di Nicola CASSONE*
La scomparsa
Reggio Emilia, lunedì 19 maggio 1902: in un articolo apparso sul quotidiano L’Italia Centrale, il sig. Prospero Calzolari, firmandosi con lo pseudonimo “Properzio”, descriveva con toni entusiastici e pieni di ammirazione i lavori di ampliamento e di risistemazione della Gliptoteca dei Civici Musei, riaperta al pubblio il giorno precedente1. Ordinatore e curatore scientifico della nuova “Sala dei Marmi” era stato il professor Naborre Campanini, che ricopriva allora la carica di Regio Ispettore dei Monumenti per la provincia di Reggio Emilia2. Tra le tante opere esposte, il Calzolari fu particolarmente colpito dalla cosiddetta “cariatide” del Clemente, scultura che raffigura, come indica l’iscrizione apposta sul basamento “la serva punita della sua pigrizia”. Calzolari tuttavia lamentava l’assenza di due note sculture reggiane: si trattava di una coppia di antiche “cariatidi”, o meglio, di due telamoni. Sino a pochi anni addietro, nel cuore del centro storico di Reggio, si potevano ammirare le due singolari sculture, dette popolarmente “i due Gobbi”;
esse raffiguravano due figure maschili accucciate, con le mani appoggiate sulle cosce, una delle tipiche posture dei telamoni stilofori. Sino al 1890 le due statue si trovavano murate ai fianchi di un portone che si affacciava sulla strada che, proprio da queste due statue, prese il nome di “via dei due Gobbi”, nome che ancora oggi conserva3. Per il Calzolari la loro funzione originaria era senza dubbio quella di basi, o meglio plinti, “poichè sulla schiena gibbosa avevano un cuscinettoche doveva servire di base a colonne”4. In rettifica all’articolo del Calzolari, che avevo sostenuto erroneamente che le due statue erano state rimosse e trasportate nel Museo reggiano, il professor Naborre Campanini scrisse a sua volta un’articolo sull’Italia Centrale, smentendo recisamente che le due opere fossero si fossero mai trovate nelle Civiche Collezioni 5. Campanini nel suo breve intervento dava poi alcune interessanti notizie riguardo ai due telamoni: essi erano stati realizzati in marmo rosso di Verona e a suo parere costituivano “preziosi avanzi dell’antica facciata della nostra Cattedrale”. Quella di via dei due Gobbi non era dunque la collocazione originaria delle due sculture; esse sarebbero appartenute, secondo l’illustre opinione del Campanini (che comunque a riguardo non citava alcuna fonte), all’apparato decorativo della facciata romanica della Cattedrale cittadina, dedicata a Santa Maria Assunta. Di seguito il professor Campanini riferiva ai lettori dell’Italia Centrale le vicende che avevano impedito la collocazione delle due sculture nella rinnovata Galleria dei Marmi, quasi a giustificazione delle perplessità espresse due giorni prima da Calzolari in merito alla loro inspiegabile assenza:
“Nel 1890 i fratelli Spagni proprietari della casa nella quale, a fianco della porta, si trovavano le due cariatidi scolpite in marmo rosso di Verona, preziosi avanzi dell’antica facciata della nostra Cattedrale, furono invitati ufficialmente dal Municipio a depositarle per custodia nel Museo Civico; ma i sig.ri Spagni risposero di non poter aderire al desiderio del Comune, e di averne stabilita la vendita. Conosciutone il prezzo scrissi subito al Ministero e mi adoperai presso il Comune affinchè, in concorso, ne trattassero l’acquisto; ma il Municipio si dichiarò “dolente di non avere nel proprio bilancio nessun fondo disponibile”; e il Ministero a sua volta rispose “di non avere più fondi sul capitolo per incoraggiamento dè Musei comunali”. Così i due Telamoni migrarono a Bologna, acquistati dall’antiquario sig. Angelini. Due anni orsono (nel 1900, n.d.a.) essi erano ancora a Bologna presso il sig. Angelini, che ne trattava la vendita per la somma di L. 800. Allora, anche l’Ufficio Regionale dei Monumenti per l’Emilia si associò a me per riscattarli e per scongiurare il pericolo che fossero esportati dall’Italia; ma pure le nuove pratiche fallirono alle comuni speranze. Manifestamente i due gobbi non mi portavano fortuna; onde essi continuarono e continuano ad essere esuli dal museo, dove se il sig. Properzio li saprà condurre per rivederveli davvero, l’assicuro che vi saranno ospitati decorosamente e festosamente…. .”
