di Mario URSINO
Van Gogh, Il Giardiniere, 1889, l’identità svelata, e il significato del famoso dipinto oggetto di una lunga vicenda giudiziaria tra il gallerista svizzero Ernst Beyeler e lo Stato Italiano
Chi visita con una certa attenzione la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma non può ignorare i due splendidi ritratti eseguiti dal grande pittore olandese negli ultimi due anni della sua vita, tra il 1889 e il 1890, ovvero Il Giardiniere e L’Arlesiana [figg. 1-2].
I due capolavori furono acquisiti per la Galleria con modalità alquanto diverse: L’Arlesiana, 1890, fu acquistato sul mercato internazionale nel 1962 presso la galleria Malborough di Londra, proposto dalla soprintendente Palma Bucarelli all’allora Direzione Generale Antichità e Belle Arti. Il prezzo dovette essere accettabile in quegli anni per le casse dello Stato, che solitamente non hanno mai somme sufficienti per competere sui mercati con i facoltosi collezionisti nelle aste internazionali, e oggi più che mai; ma in quell’anno si può dire che sia stato davvero un caso fortunato di trattativa fra la pubblica amministrazione italiana e una vendita privata esercitata dall’estero. In questo modo la nostra Galleria poté vantarsi di possedere una prima opera di Van Gogh.
L’Arlesiana è un dipinto particolarmente significativo, [fig. 3]
soprattutto perché segna la storia del drammatico rapporto tra Vincent Van Gogh e Paul Gauguin nei tragici mesi ottobre-dicembre del 1888 ad Arles, in Provenza, quando i due artisti condividevano nella cittadina provenzale casa e studio; la storia è nota, culminata con la automutilazione dell’orecchio di Vincent Van Gogh (1853-1890) [fig. 4], a seguito di una furibonda lite con l’amico francese, che immediatamente lo abbandonò per tornarsene a Parigi.
Ho narrato altrove, nel dicembre del 2016, la vicenda tra i due, e il significato simbolico di quel ritratto che raffigura M.me Ginoux, proprietaria del Café de la Gare di Arles [fig. 5], frequentato dai due artisti. La donna e il marito furono le prime persone ad assistere Van Gogh dopo l’infausto gesto autolesionista e durante i suoi frequenti disturbi nervosi, a causa dei quali il pittore si dovette ricoverare nell’ospedale psichiatrico, sito nella struttura, al tempo un po’ fatiscente e semiabbandonata, di un antico convento agostiniano di Saint–Paul-de Mausole a Saint-Remy-de Provence [fig. 6].
Qui il direttore del nosocomio, su premura del fratello di Van Gogh, Theo, assegnò al pittore una camera individuale, e un’altra di minori dimensioni al piano terreno dell’edificio prospiciente il giardino, dove l’artista poteva tranquillamente dipingere:
si vedano gli splendidi Iris, 1889 [fig. 7] del Paul Getty Museum, tra i primi dipinti nell’ospedale di Saint-Remy; fiori che abbondano in primavera ancora oggi davanti all’ex convento [fig. 8], e Alberi nel giardino di Saint-Remy, 1889 [figg. 9-10], Amsterdam, Museo Van Gogh e Los Angeles, The Armand Hammer Museum of Art.
Si narra che il pittore postimpressionista Paul Signac (1863-1935) sia andato a trovarlo: “Ho visto Vincent, l’ultima volta ad Arles nella primavera del 1889. Era già internato nel ricovero della città. Per tutto il giorno si parlò di pittura, di letteratura, di socialismo” (in, Amsterdam Van Gogh Museum, 2005, p. 110). Quindi, nonostante le violente crisi nervose, Van Gogh alternava momenti di normale lucidità, producendo numerosi dipinti (forse i più belli) della massima intensità come il nostro Giardiniere [fig. 11].
