di Claudio LISTANTI
Lo scorso 15 settembre è andato in scena l’ultimo spettacolo previsto nel cartellone della 77ma edizione della Stagione Lirica del Teatro Sperimentale di Spoleto.
L’ultimo atto di questa importante rassegna nell’ambito della musica e del teatro d’opera come di consueto è stato dedicato ad una opera di grande repertorio, per l’occasione stato individuato nella Turandot di Giacomo Puccini una delle opere più celebri e celebrate del mondo la cui esecuzione richiede l’impegno massimo, e soprattutto, qualificato di tutti coloro che contribuiscono alla realizzazione delle diverse componenti dello spettacolo.
Il grande capolavoro pucciniano è stato rappresentato in una nuova produzione che ha messo in evidenza molti pregi e una indiscutibile validità nell’insieme ed è stata straordinario suggello per la 77ma edizione di questa rassegna che ha già rappresentato con successo altri tre spettacoli di carattere operistico, due dedicati a musicisti del ‘900 e uno alla riproposta degli intermezzi musicali del ‘700 napoletano. Una stagione che About Art ha seguito interamente con delle recensioni settimanali delle quali riproponiamo il link (Cfr https://www.aboutartonline.com/notevole-successo-di-pubblico-al-lirico-sperimentale-di-spoleto-per-giacomo-manzoni-con-un-dittico-sullarroganza-del-potere/ ; https://www.aboutartonline.com/gli-intermezzi-del-700-allo-sperimentale-di-spoleto-moschetta-e-grullo-di-domenico-sarri-in-prima-rappresentazione-in-tempi-moderni/ ; https://www.aboutartonline.com/a-spoleto-due-capolavori-del-900-musicale-in-una-convincente-realizzazione-musicale-e-scenica/
Mettere in scena Turandot di Puccini è una impresa di particolare impegno per qualsiasi istituzione lirica non solo per le difficoltà esecutive che porta con sé uno dei più grandi capolavori di tutto il ‘900 ma, anche, per alcuni aspetti che derivano dalla base letteraria che impegnano a rendere il dramma scenicamente in relazione alle necessità del teatro d’opera. Una fase che, in questo caso, è duramente complicata dal fatto che, come noto, la Turandot è a tutti gli effetti un’opera incompiuta. E proprio l’assenza di un finale crea problemi enormi per la realizzazione della drammaturgia.
Il Teatro Lirico Sperimentale grazie all’impegno e all’esperienza artistica del Direttore Artistico Michelangelo Zurletti e del Condirettore Artistico Enrico Girardi, anche in presenza, immaginiamo, di limitate risorse economiche (elemento questo che qui in Italia affligge sempre di più il mondo dello spettacolo soprattutto quello musicale) sono riusciti a produrre un nuovo allestimento senza dubbio valido e godibile.
Per riferire di questo spettacolo è giusto iniziare dall’aspetto fondamentale che è quello della scelta del finale la cui adozione può condizionare considerevolmente non solo le scelte musicali ma anche quelle registiche e sceniche.
Come accennato Turandot è un’opera incompiuta. Tale condizione fu la conseguenza della scomparsa di Puccini avvenuta il 29 novembre 1924. Contrariamente a quanto si può pensare la cosa non fu la causa diretta dell’interruzione della composizione, anzi i motivi vanno ricercati per altre causali.
Turandot, che giunge nell’universo pucciniano dopo la rappresentazione del Trittico del 1918, è ispirata a Turandot (oTurandotte), una delle dieci ‘fiabe drammatiche’ di Carlo Gozzi il cui soggetto fu tratto da una raccolta di fiabe persiane tradotte nel ‘700 in francese pubblicata con il titolo di Le cabinet de Fées, contenuto anche in una edizione delle Mille e una notte tradotta all’inizio dello stesso secolo da Antoine Galland. Il soggetto, che già nel 1917 ispirò Ferruccio Busoni per una sua Turandot musicata utilizzando un proprio testo in tedesco per un’opera rappresentata a Zurigo sulla base di sue musiche prodotte nei primi anni del ‘900, era dunque molto attraente per il mondo culturale di allora.
La gestazione dell’opera fu particolarmente travagliata come molte altre creature che hanno caratterizzato l’attività musicale di Puccini. La documentazione epistolare giunta fino a noi, pur non chiarendo lo stato di avanzamento del lavoro, ci parla di più di tre anni trascorsi tra discussioni, ripensamenti, reazioni entusiastiche seguite da momenti di depressione e scontentezza. La travagliata composizione giunse fino alla prima scena del terzo atto ma, caso inusuale per Puccini, completando musica, parte vocale ed orchestrazione. In questa scena si assiste al suicidio di Liù che per evitare la minaccia della tortura si toglie la vita come ultimo atto d’amore verso il Principe Ignoto che ha scosso il suo cuore.