I fratelli Spagni, figli ed eredi del defunto Michele Spagni, erano de facto non solo i proprietari della casa di via dei due Gobbi, ma anche delle due statue che ne ornavano il portone d’ingresso; l’ostinata volontà di costoro di voler “monetizzare” l’indubbio valore artistico delle sculture fu, come abbiamo letto sopra, la causa principale della perdita per la nostra città delle due opere, che finirono nelle mani di un antiquario bolognese. Alcune carte conservate nell’Archivio Comunale di Reggio Emilia costituiscono le prove documentarie dei tentativi, purtroppo infruttuosi, compiuti nel 1890 dalle autorità locali per l’acquisto dei due telamoni7: il primo documento è una lettera del Prefetto di Reggio al sindaco, datata 24 febbraio, in cui lo si informa della richiesta fatta da Campanini al Ministero della Pubblica Istruzione per attingere a fondi statali per l’acquisto delle due opere d’arte 8. Segue, in data 7 marzo, il parere negativo dei fratelli Spagni riguardo una proposta del sindaco che, vista la mancanza di fondi nelle casse comunali, proponeva ai proprietari la possibilità di un deposito gratuito dei telamoni “per evitare ulteriori deperimenti”9. Infine è datata al 12 marzo la lettera sconsolata inviata dal Campanini al sindaco in merito all’impossibilità di far entrare le due statue nelle civiche collezioni10. La pronta risposta del Campanini al Calzolari, il quale aveva solamente ravvisato l’assenza delle due statue dal nostro museo, senza alludere ad eventuali responsabilità del Campanini o di altre autorità, sembra però aver rinfocolato una polemica, vecchia ormai di oltre dieci anni, nella quale l’allora Ispettore ai Monumenti della provincia di Reggio doveva sentirsi almeno in parte coinvolto: l’excusatio non petita del Campanini appare come la stizzita replica a chi voleva alludere se non ad una malafede, quantomeno ad una colpevole inazione delle istituzioni culturali cittadine che si erano fatte “soffiare da sotto il naso” le due statue, finite per giunta nelle mani di un commerciante della vicina Bologna. In effetti le cose andarono proprio così anche se, come abbiamo visto, non per la quiescenza delle istituzioni cittadine, quanto per la mancanza di risorse finanziarie nelle casse del Comune e del Ministero dell’Istruzione, il dicastero da cui all’epoca dipendeva il Dipartimento di Antichità e Belle Arti. Ad informarci sulla successiva sorte delle due statue reggiane è di nuovo il nostro Calzolari che, nell’autunno di quello stesso 1902, pubblicò un breve opuscolo che dava conto dei particolari dellavendita dei due telamoni reggiani11. Con la speranza di recuperare e fare tornare in patria le due statue, il Calzolari iniziò un carteggio con R.Angiolini, l’antiquario bolognese che le aveva acquistate; si venne a sapere che due anni addietro l’Angiolini aveva fatto una vendita in blocco di tutti i suoi oggetti d’arte, compresi i “due Gobbi” ai signori Rambaldi e Stanzani di Bologna12.
Testardamente il Calzolari rintracciò uno dei due compratori bolognesi, Arturo Rambaldi, che in due distinte lettere di risposta (24 e 27 maggio 1902) informò il Nostro che anche lui aveva rivenduto le due sculture ad un altro antiquario bolognese, tale Borghesani, il quale, a sua volta, le aveva vendute ad un anonimo straniero“e forse con esso si perderanno le traccie del luogo ove possono ora trovarsi”13.
Non dandosi per vinto il Calzolari riuscì a rintracciare anche Borghesani il quale, dopo alcune reticenze,gli comunicò con una lettera inviata il 21 agosto 1902 che i due Gobbi erano stati da lui venduti a Monsieur Eymonaud di Parigi per una cifra di 1.700 Lire14. Al termine della sua ricerca, ormai rassegnato, il nostro tenace concittadino affermava:
“I due telamonireggiani hanno preso la cittadinanza parigina. Le mie ricerche hanno avuto soltanto l’esito di sapere dove sono, perdendovi, per il resto, la speranza di riaverli.” .15.
