumenti della passione sulla tavola coperta da un lenzuolo bianco. Il quadro è tutto tenuto da questi pochi essenziali elementi iconografici.

Menzionato sempre dal Baldinucci nelle sue Notizie dei professori del disegno da Cimabue in qua il dipinto (che giustifica anche le doti di ‘ottimo coloritore’ attribuite a Melissi dal biografo), noto prima del suo ritrovamento solo attraverso una foto, venne commissionato ad Agostino dal futuro cardinale Leopoldo de’ Medici, allora governatore della Confraternita di S. Paolo di Notte, una delle quattro istituzioni religiose laiche notturne di Firenze (8).

Del 1646 dipinse un Cristo morto, Maria Vergine e San Giovanni fatti col lume di sottinsù: quadro, che nel tempo quaresimale sta sempre esposto sull’altare della compagnia di San Paolo, fecelo per ordine del serenissimo principe poi cardinale Leopoldo” (9).

La Pietà di Agostino va a compensare le lacune legate alla conoscenza del ciclo pittorico commissionato dalla confraternita a sette pittori fiorentini, inaugurato il 24 gennaio 1633 e composto da nove dipinti che rappresentano scene della vita di S. Paolo, molti dei quali sono stati rintracciati da Pagliarulo. Nell’archivio della Compagnia si trovava anche un documento autografo relativo al nostro dipinto, dimenticato per più di tre secoli:

“Addì 26 Agosto 1647 Io, Agostino Melisi, ho ricevuto il sig.re Francesco Rucellai, proveditore della compagnia di S. Pavolo di Notte, duchati venti per havere fatto una Pietà con la Vergine e San Giovanni che lo reggie il Cristo morto per sotto al’altare della nostra Compagnia et in fede dell’vero io Agostino sopradetto […] un’ de fratelli di detta Compagnia di mia propria mano scudi 20”.

La data di esecuzione del quadro, rispetto a quella citata dal Baldinucci, subisce quindi un leggero spostamento in avanti, a prima dell’agosto 1647.

Il riemergere dell’importantissimo dipinto, acquistato dall’antiquario Sarti di Parigi, è stato nel 2010 l’occasione per una puntuale e circostanziata pubblicazione a cura di Giovanni Pagliarulo e Roberto Contini (10), utile per fare il punto degli studi sull’opera del nostro pittore, e dove la sua genesi è stata precisata da una serie di confronti puntuali con fogli sparsi in alcune delle più importanti raccolte pubbliche, che si supponeva facessero parte del corredo di studi del dipinto e che,  dopo la riscoperta della tavola parigina, hanno trovato conferma alle precise intuizioni degli studiosi.

L’illustrissima commissione deve avere evidentemente costretto Melissi ad una consistente mole di fogli preparatori, della quale è probabile che il numero oggi conosciuto sia solo una parte. Non è da escludere che ne possano apparire ancora diversi, legati ad una delle più importanti commissioni eseguite dal nostro petit-maÎtre.

In questa sede si vuole accennare ad un bellissimo disegno (fig. 7) legato alla prestigiosa commissione medicea, riapparso qualche anno fa.

fig 7 Agostino Melissi, Studio per la Deposizione, collezione privata.

Rimasto per quarant’anni come anonimo maestro nella collezione personale di un grande antiquario riminese, Maurizio Balena, nel 2011 è stato riconosciuto dallo scrivente come studio per la Deposizione di Melissi, e nel 2016 pubblicato da Giulio Zavatta (11). Misura cm. 22×29,5, vanta in alto a sinistra un marchio di importante collezione, quella del restauratore, antiquario e collezionista di disegni Luigi Grassi (1858-1937), e non ha filigrana.

fig 3 Agostino Melissi, Studio per la Deposizione, Copenaghen, Museo.

