Lettera dalla Calabria, o del recupero del Palazzo Carafa a Roccella Jonica

di Mario URSINO

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Lettera dalla Calabria, o del recupero del Palazzo Carafa a Roccella Jonica

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Caro Direttore di Loreto,

durante una pausa di lavoro, che mi sono concesso nello scorcio della seconda metà di un magnifico settembre Sulle Rive dello Ionio, parafrasando il titolo di un libro di uno dei tanti viaggiatori stranieri in Calabria, By the Ionian Sea del 1901, dello scrittore inglese George Gissing (1857-1903), ho potuto visitare a Roccella Jonica il Palazzo Carafa (detto anche “Castello”), appartenuto per diversi secoli alla omonima famiglia Carafa della Spina. Il monumentale edificio è sito sulla cima di un promontorio a picco sul mare, che cinge in un naturale abbraccio la cittadina che si estende dall’alto dell’antico borgo senza soluzione di continuità sino alla lunga meravigliosa costa in una linea di spiaggia bianchissima che prosegue a Gioiosa, Siderno e Locri, disegnando un’ampia naturale baia fino a Capo Spartivento [fig. 1]. Chi osserva, sia dall’alto della rupe, oppure dalle sconfinate rive, può spaziare con lo sguardo questo “mare greco” [fig. 2], tra i più belli d’Italia, che trascolora dall’azzurro al blu cobalto, con striature verde smeraldo, solcato da rari natanti su una linea d’orizzonte che appare ellittica, quasi a 180 gradi, da far pensare ad un immenso lago nelle giornate luminosissime, quando il mare non è mosso dal vento.

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Su questo spettacolare panorama, come dicevo, svetta il monumentale Palazzo Carafa, sulla rocca dove già nel secolo XIII era posta, ed è tuttora presente, una massiccia torre d’avvistamento. La rupe è divenuta nel periodo angioino sede di una prima fortificazione, sviluppatasi nel tempo con i successivi proprietari e circondata dalla presenza dei primi agglomerati abitativi. Dalla seconda metà del secolo XV fino al XX secolo saranno i Carafa della Spina i “feudatari” di Roccella (già denominata nel X secolo Rupella, in seguito Arocella, per essere poi definitivamente chiamata Roccella).

La suddetta fortificazione, ampliata dai Carafa, nel secolo XVI divenne il maggiore baluardo difensivo della costa jonica contro le incursioni saracene. Questa fu una delle ragioni per cui Roccella divenne illustre sede del Priorato del Sovrano Militare Ordine di Malta, istituito dal Principe Fabrizio I (†1629), come si legge sulla targa posta all’ingresso della Villa Carafa, con l’annessa piccola Chiesa, sede del Baliatico militense, nell’altra proprietà dei principi nella Città di Roccella [fig. 3]. Primo Priore della Roccella fu Francesco Carafa; alla sua morte gli successe il nipote Gregorio Carafa (1615-1690), che per i suoi indiscussi meriti personali e militari, fu nominato nel 1680 Gran Maestro dell’Ordine di Malta; il Carafa a Malta fu amico e grande sostenitore dell’insigne pittore calabrese Mattia Preti, che inserì il ritratto di Gregorio nella tela  Madonna con Bambino, Sant’Anna, San Gregorio Taumaturgo e ritratto del Gran Maestro Gregorio Carafa, 1681, Malta, National Museum of Fine Arts [figg. 4-5].

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Tra Settecento e Ottocento il Palazzo Carafa fu progressivamente ampliato divenendo residenza signorile; nel Novecento esso fu abbandonato, sino a quando l’ultimo Principe di Roccella, Gennaro Carafa della Spina (1905-1982), alienò il cosiddetto Castello, nel 1962, ad una privata società locale. Successivamente la proprietà fu espropriata dal Comune della Città, ma rimase per molti anni rudere superstite, e persino luogo di ricovero di armenti, divenendo una “romantica rovina”, secondo l’accezione estetica dei viaggiatori stranieri tra Sette e Ottocento,

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Ora, finalmente, dopo molti anni di difficoltosi restauri, nel giugno scorso il Palazzo è stato in buona parte restituito a nuova vita insieme alla annessa  ex Chiesa Matrice di San Nicola di Bari, a Roccella, esempio architettonico di stile definito “jonico-barocco”. Tutto il complesso restaurato, inaugurato solennemente e festosamente con la gioia della cittadinanza [fig, 6], sarà destinato a fini culturali, e “turistici”, come da desiderio dell’ultimo principe, e/o formativi per giovani studiosi, probabile sede espositiva di mostre temporanee, forse anche museale, secondo i progetti, le finalità e le buone intenzioni dell’amministrazione  committente  (si veda il complesso prima del restauro e la porzione già restaurata) [figg. 7-8].

