di Mario URSINO
Inquietudine e psicologia nei ritratti di Lorenzo Lotto e di Giovanni Carnovali, detto il Piccio
Diversi anni fa, in una lezione nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna, per l’appuntamento domenicale nell’ambito della serie “Il Tema della Domenica” (24 giugno 2001), illustrai i tre ritratti del pittore lombardo Giovanni Carnovali, detto il Piccio (Montegrino Valtravaglia 1804 – Cremona 1873), allora esposti in una delle sale del museo dedicata alla pittura romantica italiana. I tre dipinti, Ritratto d’uomo in atto di scrivere, 1840-1843c., Ritratto del padre del basso Marini, 1843, Ritratto della madre del basso Marini, 1843, [figg.1-2-3], furono poi pubblicati nel Catalogo della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, vol. II, XIX secolo, Milano 2006, e schedati alle pagine 137-138.
Melomane, il Piccio, ebbe grande interesse per la musica lirica, e a Milano, dove si stabilì nel 1836, poté frequentare molti personaggi del mondo teatrale, letterario e artistico molto sensibili alla lirica, soprattutto gli artisti della Scapigliatura (Cremona, Ranzoni, Grandi), di cui l’artista è giustamente considerato un precursore. Il Carnovali risentì delle suggestioni sull’unità delle diverse forme d’arte (visive, musicali, letterarie) teorizzate dal Rovani. “Il teatro in musica nel quale interagiscono varie professionalità appariva quasi il simbolo di queste sinestesie […]” (Bossaglia, 1995). E dei numerosi personaggi della lirica del tempo il Piccio fu il maggiore ritrattista, da Rosa Mariani, a Elisa Barozzi Beltrami, al cantante Ignazio Marini [fig. 4], di cui esiste un ritratto eseguito tra il 1838-39 e conservato a Milano nel Museo del Teatro della Scala, a Gaetano Donizetti e alla famosa soprano spagnola Felicita Malibran che proprio alla metà degli Anni Trenta si esibiva al Teatro della Scala di Milano nella Norma, nell’Otello e nel Barbiere di Siviglia (cfr. Catalogo ragionato dell’opera di Giovanni Carnovali di Pierluigi De Vecchi, Milano 1998). Ma con la famiglia Marini, il Piccio ebbe un rapporto speciale, essendo amico del basso Marini, e secondo notizie biografiche, anche per l’amore segreto che nutriva per la sorella del cantante, la giovanissima Margherita [fig. 5], morta prematuramente appena diciassettenne nel 1841, con grande dolore dello stesso Carnovali, come traspare dal suo Autoritratto del 1841 [fig. 6] in cui esalta il suo aspetto romantico e mostra tutta la sua ansia e inquietudine, tanto che l’ho raffrontato all’Autoritratto del 1838 [fig. 7], oggi al Louvre di un grande artista romantico francese, Delacroix, che il pittore lombardo conobbe in un suo viaggio a Parigi.
Maestro perciò della ritrattistica espressiva e psicologica in anticipo sul Novecento, mi parve di cogliere nelle sue opere il riflesso di un altro grande maestro di tre secoli prima, Lorenzo Lotto (Venezia 1480 – Loreto 1556 o 1557), che del ritratto inquieto e psicologico fu davvero un antico precursore nell’età del Rinascimento, quando il ritratto era considerato eminentemente rappresentativo e celebrativo di personaggi della storia (vedi Tiziano, Tintoretto, Veronese).
Lotto quindi, benché veneziano, preferì svolgere la sua attività a Treviso dove poteva affermare meglio la sua personalità artistica, lontano dai maestri veneziani e ponendosi al servizio del vescovo Bernardo De’ Rossi (si veda il bellissimo Ritratto di Bernardo De’ Rossi, 1505, Napoli, Museo di Capodimonte, fig. 8). Sobrio, fine umanista, il De’ Rossi era scampato due anni prima ad un attentato ordito dal patriziato di Treviso, e il ritratto lottesco fa trasparire bene nei suoi connotati somatici l’espressione di un uomo dal carattere fermo nell’aver difeso le prerogative del suo episcopato, mettendo a rischio la propria vita.
Tutta la ritrattistica di Lorenzo Lotto mira a cogliere il carattere, l’anima del soggetto, ancorché formalmente esibendo le sue grandi qualità pittoriche che rivelano ascendenze dal Bellini e dal Vivarini, antonellesche, giorgionesche e persino düreriane, ma sempre molto attento a mostrare l’aspetto interiore degli effigiati che di volta in volta fissano l’osservatore (quasi interrogandolo). Nei suoi ritratti Lotto non manca di rappresentare anche i simboli dello stato sociale dei suoi personaggi.