Certo, il pittore era tristissimo nei due mesi trascorsi nell’ospedale:
la partenza di Gauguin lo aveva sconvolto; i due si erano persino riappacificati epistolarmente, ma la notizia dell’imminente partenza dell’amico per la Martinica fece definitivamente svanire il suo sogno di fondare un atelier di artisti nel Midì da aggregare intorno alla personalità dominante di Paul Gauguin, il quale, ricorda in proposito, che Van Gogh “insisteva per avermi ad Arles a fondare un suo progetto, un “atelier” che avrei dovuto dirigere” (in, Ecrits d’un sauvage, trad. it. Milano 1996, p. 114). Fu questa la causa, a mio avviso (e non solo), ovvero l’abbandono (corsivo mio), di cui tutta la vita Van Gogh ebbe a soffrire, e non ultima la notizia del matrimonio dell’amato fratello Theo che lo aiutava economicamente, raccoglieva le opere che Vincent gli inviava di continuo, per esporle e cercare di vendere; inoltre i due fratelli produssero una enorme quantità di corrispondenza, utilissima per conoscere i pensieri sull’arte di Van Gogh, sempre profondi e puntuali su come lavorava e i colori che utilizzava. Per esempio, il blu e il verde, e il blu e il giallo sono quelli a prevalere nel periodo di Saint-Remy; si veda il famoso Campo di grano con mietitore, 1889 [fig. 12], nel Museo di Amsterdam, del quale
l’artista riferisce alla sorella Willermine:
“Poiché invece di cercare di rendere esattamente ciò che ho davanti agli occhi, io mi servo del colore nel modo più arbitrario per esprimermi fortemente”
(concetto in anticipo sull’espressionismo delle avanguardie primo novecentesche, n.d.A). Il giallo, oltre a connotare la famosa serie dei Girasoli, fa da sfondo a diversi ritratti del periodo Arles-Saint-Remy, come nel giallo-oro ne L’Arlesiana, 1888 [fig. 13] nella versione conservata al Metropolitan Museum of Art di New York.
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Diverso è il caso de Il Giardiniere, 1889 (dipinto duecentoventi anni orsono). Di questo ritratto, diversamente da L’Arlesiana, non si conoscono altre versioni (il che è già una particolarità, dato che l’artista replicava spesso le sue opere, che potevano differire per dei particolari, per non dire dei suoi numerosi autoritratti, certo sempre diversi l’uno dall’altro).
A Saint-Remy, poi, i modelli erano scarsi, fece alcuni ritratti delle poche persone presenti: l’infermiere Trabuc, 1889 [fig. 14], Kunstmusem, Solothurn, Svizzera (anche qui il giallo domina lo sfondo), e di un paio di pazienti ivi ricoverati; Van Gogh ne coglie, con i colori che si è detto, l’espressione inconfondibile del loro stato di alienazione, come ne il Ritratto di guercio, 1889, e Ritratto di Paziente, 1889 [figg. 15-16], entrambi ad Amsterdam, Van Gogh Museum.
Il giardino dell’ospedale invece gli offriva solo lo spettacolo della natura in fiore che lo riempiva di gioia.
E fu in quel giardino che presumibilmente incontrò Il Giardiniere che lavorava come bracciante, un journalier, dall’espressione amichevole, mite appena velata da un’impercettibile malinconia. Van Gogh con empatia lo ritrae con semplici tratti di colori primari e complementari, immerso nel verde tenue della natura. L’effigiato, rimasto a lungo senza nome, è stato comunemente denominato Il contadino, e sino ad oggi non si era mai saputa la sua identità. E invece è di pochi mesi fa la notizia che il povero lavoratore sarebbe stato identificato: su “Il Giornale dell’Arte”, n. 390, ottobre 2018, Martin Bailey ci informa che presso il Musée Estrine di Saint-Rémy-de-Provence (museo didattico-virtuale con riproduzioni di opere di Van Gogh), è stato ritrovato tra i documenti un inedito appunto che “riporta una dichiarazione di Louis Poulet, il cui contenuto gli sarebbe stato riferito dal bisnonno François, che morì nel 1954. All’epoca di Van Gogh, François Poulet lavorava al manicomio come assistente e addetto alle carrozzine. Accompagnava spesso l’artista fuori dall’istituto per permettergli di dipingere il paesaggio provenzale. Secondo l’appunto di Louis, il bisnonno gli disse che il ritratto rappresentava Jean Barral (1861-1942). Ciò sembra altamente attendibile. Barral era nato il 21 gennaio 1861. Quando si sposò nel 1887 a Saint-Rémy-de-Provence venne descritto come un «cultivateur» (contadino) e alla nascita di sua figlia nel 1890 era «un journalier» (lavoratore a giornata). È d’altronde assai probabile che abbia lavorato nei giardini o nei terreni del manicomio. Avrebbe dovuto avere 28 anni quando venne realizzato il ritratto, cosa compatibile con la figura nel dipinto”.
