Claudio Strinati: “Non temo un attacco alla cultura di sinistra.Quanto ai Beni Culturali è un campo dove non funziona nulla, ma è la cultura occidentale che rischia il collasso”. Riflessioni di un intellettuale al tempo della Destra al potere

P d L

About Art inizia, con questa conversazione con Claudio Strinati (e con l’intervento di Anna Mattei), una ricerca sul ruolo dell’intellettuale oggi, su cosa pensa della condizione attuale della cultura in Italia e della sua gestione, politica e amministrativa, non tralasciando uno sguardo approfondito su quanto avviene nel resto del mondo, specie lì dove la libera espressione culturale è ferocemente repressa (Iran) o alquanto debilitata causa guerra (Ucraina). E’ questa la prima di una serie di interviste con cui, ci auguriamo, i nostri lettori potranno avere più di un punto di osservazione qualificato sulle logiche che muovono in campi niente affatto secondari i destini dei popoli.

Il cursus studiorum (oltre al curruculum vitae) di Claudio Strinati è così qualificato e noto da consentirci di poter fare a meno di ricordarlo se non per grandi linee: uomo delle istituzioni (oggi Segretario generale dell’Accademia di San Luca), più volte insignito di importanti riconoscimenti, curatore e creatore di eventi artistici a carattere internazionale, autore di studi e pubblicazioni fondamentali in particolare sull’arte moderna, amante e grande esperto di musica classica; tuttavia quello che presentiamo oggi è un profilo non del tutto conosciuto dello studioso e proprio per questo le sue considerazioni appaoiono ancor più interessanti e spesso anche del tutto sorprendenti. (A Claudio Strinati abbiamo dedicato in occasione del settantesimo compleanno un volume dal titolo “l’Arte di vivere l’Arte. Scritti in onore di Claudio Strinati”, in suo onore giunto ormai alla terza edizione e che può essere richiesto scrivendo all’editore: etgraphiae@gmail.com).

-La prima domanda che ti vorrei porre è di estrema attualità, su cui il giudizio di un intellettuale che è schierato giudiziosamente a sinistra mi pare necessario; parlo delle polemiche circa la prevalenza nel nostro paese della cultura di sinistra che non pochi esponenti dello schieramento avverso, anche a livello ministeriale, non smettono di deprecare, chiedendo –così si sono espressi- “una diversa narrazione”. Curioso, se mi passi il termine, che con una cultura di sinistra così prevalente poi le elezioni le vinca la destra anche estrema, come nel nostro caso.

R: Ti rispondo con una considerazione ovvia, cioè che non è detto che automaticamente ad una prevalenza culturale poi corrisponda una prevalenza nelle urne. Il fatto è che quando si va a votare non è la cultura l’aspetto privilegiato che entra nel voto, o quanto meno non è quello prevalente, evidentemente.

-E a quanti da qualche tempo, soprattutto dopo l’esito elettorale, alzano la voce per criticare le cosiddette strumentalizzazioni di eventi culturali da parte della sinistra anche quando non ci sono (vedi il ‘caso’ Sanremo) cosa rispondi? E’ così?, hanno ragione loro?, chi è di sinistra deve andare a nascondersi?

R: No evidentemente nessuno deve andare a nascondersi, ci mancherebbe, al contrario siamo a un punto tale che la voce va tenuta bella alta da parte dell’opposizione che deve svolgere la sua funzione di contrappeso che in democrazia è essenziale anche tramite battaglie culturali, e quindi continuando a  pubblicare libri, promuovendo incontri e dibattiti, e nel nostro caso specifico di studiosi d’arte realizzando mostre e convegni, oppure tramite il cinema, il teatro e quant’altro; se qualcuno pensa che avendo vinto le elezioni la parte avversa debba essere messa al bando si sbaglia di grosso; sarà in minoranza d’accordo, ma tra pensare di mettere in un cantone e essere in minoranza c’è una bella differenza, sono concetti ben diversi.

-Eppure, scusami se insisto, avrai visto o letto le polemiche scatenate dopo alcuni interventi pro Costituzione a Sanremo, per non dire delle pressioni che hanno costretto alle dimissioni Paolo Giordano da Direttore del Salone dei Libri di Torino, di certo uno degli appuntamenti più importanti del mondo della cultura nel nostro paese.

