Il ripristino della Fontana delle Pelte nella Domus Augustana

di Nica FIORI

La Fontana delle Pelte al Palatino torna a zampillare

Il Parco archeologico del Colosseo continua a stupirci con le sue installazioni che si rifanno all’antico e in particolare all’uso dell’acqua nel mondo antico, come nel caso del “ripristino” della cosiddetta Fontana delle Pelte nella Domus Augustana, ovvero l’imponente palazzo fatto costruire da Domiziano (ultimo imperatore della dinastia Flavia, 81-96) sul Palatino.

Fontana delle Pelte

La fontana, che prende il nome dalle quattro pelte (scudi delle Amazzoni) contrapposte che la decorano, si trova in una delle parti meno frequentate dai turisti, vicino allo Stadio Palatino, all’interno di un cortile quadrato (peristilio), che dobbiamo immaginare con un doppio ordine di colonne disposte su due piani, che si rispecchiavano nell’acqua della fontana e che ora si vedono in pezzi lungo i bordi, come ha ricordato la direttrice del Parco Alfonsina Russo. Intorno si aprono ampie sale a volta, che riprendono motivi della Domus Aurea neroniana.

La fontana vera e propria, al centro dell’ambiente, era concepita come un isolotto da adibire a triclinio, dove i commensali potevano godere della frescura delle acque zampillanti tutt’intorno. Ora le acque tornano a zampillare al suono dell’incantevole musica di Mozart, ovvero dell’Inno a Venere tratto dall’opera “Ascanio in Alba”, su libretto di Giuseppe Parini (1771).

Nella scena prima dell’opera, Venere scende dal carro accompagnata da Ascanio e, mentre le Grazie e i Geni cantano un inno alla dea, il carro s’invola come nuvola nel cielo. E nell’attuale installazione le vaporizzazioni che fuoriescono da strutture metalliche ai quattro angoli della fontana sembrano formare delle nuvole profumate con l’essenza di rosa, fiore sacro a Venere, e in seguito sono previste altre essenze (a seconda delle stagioni o delle festività arcaiche) per ricordare la voluttuosa atmosfera del triclinio voluto dall’imperatore. Un ambiente privato racchiuso da mura, che il pubblico può ammirare dall’alto delle architetture imperiali.

Fontana delle Pelte
Fontana delle Pelte, part.

Come ha spiegato l’architetto paesaggista Gabriella Strano, autrice del progetto, le silhouettes di metallo collocate ai quattro angoli della fontana alludono alla copia romana dell’originale statua di bronzo dell’Amazzone ferita di Fidia, raffigurata con la pelta ai piedi.

Plinio racconta che la statua venne realizzata in occasione di una competizione tra i maggiori artisti dell’epoca per la realizzazione delle più bella scultura di Amazzone per il Santuario di Artemide a Efeso: una gara che vide come vincitore Policleto, mentre Fidia arrivò secondo. L’installazione ha riproposto la presenza dell’acqua nell’invaso perimetrale dell’antica fontana, senza operare alcun tipo di alterazione nella struttura del monumento. Le vasche in acciaio sono totalmente removibili e sono state brunite con un procedimento sperimentale. A seguito di un antico crollo di dissesto nella struttura centrale della fontana antica è stata scoperta un’apertura che ha messo in luce un canale ipogeo, accanto al quale è stato possibile alloggiare l’impianto idraulico per il funzionamento della nuova fontana, che prevede il ricircolo dell’acqua.

L’intervento di ripristino, cui è stato associato il motto Instar aquae tempus, ovvero “il tempo è come l’acqua” (nel senso che scorrono entrambi incessantemente), rientra nel più ampio progetto di restauro delle antiche fontane, già operato nel Ninfeo degli Specchi e nella Fontana dei Papiri degli Orti Farnesiani, ed è stato attuato nel pieno rispetto green del Parco. Per questo motivo la presentazione dell’evento è stata contrassegnata dal dialogo della direttrice Alfonsina Russo con il geologo e divulgatore scientifico Mario Tozzi sul tema dell’acqua, la cui importanza è basilare per il pianeta.

Gabriella Strano, Alfonsina Russo, Mario Tozzi

Una città come l’antica Roma, che nel suo maggiore sviluppo dell’età imperiale superò il milione di abitanti, aveva un rilevante fabbisogno idrico, cui si venne provvedendo nel tempo con la costruzione di ben quattordici acquedotti. L’acqua più buona e più abbondante veniva captata dalle sorgenti intorno all’alto corso dell’Aniene e, seguendo la valle del fiume, i condotti giungevano a Roma dalla zona dei Colli Albani, dove pure venivano utilizzate falde potabili. La visione delle imponenti arcate degli acquedotti sullo sfondo delle vie Appia e Tuscolana costituiva un tempo motivo di stupore per i viaggiatori che si recavano a Roma, ma ancora oggi, nei tratti in cui esse si ergono solitarie, mantengono intatto tutto il loro fascino. Il più grande, il più lungo e il più tradizionale degli acquedotti romani era quello dell’acqua Marcia.

Fontana delle Pelte, foto Nica Fiori

Sui suoi pilastri erano sovrapposte anche le tubature dell’acqua Tepula e, più in alto, della Iulia, mentre in età rinascimentale costituì l’ossatura dell’acquedotto Felice voluto da papa Sisto V. Un altro acquedotto notevole che giungeva dalla stessa zona era il Claudio, le cui arcate dal caratteristico bugnato sono ben visibili nel Parco degli Acquedotti. Un suo ramo secondario, voluto da Nerone, si staccava poco prima di Porta Maggiore per dirigersi verso il Celio. Domiziano prolungò a sua volta il ramo neroniano a servizio del suo palazzo imperiale, scavalcando su altissime arcate la valle tra il Celio e il Palatino, oggi attraversata da via di San Gregorio.

Certo gli antichi romani avevano una vera passione per l’acqua, che serviva non solo per scopi alimentari e igienici (la frequentazione delle terme era giornaliera), ma anche per abbellire le dimore e le ville con strabilianti giochi d’acqua, fontane e ninfei monumentali.

Nonostante questo apparente spreco dell’elemento liquido, essi avevano un rispetto per l’acqua, come tutte le antiche civiltà, e anzi tributavano alle acque una sacralità che nel tempo si è persa. Pensiamo alle ninfe e ai fiumi che erano adorati come divinità. I sentimenti di “rispetto, cura e attenzione” che avevano gli antichi per le acque sono quelli che, secondo Mario Tozzi, non dovremmo dimenticare mai, se vogliamo salvaguardare il nostro pianeta. E questi sentimenti sono pienamente condivisi da Alfonsina Russo, che vede il Parco del Colosseo come “un laboratorio di cura e tutela, in grado di creare azioni positive”. Come già si fa con gli olivi (circa duecento piante), dai cui frutti si ricava un olio di qualità, oltre che con l’acqua riciclata delle fontane. C’è anche l’intenzione di riaprire le fontanelle per dissetare i turisti, così da evitare l’eccessivo accumulo giornaliero di bottiglie di plastica.

Nica FIORI  Roma 12 settembre 2021

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