Nell’articolo citato si dice anche che la famiglia Poulet viveva da alcune generazioni poco distante dal convento di Saint-Paul de Mausole. Se si volesse dare credito a questa informazione, Il Giardiniere andrebbe esposto nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna con l’aggiunta tra parentesi (Jean Barral) al titolo con il quale è ormai noto, come per L’Arlesiana (Mme Ginoux).
Ma perché il dipinto Il Giardiniere è così significativo, e tale da essere collegato alla storia del patrimonio storico-artistico italiano, e che fu dichiarato opera “di importante interesse storico_artistico”, con decreto ministeriale del 20 gennaio 1954, provvedimento notificato al proprietario, il marchese avvocato Giovanni Verusio, in quell’anno residente a Firenze? Il Verusio lo aveva ereditato da un suo zio, Gustavo Sforni (1888-1939), pittore macchiaiolo, e uno dei maggiori collezionisti di arte moderna nel primo Novecento, che aveva acquistato il ritratto a Parigi nel 1910, dal famoso gallerista Paul Rosenberg (1881-1959).
Nello stesso anno lo Sforni diede in prestito l’opera per la Prima mostra italiana dell’impressionismo [fig. 17], organizzata da Ardengo Soffici (1874-1964) nella sede del “Lyceum Club di Firenze” [fig. 18], e Van Gogh figurava accanto ad opere impressioniste e postimpressioniste: Degas, Monet, Renoir, Cézanne, Toulouse-Lautrec, Matisse, Gauguin, Pissarro, Sisley. La mostra fu molto importante soprattutto per gli artisti italiani che ancora non erano stati a Parigi per documentasi sulle novità della pittura francese.
Nel 1945, sempre a Firenze, Bernard Berenson incluse Il Giardiniere nella sua mostra, La peinture francaise à Florence. Successivamente, nel 1952, Lamberto Vitali organizzò la prima retrospettiva in Italia dell’artista olandese, Vincent Van Gogh, a Milano, Palazzo Reale. Due anni dopo, come si è detto, il Ministero notificò l’opera di interesse storico-artistico. I signori Verusio, consapevoli dell’importanza del dipinto, già durante la Seconda Guerra Mondiale, e del rischio che l’opera venisse razziata dai nazisti, la nascosero in una cassa sotto un pagliaio a Pian dei Giullari in una proprietà della loro famiglia. La vicenda è narrata con brio dalla consorte di Giovanni Verusio, Sandra Verusio; la signora, molto nota, e vivace protagonista della mondanità romana, è scomparsa pochi mesi fa, nel dicembre 2018; ella, in una intervista di Giovanna Cavalli, apparsa sul “Corriere della Sera” del 22 maggio 1998, ricorda bene questo episodio:
“Sotto la paglia, in una limonaia di Pian dei Giullari, chiuso in una cassa di legno. Un nascondiglio quasi naturale per un capolavoro intitolato “Il contadino” e poi “Il giardiniere“. Ma insospettabile e proprio per questo più sicuro del caveau di una banca e della sala di un museo”.