Le ricerche
Strano destino quello delle due sculture: le peregrinazioni di proprietario in proprietario negli anni a cavallo tra il 1890 ed il 1902 erano state precedute da altre peregrinazioni, anche se a più breve raggio,entro le mura di Reggio, cosicchè non appare esagerata la loro definizione come quella di ubique pietreerranti; singolarmente né Naborre Campanini, né il Calzolari, né altri cultori della storia patria di fine ottocento ci hanno lasciato una descrizione, ancorchè sommaria, delle due sculture: sappiamo solo che erano realizzate in breccia rossa di Verona e che raffiguravano appunto due figure maschili dalla “schiena gibbosa”, ma non abbiamo nessuna indicazione sulle dimensioni, sui tratti figurativi e sui particolari scultorei delle due opere; eppure sino al 1890 esse erano ben visibili in una frequentata via del centro cittadino. Anche sulla loro collocazione originaria non si hanno poi dati certi e dirimenti; l’affermazione del Campanini che le due sculture facessero parte dei preziosi avanzi dell’antica facciata della nostra Cattedrale non veniva supportata da alcuna fonte documentaria.
Nel 1891, pochi mesi dopo la vendita delle statue, monsignor Prospero Scurani affermava, in una corposa opera manoscritta sulla storia delle chiese di Reggio, che esse fossero un tempo collocate ai lati della porta maggiore dell’antica chiesa di San Lorenzo, edificio oggi scomparso che ha però lasciato ilnome all’omonimo piazzetta del centro città, lungo il lato occidentale di via Guido da Castello, in frontea via don Minzoni16.La presenza dei due telamoni sulla facciata di una tra le più antiche chiese della città, attestata come esistente già nel marzo del 1164 17, si accorderebbe con la presenza di un protiro di tipo“romanico”sostenuto da due colonne poggianti a loro volta sul basi antropomorfe connotate atelamoni. In età comunale la chiesa di san Lorenzo era senza dubbio considerata una delle piùimportanti della città tanto che nel 1252 al suo interno fu solennemente conclusa la pace tra i Da Sesso ed i Roberti, famiglie a capo delle due fazioni reggiane che si erano a lungo contese il dominio della città scatenando un’autentica guerra civile18. Agli inizi del XIV secolo San Lorenzo dava il nome ad uno dei quartieri della città medievale, che comprendeva le altre parrocchie o “vicinie” di Santo Stefano, San Zenone, S. Apollinare, Sant’Ilario, S. Giorgio, San Giovanni Evangelista e San Bartolomeo. La facciata dell’edificio era dipinta19 e sino al 1761 mantenne l’aspetto primitivo. In quell’anno ebbe a subire un drastico rifacimento ad opera dell’architetto Pietro Armani20. Il 6 febbraio del 1797 l’antica parrocchia di San Lorenzo venne trasferita nella chiesa di Sant’Apollinare dei monaci Agostiniani (meglio nota come Sant’Agostino), che allora non era più parrocchiale ed era inoltre rimasta senza ufficiatura in seguito alla soppressione dell’ordine agostiniano nel Ducato Estense per decreto sovrano dell’11 luglio 178221.
Rischiando la completa chiusura di Sant’Agostino e viste le pessime condizioni in cui si trovava la chiesa di San Lorenzo, la Municipalità di Reggio fece istanza al Comitato di Governo di Modena e Reggio per il trasferimento della parrocchia di San Lorenzo in Sant’Agostino, istanza che venne prontamente accolta. San Lorenzo venne così chiusa e prima data a livello ad un privato, tale Tosi Giuseppe, e successivamente venduta all’architetto Giovanni Paglia, che ne era in possesso già nel 182122. Il Paglia sventrò l’antica chiesa, trasformandola nel palazzo neoclassico che ancora oggi si può ammirare al civico n. 21 di via Guido da Castello23. Le opere d’arte presenti in San Lorenzo in parte andarono disperse, in parte vennero portate in Sant’Agostino, in parte nella Cancelleria Vescovile24. Secondo quanto affermò a suo tempo lo Scurani