R: Vero, però lasciami dire che mi paiono più episodi dovuti a polemiche occasionali piuttosto che esempi di un attacco per così dire generalizzato al mondo culturale ritenuto non allineato; quello che accaduto nel corso del festival di Sanremo è secondo me espressione di una cultura popolare, non populista, e anche la destra ha una sua cultura popolare non solo populista.

-Sarebbe magari la cultura del tiro a segno nelle scuole?

R: Sinceramente anche qui non ci vedo il segno di una iniziativa complessiva che voglia mettere in discussione un assetto culturale diverso da quello desiderato; se pure è vero che quel tal politico ha detto quelle parole può forse essere stata una battuta poco felice, non credo insomma che, come pure è stato affermato, si mirasse a favorire una libera pratica delle armi nelle scuole, magari sul modello americano; secondo me non è così, anche perché alla fine il tiro a segno è uno sport che non si fa con le armi, si fa con la cerbottana o al luna park; se vuoi un esempio che riguarda precisamente me stesso, posso dirti che anch’io, che sono di sinistra, che non amo le armi, che sono lontano mille miglia dalla mentalità del guerrafondaio, tuttavia quando ero giovane mi vantavo di avere una mira infallibile che non di rado mi ha consentito di vincere svariati premi. Al luna park, naturalmente.

-Complimenti!

R: Grazie; ma voglio aggiungere che questo sport richiama anche alle nostre esperienze di studiosi d’arte; è noto che vari autori hanno scritto sul ‘colpo d’occhio’ nell’arte, in particolare commentando opere di Guercino o Domenichino, e in effetti un famoso dipinto di quest’ultimo, cioè il Bagno di Diana ne è un chiaro riferimento dato che come sai bene raffigura gara di tiro.

Cosa intendo dire? Che qualunque cosa può essere letta in chiave di polemica ideologica e politica, ma in questo caso mi sembra una forzatura, dato che come ripeto non ci vedo l’espressione di un attacco globale e determinato.

-Insomma a tuo parere sbagliano esagerando quanti vedono in queste prese di posizioni, un po’ sgangherate a dire il vero, una sorta di riedizione dello slogan ‘libro e moschetto’, con quel che segue?

R: Quello che ti posso dire è che tutto è possibile, sottolineo possibile, ma non è detto che sia così; occorrono altri e ben più determinati passaggi per dire che quel politico vuole imporre ad esempio una certa cultura nella scuola, oppure che qualche altro intenda mettere le mani su certe manifestazioni, siano esse saloni culturali o festival o altro ancora; insomma, prima di partire contro il pericolo fascista vorrei capire se è in atto una strategia complessiva della destra che miri a scardinare luoghi, modi, mondi e idee della cultura di sinistra, che al momento non però non vedo, anche se ovviamente non bisogna smettere mai di vigilare.

-Anche perché ultimamente capita che un ministro dell’Istruzione invece di biasimare l’aggressione squadrista di elementi di estrema destra a studenti del Liceo Michelangelo di Firenze come avveniva negli anni settanta, se la prende con la Preside che mette in guardia su come ebbe a svilupparsi il fascismo nel nostro paese. Su questo come commentare?

R: Biasimo fortemente che il Ministro dell’Istruzione intervenga, con relativa risonanza mediatica, su un argomento che è di esclusiva competenza dei docenti (tale è la Preside). Ma tu ti ricordi che un bene supremo è la liberà di insegnamento? Sarebbe come se il Ministro della Giustizia intervenisse a censurare l’impostazione di una sentenza di un giudice, civile o penale che sia. Sarà semmai il Consiglio Superiore della Magistratura a pronunciarsi. Non il Ministro. Quindi il Ministro non deve né attaccare l’aggressione squadrista (quello è un compito della polizia e della magistratura) né commentare ufficialmente o censurare con atti o semplici dichiarazioni un insegnamento impartito dalla Preside. Qui è il vero difetto, non nell’ assumere posizioni di destra o di sinistra. Ravviso qui il punto determinante della differenza tra democrazia e dittatura. Nella dittatura chi comanda ha sempre ragione, nella democrazia chi governa ragiona.

-Quindi non ti preoccupa neppure la polemica -nata sotto il segno di un a mio parere malinteso senso di orgoglio – sul fatto che Direttori di musei tra i più significativi e famosi del nostro paese siano stranieri? Non trovi pretestuoso che le polemiche si siano aperte nonostante che tra qualche mese queste figure –che in molti casi non hanno affatto demeritato, anzi- dovranno lasciare l’incarico per scadenza del mandato? E, se posso aggiungere, qual è il tuo parere sul fatto che i musei italiani possano essere diretti da stranieri?