Così, ad esempio, nello splendido Ritratto di Lucina Brembate, 1523, Bergamo, Accademia di Carrara, nobildonna bergamasca che mostra fiera la sua condizione di donna agiata (la ricchezza dell’abbigliamento, i suoi gioielli ben in evidenza), l’artista inserisce pure un fine particolare, nello squarcio notturno in alto a sinistra, criptico-simbolico: le piccole lettere C e I all’interno della luna, che alludono al suo nome di battesimo, Lu-ci-na [fig. 9]. Ogni ritratto lottesco si caratterizza per l’intima raffigurazione di simboli, psicologia e malinconia (si rimanda all’accurata sezione Lorenzo Lotto ritrattista, a cura di Lisa Dezuanni, nella grande mostra Lorenzo Lotto, tenuta a Roma nelle Scuderie del Quirinale dal 2 marzo al 12 giugno 2011, a cura di Giovanni Carlo Federico Villa). La copertina del catalogo della mostra raffigura significativamente un particolare del bellissimo angelo [fig. 10], alla base dell’icona della Vergine tra i Santi, che “sospende” la scrittura, per un improvviso volgersi interrogativamente verso lo spettatore, nella Pala di San Bernardino, 1521, Bergamo, Chiesa di San Bernardino in Pignolo [fig. 11], opera sicuramente nota al Carnovali che nella città di Bergamo aveva iniziato, come già detto, i suoi studi all’Accademia di Carrara. E, sempre a Bergamo, il Carnovali doveva aver studiato il celebre ciclo di affreschi “sublimemente popolareschi” (Longhi, 1929) per l’Oratorio della Cappella Suardi a Trescore Balneario, commissionati al Lotto dai conti Suardi nel 1524; in codesti affreschi si cela anche il presunto autoritratto del Lotto con la civetta, simbolo della sapienza [fig. 12]; altre opere del pittore veneziano, probabilmente note al Carnovali, sono ancora oggi esposte nelle chiese della città: la Pala di Santo Spirito, 1521, nell’omonima chiesa, il Polittico di Ponteranica, 1522, nella Chiesa di San Vincenzo e Sant’Alessandro a Ponteranica, le singolari e stravaganti Tarsie del Coro, 1524, in Santa Maria Maggiore, disegnate dal lotto tra il 1524-1527 per raffigurare 33 episodi della Bibbia.
* * *
Fu Bernard Berenson, come è noto, a mettere in luce la grande personalità artistica di Lorenzo Lotto nella sua importante monografia, 1895, rivista e ripubblicata in anni successivi fino all’ultima edizione italiana curata da Luisa Vertova nel 1990. A parte i soggetti sacri e profani dipinti dal Lotto, Berenson ha scritto che
“soprattutto i ritratti […] hanno rafforzato in me l’opinione che Lotto fu forse il più importante ritrattista italiano del suo tempo […]. Quando si guarda un personaggio ritratto dal Lotto si può respirare con lui, immaginare il sapore della sua bocca, indovinare il tremito dei suoi nervi, intuire lo stato della sua mente e del suo cuore. Istantanee psicologiche? Sì, se volete mai istantanee improntate a serietà, talora a gravità, e stilizzate dall’arte; e mai comuni né tanto meno volgari, come le «messe in scena dei suoi coetanei transalpini» […]. Sapeva ritrarre gente prospera e soddisfatta […] o gente malinconica e sofferente”.
E, a proposito della malinconia, il più emblematico è sicuramente il Ritratto di giovane gentiluomo (Cristoforo Rover), 1532 [fig. 13], Venezia, Gallerie dell’Accademia; l’opera presenta tutti i simboli della caducità dell’esistenza, i petali di rose sparsi sullo scrittoio (ricorrono spesso nei ritratti lotteschi e nelle opere di devozione), l’abito rigorosamente scuro, probabilmente per un lutto o per la moda aristocratica del tempo (introdotta da Carlo V), una lettera appena aperta, un grosso volume, verosimilmente un manoscritto di famiglia in consultazione, la “sospensione” della lettura, l’espressione di meditazione di chissà quale pensiero, il ramarro, simbolo insidioso di morte e resurrezione. Ecco tutto ciò che conferisce quell’ “aura” fortemente malinconica del personaggio qui ritratto. La stupenda opera apparteneva ai conti Rovero di Treviso, e dal 1930 si trova nelle Gallerie dell’Accademia veneziana (Dezuanni, 2011). Fu dunque l’atto di “sospensione” che ravvisavo illustrando, come detto, la ritrattistica di Giovanni Carnovali nella Galleria Nazionale che mi indusse a stabilire un inedito confronto del Ritratto dell’uomo in atto di scrivere (v. fig. 1) con il Ritratto di monaco domenicano, 1526 [fig.14], del Lotto. oggi a Treviso nel Museo Civico.