“La chiesa aveva due porte, la maggiore sul piazzale che ancora conservail nome di San Lorenzo, e intorno alla quale stavano due cariatidi, rappresentanti la figura di due gobbi, che l’acquirente della casa (non chiesa come riportato altrove25) collocò in una (altra) casa di sua proprietà la quale, messa ad uso di pubblico stallo, prese poi il nome di stallatico dei due Gobbi” 26
La testimonianza dello Scurani, da un punto di vista storiografico, andrebbe presa in grande considerazione: egli, oltre ad essere uno storico locale di tutto riguardo fu, a partire dal 1877 e per lungotempo, prevosto della parrocchia di Sant’Agostino; doveva pertanto avere a disposizione documenti e testimonianze di prima mano riguardanti quella parrocchia di San Lorenzo che era “migrata” nella sua prevostura. Tuttavia nel suo racconto si ravvisa più di una incongruenza: egli sosteneva che l’ anonimo acquirente dell’immobile che comprendeva l’antica chiesa di San Lorenzo collocò i due Gobbi in un’altra casa di sua proprietà “adibita a pubblico stallo” e per questo motivo chiamata “stallatico dei due Gobbi”; appare quindi ragionevole pensare che lo spostamento delle due sculture sia avvenuto in una data successiva alla soppressione di san Lorenzo ed al trasferimento di questa parrocchia a Sant’Agostino, cioè dopo il febbraio del 1797. Tuttavia un esame accurato degli atti del Capitolo della Cattedrale di Reggio sembra fornire la prova che Scurani sia caduto in errore: in un documento che reca la data del 24 aprile 1756 si fa già menzione di “una casa dei due Gobbi” di proprietà del Capitolo medesimo, dove si ventilava il progetto di farvi un’osteria e stallatico27. Quindi i “due Gobbi” si trovavano davanti all’ingresso di una casa dell’omonima strada ben prima della definitiva soppressione della chiesa di San Lorenzo, e quindi il loro trasporto non era certo stato opera del proprietario che acquistò l’immobile dell’ex edificio di culto dopo il 1797. Tuttavia sappiamo che nel 1821 Giovanni Paglia, lo stesso che era venuto in possesso dell’immobile dove sorgeva la chiesa di san Lorenzo, aveva acquistato in via dei due Gobbi la casa che era stata un tempo l’abitazione del Bargello del Comune; lacoincidenza non sfuggì a Vittorio Nironi che si convinse che questa casa, posta sul lato sud della strada fosse la casa che ospitava i due Gobbi, identificando in Giovanni Paglia l’anonimo personaggio citato dallo Scurani che spostò i due Gobbi da san Lorenzo28. Un disegno del 1857 conservato all’Archivio di Stato di Reggio29 e pubblicato dallo stesso Vittorio Nironi, raffigura con chiarezza il prospetto di un edificio con i “due Gobbi” chiaramente rappresentati alla base degli stipiti di un portale ad arco contraddistinto dal n. civico 8 30. Tuttavia anche questa importante fonte documentaria, l’unica raffigurazione nota delle due sculture, ha notevolmente contribuito a complicare il problema sull’originaria collocazione dei due Gobbi, traendo in inganno lo stesso Nironi; infatti a ben leggere il repertorio delle case reggiane del settecento ci siimbatte in una scheda relativa ad un immobile che nel 1786-1787 era detto proprio “casa dei Gobbi”, ed era proprietà della “Fabbrica di S. Maria della Cattedrale”31. Nel 1821 questo stesso edificio, posto alcivico n. 5, era venuto in possesso di tale Antonio Spagni. E’ alla luce di questi riscontri che possiamoora affermare con sicurezza che, in realtà, questa fosse la casa dove erano murati i due telamoni e non quella posta di fronte, come invece ha sostenuto a suo tempo il Nironi; tali riscontri infatti collimano sia con il documento del 24 aprile del 1756 che parlava di una “casa dei due Gobbi” in possesso del Capitolo della Cattedrale di Reggio32, sia con la notizia riportata da Naborre Campanini che furono i fratelli Spagni a vendere nel 1890 le nostre due statue, evidentemente successori di quell’Antonio Spagni che possedeva la “casa dei Gobbi” nel 1821; nel repertorio del Nironi questo è l’unica casa di via dei due Gobbi ad essere stato tra XVIII e XIX secolo prima in possesso del Capitolo della