A questo punto Puccini entrò in una condizione di stallo. Siamo ancora lontani dal tragico epilogo della sua vita e dalla malattia che provocò la sua morte. Alcuni biografi, come Mosco Carner, ci dicono che da quel momento all’insorgere dei primi sintomi del male passarono circa due anni. È chiaro che il musicista entrò in una profonda crisi di ispirazione. Le vicende di Turandot narrano di un personaggio che risulta terrorizzato dall’incontro con l’altro sesso. Tale condizione era la conseguenza della narrazione di uno stupro subito da una antenata della protagonista, una storia di terrore e violenza che ha sconvolto la sua psiche al punto di odiare il soggetto maschile e di guardare con terrore all’incontro con l’altro sesso. Sarà il Principe Ignoto, dopo aver risolto gli enigmi a lui proposti, a possederla. Turandot ha paura, gli echi dello stupro della sua ava sono sempre ben presenti nella sua mente. Lui indiscutibilmente la ama e farà del tutto per essere contraccambiato, per sciogliere quel blocco di ghiaccio che circonda la principessa e trovare la via per trasformare il suo odio in amore. Ciò avverrà anche grazie alla sua sensibilità di uomo innamorato mostrando di non essere violento ma di relazionarsi con la donna in maniera del tutto dolce e accondiscendente. Sarà un bacio a ‘sciogliere’ la principessa e a suggellare tutta la storia.
Conoscendo Puccini possiamo comprendere che questo scioglimento del dramma non era nelle sue corde. Liù è l’unico personaggio interamente ‘pucciniano’ di quest’opera. Il suo suicidio toglie ogni punto di riferimento al nostro musicista proiettandolo in una sorta impasse che blocca la sua ispirazione impedendogli di concludere l’opera.
Dopo la sua morte si cercò di porre rimedio a questa ‘incompiuta’ trovando una soluzione tra le quali anche quella di un completamento. Sia l’editore Ricordi che Arturo Toscanini all’epoca ‘dominus’ del Teatro alla Scala che ospitò la prima assoluta, proposero al musicista Franco Alfano, allora apprezzato per l’attenzione all’elemento esotico nella musica che si estrinsecò qualche anno prima, nel 1921, con la composizione di Sakùntala. Ad Alfano furono messe a disposizione le famose 36 pagine di schizzi e appunti che Puccini aveva scritto nel disperato tentativo di dare una giusta fine alla sua creatura. Su di questi, e sullo spartito per canto e pianoforte di quanto composto da Puccini, il musicista napoletano approntò un finale di carattere pomposo dove, tramite un duetto si giunge all’agognato bacio che scioglie l’ostilità della principessa confermando i caratteri ‘favolistici’ della storia esaltati da un luminoso e brillante coro finale.
L’opera andò in scena il 25 aprile del 1926 con la direzione di Toscanini che, però, eseguì il capolavoro fino alla morte di Liù, come estremo omaggio alla figura del compositore scomparso. Questa fu l’unica volta che Toscanini diresse Turandot ma, comunque, influì sempre sulla sua storia esecutiva. Infatti per la recita successiva, quella del 27 aprile 1926 affidata ad Ettore Panizza, intervenne per espungere dal finale preparato da Alfano e giudicato poco affine alle famose 36 pagine di appunti lasciati da Puccini. Un intervento severo rivolto soprattutto a togliere quanto Alfano inserì di personale nella musica. Il finale integro di Alfano cadde così nel dimenticatoio sepolto nei preziosi scaffali di Casa Ricordi. Fu riesumato nel 1979 e riproposto in scena nel 1982 grazie alla Chelsea Opera Club.