R: Il mio punto di vista – ed è sempre stato questo- è che ovviamente a dirigere i musei italiani possono senz’altro esserci direttori stranieri, posto tra l’altro che com’è noto ci sono stati e ci sono italiani che dirigono musei esteri. Mi ricordo bene le polemiche seguite alla legge del 2014 voluta dall’allora ministro Franceschini, polemiche che poi, nel corso del tempo, come accade spesso in certi casi, sono evaporate; questo per dirti che anche qui mi è difficile collegare la presenza di stranieri ai vertici dei musei (cosa che peraltro, come hai già detto tu, è in dirittura d’arrivo) ad una battaglia ideologica, anche perché è del tutto logico ritenere che qualsiasi governante di destra o sinistra guardi alle competenze e a quanto e a cosa ci si può aspettare; ecco, mi risulta difficile credere che l’attuale ministro della cultura, che peraltro non conosco personalmente, possa sostenere la tesi che nelle prossime nomine fattore determinante debba essere quello del patriottismo, credo verrebbe da ridere per primo a lui stesso: detto questo se vuoi sapere il mio personalissimo parere ebbene preferirei in effetti che fossero nominati direttori italiani. Ma bada bene non parlo dei soli direttori, che in definitiva sono una parte limitata degli operatori dei Beni culturali; la questione dovrebbe riguardare il complesso di quanti vi operano. E qui sarei assolutamente perentorio, perché occorre dare ai nostri studiosi la possibilità di lavorare nel nostro paese.

-Ne fai, se ho capito bene, una questione di carattere generale. Il problema è come fare a far sì che i giovani che escono dalle nostre università e dalle varie specializzazioni o dottorati nel campo dei Beni culturali possano restare nel nostro paese. Tu hai una grande esperienza tanto per gli anni in cui hai diretto strutture culturali quanto per le iniziative in cui hai preso parte in tutto il mondo, dunque sai bene che in Italia chi sceglie il campo di studi artistici e letterari parte svantaggiato, sia dal punto di vista remunerativo, che per gli sbocchi lavorativi, tant’è che non pochi vanno all’estero.

R: E’ certamente vero che sia remunerativamente che professionalmente questi studi nel nostro paese non sono affatto attraenti, e tuttavia secondo me il discorso va spostato, dal ministero della cultura – o come si chiama oggi- alla ‘cultura’! Cosa c’è nel contenitore di questo termine? In primo luogo c’è l’insegnamento; voglio dire che i nostri laureati, specializzati magari in arte, letteratura o altro, dovrebbero essi costituire l’ossatura della formazione. E il loro ruolo di docenza e formazione dovrebbe essere gratificato a livello retributivo; al contrario, nel nostro paese si è verificata una deriva sotto questo aspetto che ha determinato un autentico disastro sociale.

Ti riferisci a qualche legge o a qualche misura in particolare?

R: Al fatto che in Italia le attività inerenti alle belle arti e quelle inerenti alla docenza sono state per molto tempo dirette da un’unica struttura ministeriale, il Ministero della Pubblica Istruzione, che poi ha cambiato nome; fino al 1974 esisteva la Direzione Generale delle Belle Arti e Biblioteche che era una struttura del Ministero della Pubblica Istruzione e amministrava soprintendenze, musei, scavi archeologici, non amministrava gli archivi – e non è difficile capire perché-; poi quando l’allora ministro Spadolini creò il ministero che in prima battuta si chiamò ‘per’ i Beni culturali e non ‘dei’ accadde che vennero uniti Belle arti, archivi e biblioteche; l’idea di Spadolini era che essendo l’Italia patria del patrimonio artistico e culturale era inaudito che non avesse un ministero apposito.

-E quindi?