Lo ha visto il Carnovali, quando il dipinto era ancora conservato a Venezia nella collezione a Palazzo Trevisan Cappello? È possibile ipotizzarlo dal momento che il Piccio si spostava in varie città italiane per studiare i capolavori degli antichi maestri (il Correggio a Parma, soprattutto, dal quale desume il senso vaporoso del colore dei suoi dipinti), dopo essere stato allievo del maestro Giuseppe Diotti (1778-1846) all’Accademia di Carrara di Bergamo dove aveva potuto studiare le opere del Lotto, del Savoldo, del Moroni, del Ghislandi (Fra’ Galgario), del Ceruti; da queste esperienze nascevano i suoi ritratti di comuni personaggi (nobili di provincia e borghesi) con la propria visione romantica e non convenzionale della ritrattistica cinquecentesca non ufficiale (come si vede, ad esempio,
nel Il Sarto, 1570, Londra, National Gallery, del Moroni [fig. 15] o nel giorgionesco malinconico Ritratto di giovane flautista,1539-1540 [fig. 16], Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo, del bresciano Savoldo, figure nell’atto di “sospendere” la loro occupazione per fissare l’ipotetico osservatore; va ricordato ancora che il Carnovali da bambino ha vissuto
ad Albino, località del bergamasco che dette i natali a Giovan Battista Moroni, che aveva dipinto una Madonna in trono con i Santi Giacomo e Giovanni,1561-1562 [fig. 17], allora nella Chiesa di S.Maria Assunta, in Vall’Alta, nella frazione di Albino: un particolare della Pala, mostra un San Giovanni che si volge improvvisamente verso lo spettatore [fig. 18], “sospendendo” la lettura del suo testo; è facile immaginare che il giovane Carnovali lo abbia studiato con interesse, in quel luogo a lui familiare.
Inoltre, la straordinaria coincidenza iconografica fra il Ritratto del monaco domenicano, colto proprio nel momento (un’istantanea) in cui “sospende” la scrittura su un registro di conti, con il Ritratto dell’uomo in atto di scrivere è davvero singolare. Berenson volle sottolineare il fatto che il frate era “un dispensiere domenicano […] in atto di segnare le entrate e le uscite nel suo registro. Ci guarda come stesse cercando nella mente qualche annotazione da segnare. Abbiamo qui un penetrante studio di carattere che non perde una sfumatura nell’indole del ritrattato pur rappresentandolo in tutto il suo garbo monastico”. Le stesse parole, pur con qualche differenza, potrebbero ascriversi al dipinto del Carnovali, Ritratto dell’uomo in atto di scrivere, cha appare però come un rude contabile, probabilmente al servizio dei signori Marini; non abbiamo un documento che attesti codesta ipotesi se non il fatto che il Carnovali è stato frequentatore della casa dei genitori del basso Ignazio Marini. Invece il monaco domenicano ritratto dal Lotto nel 1526, anno in cui l’artista era a Venezia, ospite nel Convento domenicano di San Zanipolo, è stato identificato in Marcantonio Luciani, seppure con un punto interrogativo, poiché lo stesso nome di battesimo era anche quello del Priore del convento, Marcantonio De’ Rossi (secondo l’ipotesi di Puppi, 1981); ma l’opinione prevalente negli storici è quella di individuare in Marcantonio Luciani l’effigiato dal Lotto, anche sulla base degli elementi presenti sullo scrittoio del frate: le diverse chiavi del tesoriere del convento, le monete sparse, il libro dei conti che attestano l’incarico del frate ricevuto nel 1525, un anno prima del ritratto. Inoltre, come ha scritto nell’esauriente scheda Elena Dezuanni: “Dei due frati, dunque, entrambi documentati con lo stesso nome, l’uno era il priore, e l’altro il tesoriere, due ruoli non sovrapponibili”; le stesse notizie sono riportate anche nella scheda dell’opera nel catalogo della recente mostra a Madrid, Prado, Lorenzo Lotto. Portraits, a cura di Enrico Maria Dal Pozzolo, e Miguel Falomir, fino al 30 settembre 2018.