Dopo l’alluvione di Firenze del 1966, i signori Verusio si traferirono a Roma. Ma ebbero sempre il timore che i ladri potessero rubare il dipinto, ricorda ancora la marchesa, avendo subito ben cinque volte furti in casa, e dice: “Durante le vacanze lo portavo in banca con la Cinquecento, accompagnata soltanto da un vecchissimo cameriere, che imprudenza!”. Alla fine, “stanchi di fare la guardia al Van Gogh”, i coniugi Verusio lo vendettero ad un corniciaio romano di via Margutta, tale Silvestro Pierangeli, per 600 milioni di lire. Era il 1977. “Le quotazioni del pittore olandese non erano alle stelle, ma “Il giardiniere” ne valeva almeno il doppio. Non sapevamo chi fosse il vero committente” – ha raccontato Sandra Verusio nell’intervista sopra citata.
Ed è appunto dal 1977 che inizia la lunga controversia giudiziaria sulla proprietà di codesta opera,
che nel novembre di quello stesso anno viene presentata all’Ufficio Esportazione di Palermo per trasferirla a Londra. Ovviamente vi fu un netto diniego a norma di legge, e l’opera fu ritirata dal Pierangeli. Va detto che in quell’occasione lo Stato Italiano avrebbe potuto esercitare il “diritto di acquisto” previsto dalla normativa di tutela, in forza anche del fatto che il dipinto era stato sottoposto a vincolo storico-artistico, come detto, dal 1954. E invece non se ne fece nulla, nonostante la insistente richiesta di acquisto indirizzata al Ministero da parte di un valoroso soprintendente alla Galleria, Italo Faldi (1917-2012 ), ragion per cui il funzionario fu addirittura rimosso dall’incarico per contrasti con l’allora Direttore Generale, Guglielmo Triches (1920-1993) che non volle autorizzare l’acquisto. Per cinque anni non si ebbero più notizie de Il Giardiniere, sino a quando, nel 1983, salta fuori che il reale acquirente era il famoso gallerista svizzero, Ernst Beyeler (1921-2010), mentre il Pierangeli era solo un prestanome, peraltro senza alcun mandato ufficiale, occultando in questo modo alla pubblica amministrazione italiana il reale acquirente dell’importante opera, come richiede la legge. Il Beyeler, rendendosi conto della impossibilità di trasferire il dipinto all’estero, dichiarava di essere il proprietario dell’opera e di aver iniziato una trattativa di vendita con la Peggy Guggenheim Collection. A questo punto lo Stato Italiano non gli riconosce alcun titolo di proprietà e fa sequestrare il dipinto dai Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Artistico, temporaneamente in esame a Venezia, per timore di un illecito trasferimento all’estero. Nel 1983 prestavo servizio presso la Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Roma, e ricordo che fu deciso di ricoverare l’opera nel caveau del Banco di Roma, sede poco distante da Piazza Venezia. Ricordo anche di aver istruito la pratica per il Ministero e l’Avvocatura dello Stato, affinché lo Stato potesse esercitare il diritto di prelazione, non al prezzo stratosferico di 8,5 milioni di dollari richiesti dal Beyeler alla Guggenheim di Venezia, bensì al prezzo di 600 milioni dichiarati nella prima notizia di vendita, poiché tale diritto poteva essere esercitato “sine die”, qualora le alienazioni fossero state compiute “contro i divieti stabiliti dalla presente legge”, come recita l’art. 61 della legge di tutela del 1° giugno 1939, n. 1089. In sostanza quel contratto di vendita del 1977 era nullo “di pieno diritto”.
Nel frattempo Il Giardiniere, ritornato nella capitale, come già detto, fu prelevato dal caveau del Banco di Roma,
per decisione della Direzione Generale del Ministero, sempre sotto sequestro, e affidato alla Galleria Nazionale d’arte Moderna, ma con il divieto di esporlo. Ricordo anche questo, poiché nel 1987 ero stato trasferito con mia grande contentezza nel museo che avevo amato si da quando ero studente. Continuai quindi a seguire le vicende giuridiche che intercorrevano tra la Galleria, il Ministero e l’Avvocatura dello Stato, per cui si giunse alla emanazione del decreto dell’esercizio del diritto di prelazione del 24 novembre del 1988, col favore di tutta la stampa nazionale, che aveva seguito la vicenda dal 1977, da Nello Ponente, a Italo Faldi, a Giovanni Carandente, Giuliano Briganti, Federico Zeri, e molti altri studiosi interessati alla intricata vicenda. Ma la cosa non finì qui, poiché il Beyeler, con una tenacia senza pari, intentò allo Stato Italiano una serie incredibile di ricorsi: tre davanti al Tar del Lazio (poi unificati), uno al Consiglio di Stato, uno alla Corte di Cassazione, uno alla Corte Costituzionale, e infine uno davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, tutte cause nelle quali ha sempre perso, riuscendo solo in quest’ultima, nel 2000, ad ottenere un indennizzo dallo Stato Italiano di un milione di euro, poiché nel 1988 il valore di un’opera importante di Van Gogh non poteva più considerarsi attorno ai 600 milioni dichiarati nel 1977, e per lo Stato Italiano, secondo la sentenza della Corte Europea, sarebbe stato un ingiusto arricchimento.