R: E’ accaduto che questa visione ha comportato che il rapporto formazione/educazione/scuola/ tutela del patrimonio artistico si sia scisso spostandosi sempre più dalla formazione/educazione a favore della cosiddetta valorizzazione; poi il colpo finale è stato dato dalla Legge Ronchey con le cosiddette privatizzazioni (che poi non sono tali…) con la conseguenza che ora la parola d’ordine è che queste cose debbono rendere. Insomma il ministero spesso non ha soldi ragione per cui si opera una commistione pubblico – privato nella gestione dei beni culturali; e non voglio dire che tutto sia un male, ma che si è di fronte ad una aberrazione amministrativa e culturale, perché è vero che il patrimonio artistico nazionale è una delle basi del turismo, se pensiamo a come siano determinanti paesaggio, ambiente e beni culturali, c’è però un dettaglio da non trascurare secondo me e cioè che considerando la rilevanza in termini globali del patrimonio artistico è evidente che in percentuale questo supera il dato del turismo. Cioè è il turismo che deve rendere non la tutela dei beni culturali. Si obbietterà che le due cose coincidono. Però se ci pensi non è così ovvio.

-Mi pare in ogni caso che tu insista molto sul lato della formazione …

R: E’ vero, del resto il patrimonio artistico è elemento formativo, è cultura, e la cultura si fa anzitutto a scuola e va da sé quindi che il patrimonio artistico sia elemento formativo, tema che dovrebbe essere premiante; al contrario assistiamo al fatto che diminuisce la spesa pubblica in questi settori mentre aumentano le privatizzazioni, con l’inevitabile scadimento dell’offerta formativa (salvo qualche rara quanto benemerita eccezione) e delle retribuzioni, così che la professione docente è andata via via debilitandosi e non parlo solo dell’istruzione media ma anche universitaria.

-E’ un tema dolente in effetti questo del ridimensionamento del ruolo e della figura dell’insegnante e non solo dal lato economico ma anche da quello etico.

R: Si è così, l’insegnante non dovrebbe essere sottoposto ad alcun tipo di pressione di tipo giuridico o ministeriale; dovrebbe valere anche per loro quello che vale per i giudici che non dipendono dal Ministero della Giustizia ma il Ministero conferisce loro la dignità suprema della funzione giudiziaria, e lo stesso dovrebbe avvenire per la classe docente, che dovrebbe essere dotata dell’autorità conferita dal riconoscimento della suprema funzione della docenza. Al contrario accade che gli insegnanti sono di continuo soggetti a ridimensionamento; ad esempio il fatto che un avvocato, faccio per dire, possa andare in un Consiglio di Classe a discutere dei voti agli studenti mi pare configuri in quale stato sia ridotto oggi il ruolo docente.

-E’ un tema che conosco bene avendo insegnato per svariati anni, come sai, ma vorrei tornare a parlare dei musei; cosa dovrebbe cambiare a tuo parere?

R: Ma il discorso è simile! Posso dire senza tema di smentita che anche i giovani che riescono ad entrare, ad essere occupati nelle istituzioni museali o in genere nel settore dei beni culturali sono mortificati allo stesso livello. Perché? Perché non hanno niente da fare, dopo aver vinto con molta fatica un concorso non riescono a fare granché.

-Perché è così a tuo avviso?

R: Ti faccio io una domanda: pensi che la nostra classe politica abbia davvero idea di cosa occorra fare nel campo dei Beni culturali? Io non lo credo, dal momento che ormai grazie alla famosa o famigerata legge Ronchey più o meno tutto è stato assegnato a strutture private che ovviamente debbono guadagnare, e su questo non si discute, solo che sono solo queste strutture che lavorano.

-Scusami ma allora cosa ci stanno a fare e cosa fanno le varie figure quali i funzionari, gli ispettori delle Belle arti, etc?

R: Ecco, bella domanda, che fanno? La parola di cui tutti paiono riempirsi la bocca è ‘la tutela’! ma in realtà quello che accade è che sovente si perseguitano gli antiquari con vincoli non di rado assurdi ad opere che vengono presentate agli Uffici Esportazione per uscire legalmente dall‘Italia anche se sono di scarso pregio, ma intanto il funzionario è costretto a farlo non volendo correre il rischio di poter trovarsi indagato: insomma mi pare si siano create delle spirali diaboliche che per paradosso in quella che è considerata la terra delle arti non consentono di poter programmare alcunché a livello di pratica di lavoro.

-Secondo te insomma il fatto è che non è che manchi il lavoro nel settore della cultura in generale e dell’arte ma che non si sappia bene cosa fare; è così?