Cattedrale, poi della famiglia Spagni. Questa casa esiste ancora oggi: è di proprietà della famiglia Casale (eredi Lusvarghi) ed è contrassegnata dal civico n.633; va infine sottolineato come il grande portale ad arco a conci radiali raffigurato nel disegno del 185734, sui cui stipiti appaiono murati i due Gobbi, appaia assaisimile, per fattura e proporzioni, a quello che oggi dà accesso a palazzo Lusvarghi; la scomparsa dell’altro portale ad arco, gemello del precedente, raffigurato nel disegno del 1857 si spiega con i drastici lavori di ammodernamento della facciata del palazzo eseguiti agli inizi del XX secolo, lavori che portarono alla tamponatura del portale gemello, alla realizzazione alla base della facciata di un intonaco cementizio a finti madoni ed alla riquadratura delle finestre con timpani e mensole con rilievi a stampo in cemento ornamentale. All’interno del palazzo, in un vasto ambiente posto al piano nobile, è stato recentemente portato alla luce un antico e pregiato soffitto ligneo dipinto del tardo cinquecento, in precedenza nascosto da un controsoffitto in arellato e gesso; uno dei pannelli lignei raffigura Maria Vergine con il Bambino, immagine accompagnata da un cartiglio che reca la scritta “REGINA CELI”.L’immagine, che occupava una posizione centrale nel soffitto, potrebbe testimoniare la presenza nell’edificio di ambienti di rappresentanza dei massari della Fabbrica della Cattedrale, che, come è noto, erano legati, come tutto il clero del Duomo, al culto della Beata Vergine. Alla luce di questi dati va da sè che la tesi sostenuta a suo tempo da monsignor Scurani, che voleva i due Gobbi provenire da San Lorenzo, appare ormai del tutto priva di fondamento.Ai fini di questa ricerca non è tanto importante aver stabilito quale fosse la casa dove si trovavano murate le nostre due statue, quanto aver stabilito con certezza che questa casa apparteneva anticamente alla Fabbrica di S. Maria della Cattedrale; tale circostanza rende ora più che mai attendibile l’affermazione di Naborre Campanini che i due Gobbi fossero “preziosi avanzi dell’antica facciata della nostra Cattedrale”, risalenti con tutta probabilità all’età medievale e rimossi verosimilmente negli anni compresi tra il 1544 ed il 1557, quando vennero intrapresi i lavori di rifacimento della facciata ad opera dello scultore Prospero Sogari. Se, come sosteneva il Campanini, le due statue avevano fatto parte dell’ antico apparato scultoreo del Duomo di Reggio, appare logico che, una volta rimosse, siano state ricollocate in un edificio di proprietà della Fabbrica della Cattedrale, posto per giunta a meno di cento metri di distanza dalla chiesa.
A questo punto della ricerca il mio contributo al disvelamento dell’enigma dei “due Gobbi” si trovanella stessa empasse in cui si sono trovati tanti illustri studiosi prima di me; le fonti documentarie sulle due sculture sono sempre le stesse: scarse e per giunta contraddittorie, circostanza che, in linea di massima, rende possibile più di una ipotesi, anche se, come ho cercato di dimostrare, va senz’altro rigettata l’ipotesi della provenienza dei telamoni dalla scomparsa chiesa di san Lorenzo di città, perchè viziata da evidenti aporie e completa mancanza di documentazione.
Il ritrovamento
Una circostanza fortuita mi permette ora di continuare questa trattazione, portando argomenti nuovi e, spero, dirimenti sull’intricata vicenda. A distanza di 123 anni dalla loro scomparsa da Reggio i due telamoni sono stati da me rintracciati: si trovano all’interno del museo del Louvre di Parigi, nel mezzanino dell’ala Denon, sezione Scultura, nella cosiddetta “Galleria Donatello”. I loro numeri diinventario sono i seguenti: R.F. 4197a e 4197b. Nel museo francese non vi è nessuna notizia precisa sulla loro origine; la didascalia posta sotto uno dei due pezzi recita laconicamente:“Italie du Nord, XIII siècle. Provient vraisemblablement, ainsi que son pendant, du decore d’un porche”.