Fatto sta che la Galleria Nazionale d’Arte Moderna poté considerarsi proprietaria del dipinto solo dal 30 gennaio 1991
e quindi finalmente esporre il dipinto e inventariarlo nelle sue collezioni, a seguito della sentenza del Consiglio di Stato che aveva respinto definitivamente i ricorsi di Giovanni Verusio, di Silvestro Pierangeli e Ernst Beyeler (si veda al riguardo il mio articolo, Così
lo Stato esercita il diritto di prelazione, in “Il Giornale dell’Arte”, n. 87, marzo 1991, fig. 19).
Il gallerista svizzero però, come abbiamo visto, continuò imperterrito ad adire altri ricorsi nelle sedi più sopra indicate, ottenendo solo l’indennizzo, che forse non coprì tutte le spese legali che aveva sostenuto in lunghi anni dal 1977 al 2000; inoltre, va considerato che già negli anni Ottanta le quotazioni per un’opera di Van Gogh erano stimate per decine di milioni di dollari. Dunque, il Beyeler non fu certo soddisfatto, e tentò invano un ultimo passo informale presso la nostra Galleria, che ricordo benissimo: il gallerista venne a Roma, verso la metà degli anni Novanta con i suoi legali, cercando inutilmente di persuaderci ad accettare uno scambio del nostro Giardiniere con uno dei suoi numerosi Picasso. Una proposta, a mio avviso ingenua, per non dire irrispettosa delle leggi italiane, per un baratto assolutamente inaccettabile in base al principio della assoluta inalienabilità delle cose di interesse storico-artistico del patrimonio statale italiano, sancito dalla legge di tutela e dalla Costituzione, che ci ha permesso e ci permette ancora, fortunatamente, anche secondo il nuovo Codice dei Beni Culturali, di difendere ciò che è di interesse nazionale.
Purtroppo Il Giardiniere non poté essere esposto nella grande mostra italiana dedicata a Vincent Van Gogh,
che fu inaugurata nel gennaio del 1988 [fig. 20] e tenuta fino a 4 aprile nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna. E’ stata la prima mostra del maestro olandese nella capitale e ha seguito a distanza di trentasei anni l’unica altra importante mostra antologica dedicata al pittore in Italia a Milano nel 1952. Furono esposte nel nostro museo un’ottantina di opere, di cui 43 oli e una quarantina di disegni, pastelli e acquarelli provenienti da importanti collezioni pubbliche olandesi: il museo Kroller-Muller di Otterlo, il Rijksmuseum di Amsterdam, sede della Fondazione Van Gogh, oltre ad altri prestiti da Dordrecht e dall’ Aja. Una sezione introduttiva presentava alcuni dipinti della scuola dell’ Aja, rappresentata da artisti di codesta scuola, come Josef Israel (1824-1911), Jacob Maris (1837-1899) e Anton Mauve (1838-1888), affini e contemporanei di Van Gogh. Ricordo di questa irripetibile mostra il record assoluto di cinquemila visitatori al giorno, con interminabili file [fig. 21],
che ci costrinse ad approntare per l’occasione un passaggio esterno coperto, e ad aperture straordinarie fino a tarda sera per accogliere speciali categorie delle pubbliche professioni, come magistrati, diplomatici, alti rappresentanti delle forze armate e imprenditori di importanti imprese etc. Un record mai più raggiunto nel nostro museo.