R: Si purtroppo è così, allo stato attuale delle cose ciò che funziona sono gli scavi archeologici anche questi però spesso e volentieri spostati, diciamo così, su organizzazioni private, sia pure sotto la direzione delle soprintendenze; e per riprendere il discorso della docenza, il fatto che gli insegnanti non navighino nell’oro è diretta conseguenza della sottovalutazione del loro ruolo educativo e formativo da parte dello Stato, il che determina inevitabilmente lo scadimento progressivo del loro ruolo sociale, basta pensare a quanto si legge oggi, laddove il dibattito verte non su questi temi ma su sciocchezze tipo se con la cultura si mangia o no, non se con la cultura si lavora.

-Eppure a livello di istituzioni museali ci sono Direttori che con adeguati finanziamenti riescono a fare cose egregie, non sei d’accordo?

R: Ecco, si, e non per caso queste sono le uniche realtà in cui è chiaro come e cosa vuol dire lavorare. Come hai capito, io sono fortemente critico sullo stato delle cose nel settore di cui parliamo, e tuttavia non posso che essere ammirato del lavoro che fanno i direttori entrati in carica con la legge Franceschini del 2014, penso agli Uffizi con Schmidt, o a quello che è stato capace di fare Bellenger a Capodimonte, due stranieri ma certo grandi funzionari, e anche gli italiani non sono da meno, come la mia amica Gennari Santori che dirige Barberini e Corsini, cito i primi che mi vengono in mente; questo per ribadire che non è una questione di nazionalità ma di capacità e competenze, ovviamente se sei messo in condizione di lavorare.

 

-Anche il teatro e il cinema avrebbero bisogno di maggiore attenzione a quanto si dice.

R: Non è il mio campo ma credo che qui la situazione sia diversa; il nostro cinema è sempre stato battagliero e anche oggi la cinematografia mi pare proponga una notevole e significativa produzione; i nostri registi, penso a Sorrentino, Garrone, Virzì e altri ancora non fanno rimpiangere affatto i grandi del passato.

La nostra cinematografia gode in qualche caso del sostegno della politica, non a caso non è infrequente l’intervento della Rai, nella produzione di film, come pure della Direzione generale del cinema; insomma lo stato di salute, diciamo così, non mi pare pessimo, tutt’altro; e anche per quanto riguarda il teatro mi permetto di dire che spesso è la capacità e la competenza dei grandi gestori che rende grande una struttura; pensa al Teatro dell’ Opera di Roma: quando è arrivato Fuortes ha creato un teatro che funziona alla grande; ed è un esempio anche qui tra tanti. Quindi la visione spesso sconsolata di un cinema e un teatro che non vanno non la condivido.

-Ad un intellettuale come te non posso fare a meno di chiedere un ragionato parere sui temi di attualità al di là del tuo settore specifico. Come uomo di cultura, che ha girato il mondo e che conosce svariate realtà e situazioni sociali oltre che culturali, cosa puoi dire di quanto sta accadendo nel mondo?; non credi che la condizione che stiamo attraversando, con la guerra in Ucraina, con le proteste e le feroci repressioni in Iran e così via richieda un grande impegno proprio da parte degli intellettuali?

R: A dirti la verità, io personalmente stento ad esprimermi su questioni di questo tipo, ovvio che riconosco che hai ragione su quello che sta accadendo, ma per quanto mi riguarda è proprio una remora di carattere personale che non mi fa esprimere in modo eclatante, perchè non mi sono mai riconosciuto nel ruolo di portavoce.

-E tuttavia – e scusami se insito- sarebbe opportuno che proprio chi come te ha dato e ancora da molto nel campo dell’arte e della cultura latu sensu prendesse la parola, si facesse sentire su questi temi che investono i valori universali della pace, della tolleranza, del rispetto tra i popoli, oggi brutalmente calpestati: non parlo di una firma su un qualche manifesto (che comunque non c’è), ma che so?, anche un articolo su un grande quotidiano, ad esempio, potrebbe scuotere le coscienze al di là dell’analisi di una mostra o di un libro che certamente è sempre interessante; o no?