Come il veloce schizzo del museo di Copenaghen (fig. 3), anche il nostro foglio presenta il Cristo (alla cui figura è stato comprensibilmente dedicato il maggior numero di varianti) sorretto da san Giovanni, che nella versione definitiva del dipinto acquisterà una compressione del torace ancora più spinta e drammaticamente realistica, per rendere l’abbandono dal corpo di ogni energia vitale. Particolare del tutto inedito fino al 2008, uno studio a due colori (creta nera e rossa, tipiche del pittore come si desume dal confronto con altri disegni) della testa della Madonna (fig. 9), pressoché sovrapponibile a quella dipinta nella tela (fig. 10), che arricchisce significativamente la serie.

Questo importante documento si aggiunge ad un disegno del corpo e della testa di Cristo conservato al Louvre (fig. 4-5)

fig 6 Agostino Melissi, Studio per la testa di Cristo, Firenze, GDSU.

ad un altro, sempre per la testa di Gesù (nonostante presenti la tipica tonsura da frate dei capelli, Pagliarulo lo riconduce giustamente alla nostra Deposizione), conservato al Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi (fig. 6), e ad uno studio approfondito delle gambe, delle mani e del perizoma sempre di Cristo, conservato nel museo di Harvard (fig. 8), con precedente attribuzione a Carlo Dolci.

Dimostra inoltre caratteri similissimi ad uno dei fogli per la Maddalena De’ Pazzi chegira il volto davanti al giovane lascivo (fig. 11), conservato all’Albertina di Vienna

fig 11Agostino Melissi, Studio per la Maddalena De’ Pazzi che gira il volto al giovane lascivo, Vienna, Albertina.

(attribuito in passato a Cristofano Allori), dove Melissi caratterizza il volto della santa (come peraltro quello della Madonna del nostro disegno) con una minuzia di particolari che restituisce precisamente le sembianze di un modello reale, non un’immagine stereotipata.

Nel contesto di un omaggio dichiarato all’indimenticato comune amico Maurizio, pubblico con particolare piacere una segnalazione di Massimo Pulini relativa ad un dipinto (fig. 12) attribuito erroneamente a Jacopo Vignali, e che può invece essere ricondotto in via dubitativa alla versatile attività pittorica di Agostino.

fig 12

La quale, non ancora delineata in maniera certa (presentando una evidente matrice toscana) risulta, dalle prove fino ad ora ascritte alla sua mano, votata ad una estrema sperimentazione.

Il quadro, un San Lorenzo di collezione privata, ha curiose assonanze con un altro

fig 13

disegno del museo di Harvard (fig. 13), attribuito precedentemente a Matteo Rosselli e ultimamente a Melissi (anch’esso in maniera dubitativa). La torsione del busto e il volto reclinato all’indietro richiamano quelle del S. Lorenzo del dipinto, e potrebbero costituirne uno studio per giungere (per approssimazioni successive) alla posa definitiva. Anche la temperie emotiva, di grande trasporto e sensualità tra il disegno e il dipinto, risulta similare.

Da trent’anni a questa parte il tempo, grande scultore, sta risarcendo Agostino Melissi dall’oblio nel quale è stato immerso per secoli. C’è ancora molto da trovare, diversi quadri citati precisamente da Baldinucci, che poteva avvalersi della testimonianza diretta del pittore, mancano all’appello. Altri disegni e dipinti, non menzionati nelle carte d’archivio, si aggiungeranno per assonanza stilistica.

Agostino attende, forse inquieto, ma sicuro dei suoi mezzi.