La passione ancora attuale per l’opera e la vita di Van Gogh (pari a quella di Caravaggio) ha prodotto un nuovo film dedicato all’artista olandese: Van Gogh. Sulla soglia dell’eternità, 2018, per la regia del noto pittore, regista e sceneggiatore americano, Julian Schnabel, e nella parte di Van Gogh l’attore Willem Dafoe; già nel 1956 il famoso regista Vincente Minnelli (1903-1986) dedicò al pittore olandese il film Brama di vivere con protagonista Kirk Douglas
Mario URSINO Roma marzo 2019
P.S.:
Pur essendo stato testimone e redattore di atti relativi alla vicenda giudiziaria (almeno fino alla sentenza del 1991 del Consiglio di Stato che dichiarò la legittimità dell’esercizio del diritto di prelazione per acquisire Il Giardiniere), ancora oggi rimane per me un enigma l’accanimento da parte di un gallerista, ricco e famoso, di volere a tutti i costi quel quadro di Van Gogh. Dal punto di vista logico, poteva apparire come un desiderio personale di possedere quel singolare dipinto, e inserirlo nella sua collezione permanente a Basilea, nel museo creato per la sua Fondazione Beyler. Ma allora perché tentò di venderlo alla Peggy Guggenheim Collection? E’ stata una finzione? Una trappola per lo Stato Italiano? E’difficile trovare una risposta. Un’altra domanda che mi sono posto riguarda il ruolo dell’avvocato Giovanni Verusio, uno stimato uomo di legge; perché mai iniziò con una comunicazione di vendita in maniera, per così dire, anomala, ovvero senza la prescritta osservanza della normativa di tutela della legge 1° giugno 1939, n. 1089? Come mai non ha tentato di dissuadere il Beyeler, e farlo desistere dall’effettuare un incauto acquisto di un’opera vincolata che non può essere trasferita all’estero? E invece, paradossalmente, un avvocato, un uomo di legge, si è associato a ricorsi insieme al Pierangeli e al Beyeler. Certo era suo diritto vendere un’opera di sua proprietà, ancorché vincolata, ma dichiarando all’acquirente l’obbligo di farla rimanere in Italia. Questi miei interrogativi, anche a distanza di tanti anni, rimarranno sempre senza risposta, anche perché non ho mai avuto il piacere di incontrare l’avvocato Giovanni Verusio.
A Ernst Beyeler va comunque riconosciuto che è stato un dealer d’eccezione, e un raffinato collezionista, oltre duecento opere, che partono dall’impressionismo e postimpressionismo al cubismo, all’astrattismo, alla Pop Art, hanno costituito il nucleo di base del museo della Fondazione Beyeler, a Riehen, a poca distanza da Basilea, che fu inaugurato nel 1997 in un modernissimo edificio, immerso nel verde [fig. 22], progettato dallo stesso Beyeler e Renzo Piano.
Benché la sua carriera sia iniziata in una libreria a Basilea, che venne trasformandosi nel tempo in galleria d’arte, l’abile giovane Beyeler [fig. 23] riuscì alla metà degli anni Sessanta ad acquisire 340 opere dalla grande collezione di un finanziere americano a Pittsburg, George David Thompson (1899-1965), con il quale stabilì, in difficili trattative per il caratteraccio dell’uomo d’affari, un rapporto di scambio, e di acquisti di opere da Cèzanne a Monet, a Matisse a Klee, Kandiskij, e un gruppo di 70 sculture di Giacometti, che furono poi suddivise tra il Kunstmuseum di Basilea, la Kunsthaus di Zurigo, e il Kunstmuseum di Winterthur. Molto importante fu poi il suo incontro con Picasso nel 1957, che gli consentì in seguito di acquistare e il privilegio (di cui menava vanto) di scegliersi 26 dipinti direttamente dall’atelier del pittore.