Nel 2001, poi, la stessa Cara Ricordi affidò a Luciano Berio, uno dei musicisti più in vista del momento, l’incarico della composizione di un nuovo finale. Berio utilizzò solo materiale proveniente dalle famose 36 pagine ma, soprattutto, era a conoscenza dell’orchestrazione pucciniana cosa ignota ad Alfano al quale fu dato solamente lo spartito per canto e pianoforte. Berio inserì nel tessuto connettivo del suo lavoro anche tre elementi extra-pucciniani ma molto affini alla personalità musicale del compositore lucchese. Sono tre significativi richiami; uno a Wagner citato alla pagina 17 (altre fonti dicono pag. 27 ma questo non importa perché ininfluente) degli schizzi con l’enigmatica nota “poi Tristano”, una a Mahler con l’incipit della Settima Sinfonia e anche a Schönberg con una citazione proveniente dai Gurrelieder. Queste ultime due in omaggio a quanto sostengono i biografi che affermano che queste due composizioni erano sotto la lente di ingrandimento di Puccini nei suoi ultimi mesi di vita. Ma la novità più importante di questo finale è nella particolarità della drammaturgia proposta da Berio per concludere Turandot. Non più lo spettacolare lieto fine delle due versioni di Alfano ma un lieto fine velato di tristezza e poesia nel quale è ben presente la figura di Liù che con il suo sacrificio ha favorito questa unione ed il relativo slancio amoroso. A tali considerazioni Berio giunse anche facendo tesoro di alcune testimonianze di chi, come il figlio Tonio e Galileo Chini con suo figlio, ebbero occasione, nella quiete di Torre del Lago, ascoltare Puccini eseguire al pianoforte l’intero terzo atto.
Ci troviamo così di fronte a quattro finali. Quello Puccini-Toscanini della prima assoluta, quello di Alfano nella sua versione integrale, quello di Alfano passato sotto le severe forbici di Toscanini e divenuto quello più utilizzato al mondo ed infine quello di Berio.
Come ha affermato il condirettore artistico Enrico Girardi sia nel programma di sala sia nell’interessante conferenza di presentazione dello spettacolo, sono quattro versioni differenti la cui scelta è ognuna sottoposta ai gusti individuali degli esecutori e degli ascoltatori. A suo giudizio è quella di Berio la versione più affine alla visione pucciniana anche se, a dire il vero, non si può scommettere sotto questo aspetto su nessuna delle quattro. Quindi la scelta per questa edizione è caduta sulla versione di Berio elemento che ha reso questa rappresentazione di Spoleto, dove oltretutto non era mai stata rappresentata, di particolare interesse anche perché questo finale, pur dimostrando una indubbia validità di fondo, non ha trovato molto seguito nella prassi esecutiva di oggi.
Per quanto ci riguarda noi siamo orientati verso la versione incompiuta dove la morte di Liù, comunque, conclude un percorso teatrale valido e non è da escludere che se Puccini fosse vissuto più a lungo avrebbe optato per questa scelta o per una del tutto simile. Troppe sono le differenze nello stile compositivo tra Puccini e il suo coevo Alfano differenze ancor più emergenti con il Berio del nuovo secolo. Tutte versioni che ci sembrano distanti dalla genialità strumentale, melodica e armonica di un musicista che è stato tra i grandi rappresentanti del ‘900 musicale. L’incompiuto poi dona al fruitore un certo fascino dato dal senso di sospensione che stimola una certa attenzione verso ciò ‘che poteva essere’ la conclusione. Situazioni analoghe si sono registrate spesso nel campo dell’arte, sia quella musicale sia quella figurativa’ e la fruizione del capolavoro non è mai risultata compromessa. A volte i teatri lirici hanno optato per la versione incompiuta come nello scorso anno al Teatro dell’Opera di Roma, dimostrando di avere le qualità per coinvolgere interamente il pubblico.
Concludendo ogni scelta in tale senso è del tutto personale e valida artisticamente, scenicamente e musicalmente e quindi da approvare senza riserve.
È ovvio che scegliendo la versione di Berio si va incontro ad una diversa interpretazione dello spettacolo dovuta alla particolare drammaturgia introdotta dal compositore ligure. La realizzazione visiva dello spettacolo è stata affidata ad Alessio Pizzech regista di provata esperienza per l’opera lirica. Per l’occasione ha concepito una realizzazione molto semplice nell’insieme abbandonando del tutto l’elemento favolistico ben costruito dai librettisti Giuseppe Adami e Renato Simoni, per rivolgere lo sguardo a tutti quei simboli che ricordano la drammatica storia di Turandot e della sua ‘difficoltà’ nell’accettare l’amore sconvolta com’era dal ricordo della sua antenata. L’ambientazione è stata spostata in epoca contemporanea abbandonando così ‘orpelli e cineserie’ come ha dichiarato lo stesso Pizzech, scelta comunque che cozza con la magnificenza dell’esotismo e dei timbri che magistralmente Puccini riesce ad offrire all’ascoltatore. I personaggi diventano gente di tutti i giorni le cui azioni arrivano all’occhio dello spettatore come un sogno quasi ‘incolore’. Turandot appare nella scena cruciale del secondo atto costretta entro i limiti imposti da una gabbia situata all’interno di un ospedale (o forse carcere o manicomio?) che risulta alla vista quasi protettiva verso la sua, per certi versi irrazionale, ostilità nei riguardi dell’altro sesso e nella evidente difficoltà di avere sentimenti amorosi. La realizzazione scenica comunque è risultata ideale per mettere ben in evidenza la concezione drammaturgia introdotta da Berio con il suo accattivante finale riuscendo a offrirci uno spettacolo del tutto omogeneo nell’insieme e, comunque, godibile. Questo grazie al contributo dello scenografo Andrea Stanisci, della costumista Clelia De Angelis e delle luci di Eva Bruno. Questi ultimi tutti preziosi collaboratori nelle numerosissime produzioni dello Sperimentale che anche questa volta hanno contribuito a valorizzare in maniera determinante tutta l’impostazione dello spettacolo.