Essi sono entrate nel museo parigino solo nel 1987, in seguito ad un sequestro giudiziario di pezziantichi provenienti da una villa di una ignota località della Costa Azzurra. I pezzi non erano menzionati in alcun catalogo, ma il proprietario della villa li aveva acquistati, in data non precisata, da un anonimo antiquario parigino. Gli studiosi del museo parigino confermano che uno dei più celebri collezionisti d’arte medievale attivi a Parigi nel secolo scorso era monsieur Ernest Eymonaud, che dopo aver comprato nel 1892 l’antico “Hotel de l’Escalopier” a Parigi, trasformò l’edificio in un bizzarro e turrito palazzotto neogotico adibito in parte ad abitazione privata, in parte a collezione d’arte, in parte ad atelier per la realizzazione di copie di mobili antichi, attività che rese Eymonaud celebre in tutta Europa. I due telamoni, venduti a Reggio nel 1890, rimasero dunque a Bologna per un decennio, passando per le mani di tre antiquari, per poi giungere a Parigi tra il 1900 ed il 1902. Qui rimasero per un periodo imprecisato all’interno dell’eccentrica dimora di monsieur Eymonaud, sita al n. 7 dell’impasse Marie-Blanche, nel 18°arrondissement, per poi finire, non sappiamo quando, in una villa della CostaAzzurra.35.Ad un esame visivo le due sculture ora esposte al Louvre appaiono entrambe ricavate da un unico blocco di breccia rossa di Verona; esse raffigurano due figure maschili, vestite con una tunica alginocchio, cinturone in vita, lunghi calzari e portano entrambi un copricapo a cuffia con sottogola. Ipersonaggi appaiono nella tipica, rigida posa dei telamoni medievali, cioè accucciati e piegati in avanti,con le mani aperte ed appoggiate sulle cosce; i tratti del volto (la parte che in entrambe le scultureappare maggiormente danneggiata dalle ingiurie del tempo) sono sommariamente abbozzati e silimitano ad una semplice resa scultorea degli occhi e della bocca che rende la loro espressione alquanto anodina. Il telamone di sinistra (inventario 4197a) si differenzia dal suo simile per la forma delcopricapo, più appiattito, e per due lunghe ciocche di capelli che scendono lungo le guance. Entrambi,visti di profilo, presentano una schiena gibbosa, curvata a novanta gradi, su cui è ricavata una base modanata di colonna cilindrica del diametro di 0, 40 m. circa. L’aspetto stilistico delle opere ed i particolari dell’abbigliamento (il copricapo, la tunica, il cinturone ed i calzari) portano a ritenerle opere della scultura padana tardo-romanica, confermando in linea generale una loro datazione al XIII secolo inoltrato.
Già Elio Monducci e Vittorio Nironi, nella loro opera dedicata alla storia architettonica del Duomo di Reggio, avevano ipotizzato che le statue dei due Gobbi provenissero dalla cattedrale cittadina;l’impossibilità di osservare de visu le due sculture indusse i due autori a ritenerle di piccole dimensioni36, cosicchè ipotizzarono che esse provenissero sì dal Duomo, ma non dalla facciata, come aveva affermato il Campanini, ma dall’interno della chiesa, “a reggere le colonne del pontile o dell’ambone dell’Epistola, come si vede in altre chiese romaniche”37. In realtà le nostre due sculture non sono affatto di dimensioni esigue: esclusa la base esse misurano rispettivamente 1,24 m. (telamone di sinistra) e 1,22 m. (telamone di destra); entrambe hanno una larghezza di 0,46 m. ed una profondità di 0,44 m. La base del capitello posta sulla sommità delle sculture è larga 0,42 m. Queste dimensioni, assai più grandi di quelle ipotizzate da Monducci e Nironi, potrebbero pertanto adattarsi ad un differente tipo di struttura architettonica. Ma è la lavorazione stessa delle due statue che porta ad escludere che esse potessero sorreggere le colonne di un pontile: esse infatti non sono state realizzate per essere visibili a tutto tondo, come di norma dovrebbero essere le sculture poste alla base dei pontili; la loro parte posteriore non è infatti lavorata, ma si presenta scabra ed appiattita, scolpita in modo da favorire la loro posa in opera ad incasso in una parete retrostante; i due gobbi potevano quindi essere visti solo da tre lati, di fronte ed ai fianchi, situazione che rende assai più verosimile il loro utilizzo come stipiti monumentali di un portale.
La collocazione originaria.