Tutto ciò egli ha raccontato nel libro, Ernst Beyeler. La passione per l’arte. Conversazioni con Christoph Mory, Milano 2005 [fig. 24]. Nel riepilogare le varie fasi del suo lavoro di gallerista e collezionista, Beyeler ricorda sbrigativamente, e a modo suo, la sconfitta subita nella lunga vicenda giudiziaria riguardante Il giardiniere di Van Gogh: “Per esempio, nel 1977 ho comprato in Italia un Van Gogh, Le Jardinier (Il giardiniere). Il divieto di esportarlo era dovuto a una legge mussoliniana che doveva essere abrogata” (sic! ma quando mai!). Poi, incredibilmente aggiunge: “Ho contato sull’imminenza di una nuova giurisdizione e su questa ho basato il mio acquisto” (cfr. op. cit. 2005, p. 75). Si tratta di un’affermazione assolutamente priva di fondamento: nel 1977 non era in programma alcuna abrogazione o variazione dell’ottima legge 1° giugno 1939, n. 1089, ed essa è rimasta sempre alla base del suo successivo ampliamento in materia, come nel Testo Unico 1999 n.490, e nell’attuale Codice dei Beni Culturali del 2004, dell’allora Ministro Giuliano Urbani.
Dunque, per dovere d’informazione, posso con tutta sicurezza affermare che “il diritto di prelazione”, “l’acquisto coattivo presso gli Uffici di Esportazione”, “il divieto di esportazione di opere notificate” sono tuttora in vigore, e personalmente è stato uno degli oggetti del mio lavoro nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna fino al giugno del 2011 e del mio insegnamento alla Sapienza Università di Roma (cfr. Mario Ursino, Profilo Storico di Legislazione Artistica, Edizioni Nuova Cultura, 2008, fig. 25).
È ancora utile apprendere che l’obbiettivo del Beyeler è stato sempre quello di trasferire il ritratto all’estero, e lo si desume dalle sue stesse parole riportate in una pagina del libro più sopra citato, laddove egli risponde all’interlocutore Mory: “Un giorno, mentre pranzavo con Messer, direttore del Guggenheim di New York, ho tirato in ballo la questione. Gli ho proposto di comprare Il giardiniere a metà prezzo attraverso l’intermediazione del suo museo a Venezia (la Peggy Guggenheim Collection, n.d.a.). Avrebbe avuto la possibilità di esporre il Van Gogh di tanto in tanto al Guggenheim di New York. Messer, timoroso di natura, esitò”. Il delirante progetto, come scritto più sopra, fallì per il pronto intervento di sequestro del dipinto da parte dell’autorità giudiziaria italiana.
Dalla scomparsa di Ennst Beyeler nel 2010, la Fondazione Beyeler è diretta da un suo giovane collaboratore, Samuel Keller, che fu designato in vita dallo stesso gallerista due anni prima. La collezione Beyeler ha continuato ad incrementarsi, e la Fondazione, a onor del vero, ha prodotto, e produce sempre mostre temporanee di alta qualità, come quella attualmente in corso: Il giovane Picasso. Periodo blu e rosa, organizzata col Musée National Picasso e il Musée d’Orsay a Parigi, a cura di Raphael Bouvier, dal 3 febbraio al 26 maggio 2019.
L’esposizione mette insieme una concentrazione di dipinti, forse mai avvenuta prima, delle fasi iniziali del pittore di Malaga, con le famose opere raffiguranti temi drammatici come La Mort de Casamegas, 1901 [fig. 26] (“The thought that Casagemas was dead led me painting in blue” ha affermato Picasso nel 1901), Parigi, Musée d’Art Moderne de la Ville; il suo Autoritratto, 1901 [fig. 27], Parigi, Musée National Picasso; La Vie, 1903 [fig. 28], Cleveland, The Cleveland Museum of Art;
i malinconici Acrobata e Arlecchino, 1905 [fig. 29], coll. priv.; per concludersi su alcuni esempi di lavori protocubisti come lo studio, Femme (époque des “Demoiselle d’Avignon”, 1907, fig. 30) Riehen (Basilea), Fondazione Beyeler