Per quanto riguarda la parte musicale è stata utilizzata una compagnia prevalentemente formata da cantanti vincitori e comunque provenienti dai concorsi dello Sperimentale. Per la prima del 15 settembre la parte di Turandot è stata affidata al soprano albanese Suada Gjergji tra i vincitori del concorso 2023. È stata per noi una vera sorpresa perché la cantante ha saputo affrontare la difficile parte con molta, evidente, tranquillità grazie a emissioni controllate ma potenti ed efficaci mostrando dimestichezza con il registro acuto tanto importante per questo ruolo considerato da sempre di carattere fortemente ‘straussiano’. Buona cura della dizione italiana e delle varie sfumature espressive elementi che abbinati ad una valida presenza scenica hanno fatto di lei una Turandot molto credibile. L’altro soprano della serata era Alessia Merepeza, anch’essa albanese ma proveniente dal concorso 2022 da noi già ammirata come Ipazia dell’opera di Manzoni che ha inaugurato lo Sperimentale di quest’anno. Anche per lei emissioni sicure ed una voce bene educata per una Liù di grande effetto ed una interpretazione scenica di livello.
Nella parte del Principe Ignoto/Calaf c’era il tenore Dario Di Vietri, non proveniente da concorsi dello Sperimentale. Possiede una voce tenorile di grande effetto ed un repertorio molto importante per il suo tipo di voce che comprende oltre a Calaf altri ruoli di pari difficoltà vocali. Dimostra sicurezza negli acuti anche se il suo modo di cantare ci è sembrato poco incline alle sfumature che nel teatro d’opera sono importanti.
Di rilievo anche i tre cantanti scelti per le tre maschere, qui divenuti solo ‘ministri’. Li vogliamo giudicare nel loro complesso perché sono riusciti a realizzare la delicatezza e l’incisività di quel ‘coro in miniatura’ come alcuni critici lo hanno definito. Sono il baritono Davide Peroni Ping vincitore del concorso 2022, i tenori Oronzo D’Urso Pong vincitore nel 2021 e Roberto Manuel Zangari Pang primo classificato nel 2022.
Nelle altre parti c’era il tenore Francesco Domenico Doto del concorso 2023 nella doppia veste del Principe di Persia e dell’Imperatore Altoum, poi il basso Giordano Farina Timur e Giovanni Luca Failla proveniente dal concorso 2023 Un mandarino. Ai cantanti si aggiunge l’efficace parte mimica sostenuta da Cristina Scaramucci.
Per completare il discorso sulla parte vocale c’è da sottolineare la prova del Coro e Piccolo Coro del Teatro Sperimentale di Spoleto diretti da Mauro Presazzi che ha ben figurato in una parte corale che si può considerare a tutti gli effetti di carattere mussorgskyano risultando tra i veri e propri motori di questa opera.
A Carlo Palleschi è stata affidata la direzione musicale dello spettacolo ed ha guidato l’Orchestra O.T.Li.S. del Teatro Lirico sperimentale, i cori e la compagnia di canto in maniera certamente efficace e coerente con l’impostazione di tutto lo spettacolo apparso, sotto tutti i punti di vista, omogeneo.
La serata si è conclusa con un vero e proprio successo di pubblico che ha applaudito a lungo, e sonoramente, al termine della recita.
Questa edizione di Turandot entra nella Stagione Lirica Regionale dell’Umbria ed avrà diverse repliche in importanti località della regione. Al Morlacchi di Perugia il 18 e 19 settembre, al Politeama Clarici di Foligno il 20 settembre, al Teatro degli Illuminati di Città di Castello il 21 settembre e al Teatro Comunale di Todi il 22 e 23 settembre.
Claudio LISTANTI Roma 17 Settembre 2023