“Caravaggio profiling”. Un incontro a Gaeta per discutere del libro che definisce ex novo le opere e la personalità dell’artista.

di Giuseppe RESCA

Riceviamo e volentieri pubblichiamo il testo dell’intervento che il dott. Giuseppe Resca ha svolto in occasione della presentazione del suo ultimo volume Caravaggio Profiling, presso l’Aula Magna dell’IISS “G. Caboto” di Gaeta il 25 novembre us. A seguire il link della intervista rilasciata dal dott. Resca per l’occasione.

https://fb.watch/h1J9Pf7Kcg/

Commento al libro “Caravaggio profiling”

L’occasione di questo incontro contribuisce a giustificare l’edizione di un ennesimo libro su Caravaggio, di cui è stato detto tutto.

Apparentemente, però. In realtà quello che manca, a mio avviso, è la spiegazione coerente delle contraddizioni molteplici della sua vita di uomo, spiegazione necessariamente psicologica.

Ma ancor di più il libro serve a mettere in luce come siano proprio queste contraddizioni il movente del suo processo creativo, che può essere spiegato solo sulla base della sua personalità di uomo. E di assassino, aggiungo: ancor prima di aver commesso l’omicidio famoso.

Come sapete, l’opera di Caravaggio può essere suddivisa in tre fasi stilisticamente diverse. Una prima, chiara, luminosa, di immota perfezione rinascimentale fino al 1599. Una seconda, scura, contrassegnata dalla sua principale rivoluzione tecnica (la luce contrapposta all’ombra), in cui fa la sua comparsa la Spada, come ossessione sia della vita che dell’opera. Durerà fino al 1606, anno dell’omicidio di cui parleremo. Una terza, plumbea, terrea, angosciosa e angosciata, in cui regna un sentore di morte, e di morti viventi, che durerà fino alla morte fisica dell’artista (1610).

Le ragioni di queste mutazioni di stile appartengono alla personalità di Caravaggio, non solo artistica. È la sua personalità che cambia nel tempo, ed è proprio la stessa che questo libro si ripromette di chiarificare.

Un libro che ha dunque un progetto ambizioso:

definire ex novo la personalità di Caravaggio, a partire non da quello che sappiamo già di lui, ma da quello che ancora non sappiamo.

E che può essere comunque dedotto obiettivamente dalla sua opera.

Perché si può affermare che tale operazione è scientifica? Perché ci varremo della professionalità di un Profiler per procedere nella nostra indagine.

La figura professionale del Profiler, celebrata da una miriade di film e documentari che furoreggiano nei Media, è una new entry nel panorama scientifico, composto non solo da studiosi delle varie discipline, ma anche da operatori sul campo, quali sono appunto i Profiler, anch’essi scienziati, ma di una disciplina nuova, che possiamo definire Psicologia forense. In essa si rispetta il protocollo critico Cartesiano attraverso l’Onere della Prova, ossia la dimostrazione ineccepibile della veridicità di quel che si afferma a proposito dei fatti osservati, che sono, nel caso, i Delitti.

Anche nel nostro libro figura un delitto, e c’è un assassino: Caravaggio. Si dà il caso che egli sia anche uno dei più grandi artisti della nostra epoca, e che ci abbia lasciato l’eredità di una straordinaria opera pittorica, che può dire molto della sua personalità. Ma che ancora non ha detto tutto, perché non è stata analizzata con i metodi, scientifici appunto, che userebbe un Profiler di recente conio: proprio quello che ci apprestiamo a fare in questa stessa sede.

Sullo schermo possiamo proiettare le immagini di alcuni dipinti dell’autore in questione: quelli che più espressamente riguardano delitti, uccisioni, supplizi, torture e cose cruente, allo stesso modo delle fotografie delle scene del crimine cui siamo abituati.

E facciamo finta di non sapere nulla, al momento, di chi sia Caravaggio, l’autore di tali tele: immaginiamoci che siano esse i delitti di cui ci dobbiamo occupare. Si tratta di indagare le opere come se fossero delitti.

Abbiamo di fronte la Giuditta che decapita Oloferne, il Martirio di San Matteo , la Decollazione del Battista, e il Davide e Golia. Ci avvertono che tali delitti sono stati commessi in sequenza, dal primo all’ultimo.

Giuditta è del 1599, il Martirio del 1600, la Decollazione del 1608 e il Davide del 1610. A quell’epoca il Profiler non era nemmeno nato, ma facciamo conto che si tratti di casi irrisolti.

La prima cosa che evidenzia il Profiler è che l’autore di tali misfatti è sicuramente un Sadico. Non si rimane indifferenti di fronte alla efferatezza che trasuda da queste opere: che non sembrano semplicemente foto ben fatte di crimini cruenti, ma scene del crimine esse stesse.

È vero: spesso l’immagine riprodotta, se realistica, suscita emozioni forti. Ma altro è la visione diretta. Guardando le tele, pare proprio di essere lì, nel momento stesso in cui avviene il fatto. Chiunque ne sia l’autore, è anche il protagonista.