R: Certamente non hai torto ma devi anche tener presente che qualche volta, in qualche caso ciò che frena non è il desiderio di farsi sentire, piuttosto è la carenza della effettiva cognizione delle cose. Ti faccio un esempio che mi ha fatto molto riflettere; io ho un amico iraniano-curdo, Fariborz Kamkari, regista e giornalista che in Italia ha girato alcune pellicole oltre che aver pubblicato diversi scritti; con lui ho avuto modo di parlare di quanto sta accadendo e mi ha spiegato bene che la percezione che noi abbiamo è molto distante dalla percezione che si ha da quelle parti, anche a fronte di tragedie così terribili come quelle cui si sta assistendo; il fatto è che ciò che a noi occidentali appare effettivamente disgustoso, a cominciare dalla repressione contro le donne che osano pettinarsi in un certo modo, per non dire delle impiccagioni di giovani di neppure 20 anni, in un paese con differenti modelli culturali e comportamentali, dove si confrontano e spesso si scontrano le diverse componenti etniche, per non parlare di cosa subisce la componente curda, le reazioni possono essere fortissimamente contrastanti. In poche parole, che da Roma o da Parigi si levino potenti voci contro quei crimini serve davvero a molto poco, e agli Ayatollah non creano alcun problema.

-E dunque ne deriva che siamo inermi, che dovremmo restare in silenzio?

R: No certamente, non voglio essere frainteso: è ovvio che quelle stragi vadano assolutamente condannate ma il problema dovrebbe essere spostato su un altro piano, perché su quello politico non ci sono spazi; se ci pensi bene è questo il limite degli stessi appelli del Papa che in modo del tutto ammirevole chiede che si arrivi alla fine delle ostilità, ma è un messaggio che arriva solo come posizione della chiesa cattolica, posizione rispettabilissima ma non così incisiva da provocare effetti significativi. Ti faccio un esempio che credo importante, quello del velo delle donne; a noi occidentali appare come una forma di oppressione e certamente lo è anche per molte donne arabe; tuttavia quando andiamo alla radice della questione ci accorgiamo che questo fatto è inserito all’interno di un insieme di dinamiche di carattere storico, sociale, culturale che poi non lo rendono così rilevante, o quanto meno non come noi crediamo.

-Quindi siamo di fronte ad una sorta di grande illusione qui in occidente circa quello contro cui stanno combattendo con gravi tribolazioni in particolare le donne in Iran?

R: Ma è ovvio che si tratta di un passo avanti, di un segnale profondo verso un cambio di mentalità, quello che voglio dire però è che se noi occidentali pensiamo che quando una donna di Teheran si toglie il velo si aprano le porte della democrazia, non è così, certo il segnale è importante ma dobbiamo toglierci dalla testa l’idea che dalle donne di quel paese o comunque di un paese arabo quel gesto –pur assolutamente rimarchevole, lo ripeto- sia vissuto come noi pensiamo che sia.

-Dunque l’occidente sta sbagliando analisi, sta peccando di superficialità a tuo parere?

R: A parer mio l’occidente sta ad un bivio e rischia di collassare culturalmente perché non percepisce più quale sia il suo ruolo, cosa debba fare a fronte di queste realtà che presentano condizioni del tutto peculiari; un po’ è il discorso di prima sulla scuola e sui beni culturali, laddove la carenza di interventi e di iniziative e la stessa pochezza progettuale lascia sconcertati.

-D’accordo, ma se questo è vero allora ancor più sarebbe necessario che l’intellettuale ingaggiasse –per usare un termine di moda qualche anno fa- la sua battaglia, proponesse idee, soluzioni, alternative. Chi altro potrebbe essere autorizzato a farlo altrimenti?

Risposta di Anna Mattei: Ecco vedi, questo è il limite attuale degli intellettuali, cioè che stentano a rendersi conto quanto possa pesare una loro posizione, quale funzione possa essa avere; vero è che questa funzione è limitata perché non tocca se non l’interno di un paese, tuttavia può aiutare ad orientare l’opinione pubblica, a smuovere le coscienze, allora si che assume incisività. Può farlo sui giornali, nei dibattiti televisivi, coi suoi libri…

-A proposito Claudio, qual è l’ultimo libro che hai letto?

R: Sto finendo in questi giorni l’ultimo volume di Gregorio Botta, Paul Klee. Genio e sregolatezza; che trovo davvero interessante; Botta credo si stia caratterizzando come autore eccellente oltre che bravo artista; il libro ha ovviamente una parte dedicata alla nascita di Bauhaus ed effettivamente leggendo queste pagine ho ripensato ad alcune cose che io stesso avevo notato quando in tempi remoti studiai il movimento al quale Klee venne associato ed ho trovato esempi interessanti di un gruppo di intellettuali (tale era Gropius, certamente) che si unisce in nome di un progetto didattico e nel contempo creativo che conferisce a questo aspetto dell’attività umana perfino un ruolo dirigente, di guida della nazione.