In alternativa all’ipotesi formulata da Monducci e Nironi non resta che prendere in esame la possibilitàche i “due Gobbi” sostenessero le colonne di un protiro e quindi si trovassero all’esterno della cattedrale, a costituire “preziosi avanzi della facciata”, così come suggeriva il Campanini.L’esistenza di un protiro monumentale posto anticamente davanti all’ingresso principale del Duomo è attestata con certezza per via documentaria: un’antica epigrafe, un tempo murata su uno dei fianchi del protiro stesso, ricordava che nell’anno 1285 Alberico Valerio Malaguzzi, aveva fatto costruire un protiro( “opus volte” nel testo dell’iscrizione redatta in latino); secondo Monducci e Nironi esso era composto da due colonne in marmo sostenute da due leoni dello stesso materiale38. L’esistenza dei due leoni è poi confermata in un successivo documento del 1315, dove sono menzionati in un atto notarile rogato davanti ad uno dei due animali di marmo39. Ed i leoni erano ancora al loro posto nel 1427, quando in quell’anno Bernardino da Siena predicò il suo quaresimale innanzi al duomo di Reggio da una sorta di pulpito rialzato in legno realizzato sulla testa di uno dei due leoni stilofori 40. Quasi certamente i due leoni vennero rimossi, assieme all’intero protiro del duecento, durante il radicale intervento di trasformazione della facciata del Duomo, trasformazione voluta dai canonici della Cattedrale che affidarono l’incarico il 6 dicembre del 1544 a Prospero Sogari 41. I due leoni stilofori del protiro furono scostati dalla facciata e sistemati ai lati dell’antico sagrato42. Nella celebre veduta prospettica di Reggio eseguita dall’incisore fiammingo Justus Sadeler negli anni attorno al 1620, i due leoni appaiono ancora, isolati, ai lati del sagrato del Duomo, segno che rimasero sulla piazza molti anni dopo lo smantellamento del protiro di cui facevano parte 43; le due sculture medievali rimasero sulla piazza sino alla metà del XVIII secolo, per poi essere rimosse e ridotte a calcina nell’anno 1757 44.Tutte le fonti documentarie che, più o meno direttamente, fanno riferimento alla struttura del protiro della Cattedrale menzionano esclusivamente le due sculture raffiguranti i leoni; nessun accenno ad altre statue, tantomeno a gobbi o telamoni. Tuttavia questa circostanza può essere spiegata osservando attentamente le due sculture conservate al Louvre: esse, come abbiamo già notato in precedenza, eranostate realizzate prevedendo sin dall’origine la loro funzione di stipiti addossati ad un portale monumentale, la loro parte posteriore era senza ombra di dubbio murata, a filo con il prospetto della Cattedrale. Al contrario i leoni stilofori del Duomo di Reggio erano sicuramente (lo si vede bene anche nella pianta del Sadeler) sculture a tutto tondo, che quindi stavano qualche metro davanti al portale, nona filo con il prospetto della chiesa; la struttura portante dell’antico protiro romanico tardo-duecentesco, innalzato grazie alla munificenza di Alberico Malaguzzi, era quindi costituita da quattro colonne: due anteriori, appoggiate sulla schiena dei leoni, e due posteriori, quasi a filo con la facciata e sorrette dai due enigmatici ed ubiqui gobbi di marmo.
I Confronti.
Il portale reggiano, secondo la ricostruzione qui proposta, trova stringenti confronti con una struttura analoga, anteriore di sessantacinque anni, che venne realizzata lungo il fianco meridionale della cattedrale di San Pietro di Bologna, lungo l’asse di via Altabella; si tratta della cosiddetta “Porta dei Leoni”, eretta nel 1220 sotto il pontificato del vescovo Enrico della Fratta, ed attribuita al “nobile e famoso architetto” maestro Ventura 45. Il portale venne demolito nel periodo compreso tra il 1570 ed il 1573, durante i drastici lavori di ricostruzione delle cattedrale bolognese ad opera di Domenico Tibaldi, anni in cui erano state demolite anche le absidi, il coro, il pontile e parte della cripta dell’antica chiesa romanica 46. Grazie alla descrizione che ne fece Leandro Alberti nella sua opera le Historie di Bologna, data alle stampe nel 154147, e grazie allo studio degli elementi scultorei superstiti48, ancora oggi conservati all’interno dell’edificio, la “porta dei Leoni” doveva apparire del tutto simile a quella reggiana, era cioè costituita da un protiro voltato che poggiava su quattro colonne, due anteriori rette da una coppia di leoni, due posteriori rette da altrettanti telamoni. La porta dei Leoni della cattedrale bolognese potrebbeaver costituito il modello di riferimento per l’ignoto autore del protiro reggiano: identico lo schema compositivo, almeno nelle sue forme essenziali, identico il materiale lapideo impiegato, la breccia rossa di Verona. Purtroppo per il monumento reggiano non si possiede una accurata descrizione come quella fatta dall’Alberti per il portale di San Pietro.