Sovente apprendiamo che i serial killer dipingono i propri delitti, prima ancora di commetterli. Riproducono infinite volte le loro fantasie omicide, quasi per indursi all’azione. Il nostro assassino deve aver fantasticato molte volte di scannare qualcuno, visto il realismo di quel sangue che sgorga a fiotti dalla carotide di Oloferne: nessuno mai ha raggiunto in pittura l’intensità drammatica del gesto omicida di Giuditta, la sua lucidità progettuale, la determinatezza che ci mette. Giuditta è un alter ego perfetto dell’autore del quadro, e il misfatto dell’omicidio ne è solo il corollario.

Ma un profiler esperto ha molto altro da segnalare in queste iconografie, che servono da prova. La ferocia del Carnefice del Martirio di Matteo è la stessa di Giuditta, ma la vittima è diversa: si tratta di un Santo, Matteo, di un Padre della Chiesa, e non di un impostore come Oloferne, tiranno del popolo eletto. Si dirà: bella forza! I soggetti sono diversi, e qui si tratta di pitture commissionate, non scelte dall’artista. Ma anche gli assassini possono agire su commissione, e qui parliamo di un omicida reale, che deve aver studiato a fondo il delitto, quando lo ha commesso. I quadri sono la prova delle sue fantasie omicide, della sua elucubrazione tossica, oltre che le opere di un artista.

E difatti la scena del crimine cambia: il sangue è del tutto scomparso dalla visione, perché l’autore si immagina il gesto, prima ancora di affondare il colpo. Non si compiace più della truculenza dell’atto (Giuditta che stacca la testa usando la spada come una sega), ma immerge l’arma silenziosamente, quasi sofficemente. È un bruto, e in questo assomiglia a Giuditta: ma usa il silenziatore.

La verve sadica fa un passo indietro rispetto alla prima comparsa, come se nel protagonista fosse emersa una sorta di resipiscenza, che lo trattiene, anche se solo per un attimo, dal trucidare la vittima.

Avrà il nostro assassino un briciolo di coscienza?

Nella tela con la Decollazione, parecchi anni dopo, il dilemma appare chiarissimo. Nelle segrete di Erode (il mandante è lo stesso della Strage degli Innocenti) un Carnefice e una Vittima ripetono lo stesso gesto di dare o ricevere morte.

Ma dal collo del Battista scannato sgorga un fiotto di sangue, ben diverso da quello della Giuditta e Oloferne, in cui compare una scritta, perfettamente leggibile, intinta di sangue e sangue essa stessa: “f. michel ANG” .

Un nome? Una firma?

Capita spesso che gli assassini lascino tracce di sé che personalizzino i loro omicidi: ma firmare un delitto è una confessione, il segno di non poter fare altro che uccidere. Perché “f.” sta per “fecit”, colui che commette l’omicidio. Nel quadro però figura soltanto uno scherano anodino, del tutto insignificante di fronte alla bellezza sovrumana di Giuditta o alla potenza del gigante carnefice del Martirio.

Chi avrà fatto questo delitto, se non il segreto autore del nostro dipinto? Che adesso ha un nome: “michel ANG”: che forse sta per Michelangelo?

La risposta sta nell’ultimo quadro della serie, il Davide e Golia: qui compare un volto noto, immediatamente riconoscibile, nei lineamenti tumefatti del gigante morente.

La sua fisionomia ci è nota da mille ritratti, quanti potrebbero essere gli identikit di Bonnie and Clyde, negli anni del proibizionismo: si tratta di Michelangelo Merisi da Caravaggio, immortalato prima di tutto dai molti autoritratti con cui l’artista illustra la sua presenza fisica nei quadri da lui dipinti (foto 53 e 54).

Avere a disposizione finalmente il nome dell’assassino permette al Profiler la ricognizione di ogni documento ufficiale su di lui e il suo ambiente: azioni, opere, circostanze.

In tal modo è possibile analizzare l’opera pittorica a partire dalla sua vita: processo antitetico a quello seguito fin qui, di cercare la persona attraverso lo studio dell’opera. In effetti, l’anello di congiunzione tra il Caravaggio artista e il Caravaggio uomo è la sua personalità, che può essere indagata nei due sensi indifferentemente, a partire dall’opera come dalla persona, purché interpretati in maniera sinottica. Ciò rende quindi plausibile, e fortemente probabile, affermare che Caravaggio è uno dei pochi artisti in cui vita e opera sono pressoché indistinguibili (almeno a partire dall’anno 1599) per quanto riguarda l’ispirazione psichica che motiva entrambi sinergicamente (il che non può certo dirsi per un Raffaello o un Beato Angelico). Il movente del processo creativo dell’artista è lo stesso che lo fa delinquere prima, uccidere poi, e cercare alfine punizione mortale

Ora, dato un nome all’omicida-suicida, quello di Caravaggio, per l’autodenuncia promulgata nel quadro Davide e Golia, il Profiler non fatica a risalire all’evento storico per cui sta indagando: l’omicidio di Ranuccio Tomassoni ad opera del Caravaggio nel 1606, che il Profiler valuta come cardine e fulcro della compulsione a dare-ricevere morte della sua personalità.