***
Sebbene nel Novecento, a partire da Berenson, come si è detto, (e con la prima storica mostra su Lotto del 1953, curata da Pietro Zampetti) la fortuna critica attuale di Lorenzo Lotto sia indiscussa, nel secolo in cui l’artista visse, la sua fama non fu pari a quella dei suoi contemporanei: la presenza di Tiziano e Tintoretto a Venezia fu senza dubbio un ostacolo insormontabile per una sua affermazione nella città lagunare, ed egli dovette così peregrinare a Treviso e a Bergamo, “… artisti come il Lotto, il Caravaggio, il Rembrandt – ha scritto Roberto Longhi nel 1946 – finiscono sempre come dei vinti, quasi al bando della società in cui si trovano ad essere ospiti indesiderati, perché in contrattempo, perché più moderni di essa”. Del resto poche furono le parole che il Vasari al Lotto aveva dedicato nelle Vite (1568). E il Dolce nel 1557 fu davvero molto critico:”Di queste cattive tinte parmi che si vegga assai notabile esempio in una tavola di Lorenzo Lotto nella Chiesa dei Carmini…”, per non dire dell’Aretino e ciò che scrisse al povero Lotto nella nota lettera del 1548, fingendo di lodare la bontà e la religiosità dell’artista, perfidamente, tra l’altro scrive: “Non v’è invidia nel vostro petto, anzi godete di vedere nei professori del disegno (allude a Tiziano) alcune parti che non vi pare di conoscere nel pennello”; infine Lotto si rifugiò definitivamente nelle Marche, a Loreto, dove morì povero nel 1556 o 1557, inquieto e mistico, facendosi Oblato nel 1554 nella Santa Casa di Loreto*, dopo aver donato alla religiosa istituzione tutti i suoi beni.
Anche nel Seicento la sua notorietà fu scarsa, per quanto il Triplice Ritratto di orefice (Bartolomeo Carpan?), 1525-1530c. [fig. 19] del Lotto, Vienna, Kunsthistorisches Museum, opera allora presente nelle collezioni del sovrano inglese Carlo I, che l’aveva acquistato dalla famiglia Gonzaga, dovette ispirare il famoso Triplice Ritratto di Carlo I, 1635-1636 [fig. 20] del fiammingo Van Dyck, oggi nella collezione di Sua Maestà britannica; e anche nel Settecento la sua arte fu pressoché dimenticata seppure il Lanzi gli dedica una paginetta nella sua Storia Pittorica, 1795-96, intravedendo influssi giorgioneschi nella sua pittura: “Veneta nel totale è la sua maniera, forte nelle tinte, sfoggiata ne’ vestimenti, sanguigna nelle carni come in Giorgione”.
La scarsa considerazione, come accennato, nei secoli XVII e XVIII nei confronti del Lotto, ma non a mio parere nel secolo XIX, come dimostra l’opera di Carnovali e di altri, come ad esempio il neoclassico Filippo Agricola (1776-1854) con il famoso, bellissimo, inquieto Ritratto di Costanza Perticari, 1819 (molto acclamato dai suoi contemporanei, ma assolutamente incompreso sotto l’aspetto psicologico, persino dal poeta suo padre Vincenzo Monti) [fig. 21], Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, è forse la ragione per cui, dopo Berenson, che sancì per primo la modernità di Lorenzo Lotto, nella critica contemporanea, da Caroli (“… ha “previsto” il terribile groviglio psichico dell’uomo moderno…”, 1973), a Sgarbi a Bertelli, si è visto nell’opera del Lotto un anticipo della sensibilità novecentesca, anche sulla scorta dell’opera concettuale del 1967 di Giulio Paolini, come ha scritto Carlo Bertelli nel 2011:
“Della modernità di Lotto ritrattista ha dato testimonianza Giulio Paolini che ha intitolato un ritratto giovanile del Lotto giovane che guarda Lorenzo Lotto, cogliendovi quel colloquio infinito tra pittore e modello che è il segreto dei suoi ritratti” [fig. 22].
È esattamente quello che ha fatto, a mio avviso, anche l’irrequieto Giovanni Carnovali alla metà dell’Ottocento, meditando sull’opera dello sfortunato artista veneziano. Però, la ritrattistica ottocentesca, e quella dell’artista lombardo, scomparso romanticamente nel Po nel luglio del 1873, di evidente penetrazione psicologica come nell’opera del Lotto, è sfuggita all’esame della critica contemporanea nell’enfasi della singolare proiezione lottesca, non priva ovviamente della sua fondatezza, con un balzo acrobatico dal Cinquecento nel cuore dell’arte novecentesca.
Mario URSINO Roma ottobre 2018