Un illuminante saggio di Christine Verzar Bornstein ha mostrato a suo tempo come i protiri eretti all’ingresso di cattedrali e chiese abbaziali costituiscano una innovazione architettonica diffusasi in nord Italia, ed in particolare in Emilia, a partire dalle prime due decadi del XII secolo 49. L’autrice metteva in connessione la scelta da parte dei committenti di questi particolari ingressi monumentali con la volontà di affermare un messaggio ideologico, che rifletteva la situazione politica di quel periodo, caratterizzata dal nuovo ruolo giocato dalle chiese Cattedrali e dai loro vescovi (ma in un caso, Nonantola, anche dall’abate di un grande monastero), nella loro azione di appoggio alla politica anti imperiale del papato all’epoca della lotta per le investiture. Questi portali, configurati a “baldacchino”, caratterizzati dalla presenza di statue di leoni, grifoni, arieti e telamoni, sembrano seguire una tradizione figurativa di età romano-imperiale, tenuta in vita nella Roma dei papi e portata nelle città della pianura padana, come nel caso della contessa Matilde di Canossa in Emilia, dai sostenitori del partito filo-papale50. Il leone, da tempi remoti simbolo di regalità e di giustizia, si lega nel medioevo cristiano, attraverso l’immagine del leone della tribù di Giuda, alla figura del Cristo;
i telamoni accoppiati a reggere le colonne dei protiri sembrano invece derivare da un modello iconografico che appare già in una serie di illustrazioni poste a corredo di un codice degli inizi del V secolo, il cosiddetto “Calendario di Filocalo”, dove una serie di immagini raffiguranti i sette pianeti sono caratterizzate dalla presenza di un elaborato baldacchino figurato alla cui base stanno due telamoni che reggono la struttura 51. Il più antico protiro caratterizzato da statue di telamoni fu probabilmente quello del duomo di Cremona, uno dei quali è visibile nella Raccolta d’arte del Castello Sforzesco di Milano; la realizzazione del protiro cremonese si colloca tra il 1107 e la data del grande terremoto che sconvolse il nord Italia nel 1117 52. Segue, in ordine di tempo, l’intervento di monumentalizzazione della facciata della cattedrale di Piacenza, dove venne realizzato un portale centrale con protiro a due colonne sorrette da altrettanti leoni ed i due portali laterali caratterizzati da telamoni stilofori; uno di questi, il portale laterale sud, reca la firma del celebre scultore “NICHOLAUS”; la cui attività nella cattedrale piacentina dovrebbe risalire al periodo compreso tra il 1114 ed il 1132 53. Negli anni tra il 1135 ed il 1141 Nicholaus portò a termine anche il protiro del portale centrale della cattedrale di San Giorgio di Ferrara; qui lo scultore ideò una soluzione compositiva originale: utilizzò infatti due sculture di leoni come basamenti sul cui dorso collocò altrettanti telamoni che reggono ciascunoun’elegante colonna a quattro fusti affiancati 54 Così come nel portale bolognese, anche negli esempi di Cremona, Piacenza e Ferrara i telamoni raffigurano un giovane ed un anziano accoppiati, un preciso riferimento ad un simbolismo del ciclo solare, dove la figura del giovane e quella del vecchio sembrano indicare le due parti dell’anno, quella del sole crescente e quella del sole decrescente.Tale simbolismo sembra invece assente nel protiro della cattedrale reggiana, dove entrambi i telamoni mostrano tratti giovanili. L’abbigliamento stesso delle due statue reggiane, raffigurate in abiti civili tipici dell’epoca, con la tunica, il cinturone alla vita, i calzari ed i copricapi, rivela un realismo figurativo che sembra volersi affrancare dai consueti schemi simbolici ed allegorici che caratterizzavano le sculture negli edifici sacri dell’età dei maestri campionesi, conformandosi ad un repertorio iconografico più vicino a quei ceti cittadini che si erano ormai affermati, anche ideologicamente, nella compagine sociale dei comuni dell’Italia settentrionale. Il messaggio propagandistico sottinteso all’affermarsi del modello dei portali monumentali delle cattedrali emiliane al loro esordio era ormai vecchio di quasi due secoli ed il suo significato, quello di adesione del clero delle città emiliane alla politica riformista del papato al termine della lotta per le investiture, era ormai diventato incomprensibile al tramonto del XIII secolo; la riproposizione tardiva di tale modello nel protiro reggiano attesta semmai la sua fortuna come mero ornamento architettonico, ma senza più alcun sottinteso propagandistico, una struttura realizzata unicamente per nobilitare l’accesso al più importante tempio cittadino, al pari di molte altre cattedrali emiliane. La persistenza di questo tipo di portali monumentali durò comunque oltre la metà del secolo XIV; quando nel 1367 il magister Giovanni da Campione venne incaricato di monumentalizzare con un protiro l’accesso meridionale della basilica di Santa Maria Maggiore di Bergamo, egli non esitò a riproporre il consueto schema iconografico della coppia di leoni e telamoni stilofori, in questo caso rappresentati, singolarmente, dalla figura di un uomo e di una donna. Quella di Giovanni da Campione rappresenta probabilmente una delle ultime realizzazioni architettoniche di questo tipo, che attesta la diffusione di tale modello per un arco cronologico di oltre 350 anni.
Note