Franco POZZI

  • 1 Agostino di Andrea di Pietro (o Piero) di Giovanni Maria Melissi (o Melisi) il suo nome completo, che non è presente nei Registri dei Battezzati del decennio 1610/20 consultati da Anna Matteoli, e che fu iscritto nel ruolo dei Cittadini Fiorentini solo il 19 luglio 1662. Questa considerazione porta a pensare che Melissi sia nato fuori Firenze.
  • 2 Filippo Baldinucci (Firenze, 1624-1697) storico dell’arte, pittore e politico. Fu incaricato da Leopoldo de’ Medici di ordinare la raccolta dei disegni del futuro cardinale, costituendo il primo nucleo dello sterminato patrimonio legato al Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi. Baldinucci, grazie a questo incarico, divenne uno dei più importanti conoscitori di primi pensieri d’Europa, distinguendosi per le novità apportate nella loro organizzazione e catalogazione.
  • 3 Il seicento fiorentino. Arte a Firenze da Ferdinando I a Cosimo III. Editore Cantini, Firenze, 1986.
  • 4 Filippo Baldinucci, Abecedario Pittorico, Napoli, 1763, pag. 45.
  • 5 In Paragone 353, 1979.
  • 6 Detta anche Arazzeria fiorentina e Arazzeria Granducale, nata per volontà di Cosimo I de’ Medici, che nel 1546 chiamò a Firenze (città con una secolare tradizione nell’ambito della tessitura della seta e della lana) due maestri fiamminghi, Nicola Karcher e Jan Rost. Per l’Arazzeria lavorarono grandi pittori fiorentini: Pontormo, Bronzino, Alessandro Allori, Francesco Salviati. Tra i suoi direttori, Alessandro Rosi e, a metà del seicento, Jean van der Straet, dello Lo Stradano. L’Arazzeria chiuse i battenti definitivamente nel 1738, dopo la morte di Gian Gastone de’ Medici, settimo Granduca di Toscana. Il suo successore Francesco I di Lorena chiuse tutte le botteghe e licenziò gli arazzieri, che si trasferirono in massa a Napoli.
  • 7 Dopo gli eccessi, le deformazioni, le sofisticatezze del manierismo, la Chiesa sentì la necessità di una sterzata nella rappresentazione delle immagini sacre, che venne ufficializzata durante il concilio di Trento, nel periodo 1545-1563. Il Discorso intorno alle immagini sacre e profane del cardinale bolognese Gabriele Paleotti (1582) giungendo in soli due tomi dei cinque previsti (quindi in una forma assolutamente provvisoria), e successivamente alle Instructiones Fabricae et Supellectilis ecclesiasticae di San Carlo Borromeo (del 1577), dove sono fornite disposizioni precisissime sulla costruzione e sugli apparati iconografici degli edifici di culto, ne risulta complementare, trattando molto più approfonditamente l’aspetto della realizzazione delle immagini sacre. La pittura della Contririforma si fonda sul ritorno ad immagini aderenti alle sacre scritture, che costituiscono la cosiddetta Biblia Pauperum, con una secolare funzione didattiche a favore degli incolti.
  • 8 La Compagnia, della quale Melissi era confratello (forse per un genuino sentimento religioso, forse come strategia per ottenere commissioni prestigiose), ‘era infatti una delle quattro ‘Buche’ esistenti a Firenze, luoghi di preghiera antichi di due secoli, in cui le devozioni notturne in essi praticate riportavano ai tempi gloriosi e lontanissimi dei primi cristiani’, come ci informa Giovanni Pagliarulo (Paragone, n. 471, 1989, pag.52). La Confraternita commissionò a sette importanti pittori fiorentini (Giovan Battista Vanni, Ottavio Vannini, Jacopo Vignali, Lorenzo Lippi, Matteo Rosselli, Cesare Dandini, Baccio del Bianco) una serie di dipinti sulla vita di S. Paolo, pagati da altrettanti membri della Congregazione che ne rimanevano i legittimi proprietari, e ne permettevano l’esposizione temporanea nei locali della Buca in particolari occasioni, come quel 24 gennaio 1633, vigilia della conversione di S. Paolo. Il dipinto di Agostino (commissionatogli dal proveditore Francesco Rucellai) andava, dopo quattordici anni, a completare la serie iconografica legata al santo dal quale la Confraternita prendeva il nome.
  • 9 Filippo Baldinucci, Delle notizie dei Professori del Disegno da Cimabue in qua, Firenze, 1772, pag. 56.
  • Pagliarulo e R. Contini, La Pietà per Leopoldo de’ Medici (1647), Parigi, Galleria G. Sarti, 2010.
  • 10 Nella mostra Profili del mondo, nell’ambito della Biennale del Disegno di Rimini del 2016, a cura di Alessandra Bigi Iotti, Marinella Paderni, Massimo Pulini, Giulio Zavatta (catalogo NFC, scheda 57, pag. 184).