Sull’ala restaurata e sulle parti ricostruite della facciata esposta a sud-est, quindi perfettamente visibile dalla Città e dalla bella passeggiata sul lungomare, spicca l’intonacatura molto chiara che riveste le pareti in pietra locale e quelle ricostituite con materiali edilizi attuali. La potente luce che sempre risplende su queste antiche contrade della Calabria Ulteriore Jonica non fa che accentuare la differenza tra la parte restaurata e quella ancora in attesa di ripristino [fig. 9]. Non sono mancate, difatti, le polemiche tra le diverse amministrazioni (di controllo, la Soprintendenza competente per territorio, e il Comune committente; si vedano le motivazioni critiche-burocratiche del documento pubblicato sulla stampa locale; cfr. articoli on line: Ciavula del 18/06/2017, e Riviera del 27/07/2017). Che dire? Certo è innegabile che stride molto il contrasto tra la parte rinnovata  e le pareti esposte a nord-ovest e l’antico ingresso del Castello con il portale ad arco sul quale è impresso ancora il consunto stemma dei Carafa della Spina [fig. 10].

L’amministrazione comunale sostiene che anche il prossimo lotto del fabbricato, se saranno erogati adeguati finanziamenti, sarà restaurato. Resta comunque il problema del colore dell’intonaco che secondo la Soprintendenza non è certo quello di cui esisteva ancora qualche antica traccia. Si può rimediare? Personalmente, e forse non sono il solo, avrei evitato del tutto l’intonacatura così radicale (ancorché filologicamente documentata, ma non penso prima del Sette-Ottocento), poiché i castelli e i palazzi sulle cime dell’Appennino calabrese, ma anche nel resto d’Italia, hanno maggiore fascino se ripristinati nella loro pietra locale, cosicché la porzione monumentale del Palazzo Carafa, già consolidata e fruibile, sarebbe rimasta in sintonia cromatica con l’ampia parte a sud-ovest, ancora inagibile, e con i notevoli resti dell’antica cinta muraria formatasi con gli stessi materiali edilizi del monumentale Palazzo; sarebbe stato quindi meglio evitare ricostruzioni moderne di parti interamente crollate e non più esistenti.

Del resto penso, magari a torto, che non sia immaginabile la fortificazione dei Carafa tra il Cinque e Seicento ricoperta da intonaco; ripeto, forse mi sbaglio, ma si conoscono esempi di notevoli ripristini architettonici, che a seguito di distruzioni naturali, o per cause belliche, non hanno tenuto conto dell’ultimo stile sovrapposto all’originaria struttura: da ricordare, a titolo di esempio, la grandiosa Basilica di Santa Chiara a Napoli, voluta da Roberto d’Angiò nel 1310, in forme gotico provenzali; ristrutturata a partire dal 1732 da Domenico Vaccaro era divenuta interamente barocca [fig. 11], fino a quando il 4 agosto 1943 un bombardamento anglo-americano la danneggiò gravemente [fig. 12].

Ebbene, la monumentale chiesa fu adeguatamente restaurata, riportando la Basilica all’aspetto originario trecentesco, poiché le pareti perimetrali erano rimaste intatte, e omettendo il ripristino delle aggiunte settecentesche [figg. 13-14].