-Il sogno come sappiamo finirà con la fine della repubblica di Weimar.

R: Infatti e non è un caso che saranno proprio le SA e le SS a dargli il colpo finale perché ne percepiscono l’autorevolezza e di conseguenza la pericolosità. Ecco, qui si che si può parlare di destra che mira a distruggere la sinistra e questo non perché Gropius fosse un comunista ma certo proveniva da quel filone del marxismo storico contro cui la destra si scagliava fino alla soppressione fisica. Certamente quegli intellettuali avvertirono di vivere una esperienza comune che misero in atto con coesione e coerenza; oggi però non vedo niente di simile.

Risponde Anna Mattei: Va aggiunto che proprio questo è quello che manca, cioè la coesione, il problema è la frammentazione e l’individualismo, mancano veri momenti di aggregazione. Ce ne sarebbe urgente bisogno, recuperare e creare momenti di aggregazione secondo me è la prima questione da porre per il mondo del lavoro e della cultura.

R: Il problema effettivamente è il respiro che si è capaci di dare ad una battaglia culturale, e chi è in grado di farlo. Per quanto mi riguarda condivido in pieno con te il sogno –chiamiamolo così- dell’intellettuale che nello stesso tempo è specialista di una specifica disciplina nonché cultore della cultura –se mi passi il gioco di parole-, e che quindi in quanto tale entra organicamente nell’agone politico; ma per quanto mi riguarda in quanto intellettuale di sinistra che ha le sue idee, sento il limite probabilmente caratteriale di non avere certezze tali da poter essere in grado di esprimerle in modo perentorio.

-Però il fatto di non avere certezze assolute credo non sia un demerito, al contrario …

R: Anche qui hai ragione e tuttavia se è vero che il discorso sull’impegno degli intellettuali è corretto resta il fatto che non saprei personalmente come proporlo.

Anna Mattei: il problema secondo me è quello che accennavo poco fa, ossia la mancanza di modi e luoghi di un’effettiva aggregazione degli intellettuali ed è ovvio che tutto risulti frammentato e anche l’intellettuale che spesso sentiamo intervenire al di là del suo specifico campo di pertinenza, penso a Cacciari, a Montanari, allo stesso Sgarbi alla fine esprimono singole opinioni che non superano la sfera dell’individualità. Occorre una diversa qualità nella comunicazione, occorre favorire la logica del lavoro sistemico come accade ad esempio nel Cinema. Non a caso a Claudio e a me piace fra tante l’arte della cinematografia, proprio perché non è il singolo che determina il successo o meno di una scena o dell’intera pellicola, ma la partecipazione e l’impegno di un intero sistema, il prodotto di una vera e propria officina che opera guidata da una regia. E allo stesso modo poteva essere una soprintendenza di qualche anno fa, non quelle di oggi che mi appaiono indebolite rispetto ad esempio ai musei. Ne approfitto per tornare un po’ indietro riprendendo quanto dicevate per l’appunto poco fa sui musei, sul lavoro museale, su quanto sia mal retribuito, sui dirigenti se debbano essere italiani o stranieri e così via. Tengo a dire che tra le incongruenze della legge Franceschini quella concernente le modalità di nomina dei Direttori è una delle più evidenti, con quella logica della scelta prima tra 10 poi tra 3 infine ad uno che non è mai stato chiaro come avvenisse davvero, ma soprattutto quello che mi pare veramente incredibile è quanto viene prescritto per salire sulla cattedra di direttore, ossia che il candidato debba parlare ‘fluentemente’ l’inglese; capisci? Non si dice saper scrivere, esprimersi, ragionare in inglese, cosa ovvia considerando che è una lingua internazionale e che quindi per le relazioni che un direttore di museo deve intrattenere la conoscenza della lingua inglese è requisito imprescindibile, ma è assurdo chiedere come criterio di legge che uno la parli fluentemente; allora perchè non si chiede al direttore straniero che pure dovrà dirigere un istituto italiano che sappia parlare fluentemente l’italiano (cosa che sappiamo bene non è), sarebbe più logico. Alla fine si tratta di una norma discriminante che c’è da augurarsi venga cancellata.

P d L Roma  1° Marzo 2023