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Ed ora mi permetto, infine, qualche suggerimento di lettura per il neo-viaggiatore nel nostro ancora bellissimo sud italiano, che non attraversi velocemente e distrattamente queste cittadine solo per bagnarsi nello splendido mare. La premessa è, però, di far finta di non vedere le orribili palazzine (e purtroppo anche palazzoni) che sconsideratamente nei decenni passati sono stati edificati a pochi metri dalla riva del mare, occludendo anche la vista delle dolci pendici collinari ancora verdi, per fortuna, che fanno corona alla splendente costa jonica. Il consiglio, quindi, è di leggere Calabria 1903 [fig. 15] del giornalista e fine scrittore svizzero Joseph Viktor Widmann (1842-1911) [fig. 16],  pubblicato, si può dire recentemente, nel 2015, dal valido e qualificato editore calabrese Rubettino, di Soveria Mannelli, curato e tradotto egregiamente da Teodoro Scamardì. Nel suo testo, Widmann, instancabile viaggiatore d’oltralpe, più di una volta in visita nel nostro paese, e all’età di sessantun anni, parte nuovamente da Napoli nella settimana Santa per fare il periplo della costa calabra dalla riviera occidentale tirrenica a quella orientale jonica, spingendosi sino a Cosenza, viaggiando persino a piedi o in carrozze trainate da cavalli, scegliendo però di preferenza tra i vari mezzi  di trasporto la ferrovia lungo il litorale, iniziata nel 1870, e su alte rupi a strapiombo sul mare (com’è ancora oggi), optando per i treni più lenti e che sostavano a lungo nelle piccole stazioni, con i loro giardinetti puliti e colorati; dai finestrini del treno, o nelle piccole soste e nei brevi soggiorni in diverse località costiere e montane (Paola, Monteleone, Pizzo, Scilla, Reggio), il Widmann osserva e descrive il paesaggio con precisione pittorica, i luoghi e gli incontri umani, nella Calabria aspra e gentile, non ancora stravolta dalla terribile cementificazione avvenuta senza regole successivamente agli anni Cinquanta del ventesimo secolo.

Poi lo scrittore continua il suo lento viaggio sulla costa orientale e dice:”Quando dopo parecchie ore scorgemmo il faro di Capo Spartivento, la curva che fa la ferrovia intorno alla punta più meridionale d’Italia ti procura sensazioni indicibili: siamo nel Mare Ionio

E quando l’attento viaggiatore, nutrito da profonde conoscenze storiche dei paesi che andava visitando, fermandosi negli “alberghi” o “locande” segnalate dal suo Bädeker, arriva a Gerace [fig. 17], scende all’ “Albergo Locri”, e qui, ricevuto dal padrone, tiene a sottolineare, “un signore molto fine”; poi va subito a visitare i resti di un antico tempio, con una guida indicata dal suo ospite, “una persona istruita, che a suo tempo aveva partecipato agli scavi ed era stato presente quando erano state riportate alla luce le statue di marmo dei Dioscuri e del Tritone che guida il cavallo sulle onde del mare. Queste statue sono ora esposte nella sala di Metaponto del Museo Nazionale di Napoli” [fig. 18] (oggi nel Museo Nazionale Archeologico di Reggio Calabria, n.d.A);

Widmann, osservando quei resti dell’antico tempio, scrive che gli ricordano persino le tracce di alcuni insediamenti sull’Altopiano svizzero, l’Aventicum”, e la Augusta Rauracorum, la più antica colonia romana sul Reno”. “Qui – continua Widmann – l’effetto del paesaggio era più forte […]. La luce argentea della luna che si diffondeva sulle cime degli ulivi, il monotono sciabordio del mare sulla riva […] e poi il silenzio profondo di questa regione sperduta […] tanto che il cuore era pervaso da sensazioni indefinibili e, già in quel momento in cui le provavi, sentivi che da quel momento non le avresti più dimenticate”.

Inoltre nel sensibile reportage dello scrittore svizzero, non poteva mancare il riferimento all’antica Città di Roccella, riconosciuta Città già da Carlo V; Widmann nel proseguire il suo viaggio sul litorale jonico verso Crotone e Cosenza, così descrive la veduta di Roccella,: “Sul mare una leggera foschia tesseva una sorta di tela magica da Venerdì Santo […] il carattere imponente del paesaggio evocava la Grecia. Dapprima Gioiosa Jonica [fig, 19], poi la pittoresca Roccella aggrappata a una roccia su un promontorio che si protende scosceso sul mare, ai cui piedi si trovano diverse ville con giardini meravigliosi sovrastati dalle cime delle palme, una località che ti conquista subito per la sua bellezza tanto che dici: «Ecco, è qui che vorrei vivere fino alla fine dei miei giorni» [fig. 20]”. Widmann non avrebbe potuto dire di più.

Mario URSINO