La data dell’omicidio, 1606, è intermedia tra le date del primo (Giuditta 1599) e dell’ultimo quadro della serie (il Davide 1610). E si evince che un profondo cambiamento sia intervenuto nel frattempo nell’animo del pittore, ora anche omicida, sia sulla base delle caratteristiche psicologiche dei due dipinti (estrema truculenza nella decapitazione di Oloferne, quasi un’opera splatter ante litteram, contrapposta al sentimento di compassione che traspare nel Davide al cospetto della sua vittima Golia), sia in virtù del fatto che nel secondo dipinto la vittima è lo stesso autore, Caravaggio (che si autoritrae nel Golia).

La compulsione a godere nel trucidare le vittime ha virato verso la disperazione di essere egli stesso vittima: e da questa considerazione diventa leggibile anche il portato emozionale, disperato, del quadro di Malta (la Decollazione del Battista, 1608, intermedio tra l’omicidio, 1606, e l’esecuzione del Davide, 1610). Persino la firma, quel “f. michelANG” dall’ambiguo significato, viene letta ora come fosse un presagio significante: “ciò che Michelangelo ha fatto (l’omicidio) ora Michelangelo dovrà pagare”. Il carnefice di un tempo diverrà vittima del suo atto.

È semplicistico sostenere che Caravaggio abbia tema di morire sul patibolo: è da tempo, molto prima di commettere omicidio, che Caravaggio dipinge come fosse spettatore della propria morte annunciata. Ne fanno fede gli autoritratti: uno giovanile, ancora del 1596, lo rappresenta nei panni di Medusa decollata, orripilata dalla visione di se stessa, e della trasformazione dei suoi bellissimi capelli in serpi.

L’orrore che trapela dalla visione non è quello dello spettatore, che è abituato a tali scene: è quello del protagonista del quadro, Medusa. Il che suggerisce che Caravaggio, dipingendosi nel volto di lei, vi si immedesimi a tal punto a ragione di una visione che deve aver patito involontariamente: fenomeno che gli psichiatri denominano “allucinazione”. Ne vedremo presto altri esempi.

Come del resto i presagi. Molte sue opere sono allusive di qualcosa che il pittore teme avvenga, ma che poi purtroppo si verifica realmente nella vita di Caravaggio. Un altro autoritratto, il Bacchino malato, ne è esempio. Si può dipingere Bacco in tantissimi modi, ma ritrarlo malato è un ossimoro: “Bacco-malattia” è una contraddizione iconografica, data la vitalità del soggetto. Soltanto Caravaggio, che io conosca, ha dipinto tale soggetto. E di pittori malati, e ubriachi, ce ne sono stati parecchi.

Sarà stato un presagio, si domanda il Profiler, o forse soltanto il sentore di una vulnerabilità interiore, tale da sottendere un destino infausto? Certo è che il Bacco malato come prima opera di Caravaggio, e il Golia decollato come ultima, è difficile non pensarli in doppio: l’alfa e l’omega di un destino preannunciato.

Un ulteriore autoritratto compare nel Martirio di Matteo, (della testa di Medusa parleremo in seguito), dove il pittore si raffigura tra gli astanti alla scena criminosa.

Prima ancora che il volto (Caravaggio scruta incredulo l’evento), il Profiler sottolinea il gesto di lui, che con la mano vorrebbe fermare la scena. Ritroveremo lo stesso gesto in seguito, nella Resurrezione di Lazzaro, con il medesimo significato di impotenza verso un evento drammatico, ma ineludibile.

Perché Caravaggio tratta in modo drammatico un evento miracoloso (una Resurrezione)? Tutto nella scena appare come la riesumazione di un corpo (Lazzaro), anziché la sua resurrezione: la luce che accompagna l’evento non è luce celeste, ma luce infernale, luce dell’Ade. Chissà quante volte Caravaggio avrà assistito a eventi simili, ossia la riesumazione di corpi morti. Ne è un esempio Maria nella Morte della Vergine: già all’epoca si parlava di una prostituta suicida annegata nel Tevere.

Ma nella Resurrezione dipinta da Caravaggio tutto fa pensare che Lazzaro sia costretto a risorgere, e non lo desideri affatto: la rigidità cadaverica del corpo morto, che il pittore rende magistralmente, dà proprio l’impressione di un miracolo impossibile. Il gesto di Cristo, che impone resurrezione, è tanto diverso dall’identico gesto nella Vocazione di Matteo, che figura imperioso, e convincente.

Qui invece si scontra con una massa di corpi che si frappongono tra Cristo e il miracolato, in una calca bestiale, una ridda di grida, un gesticolare convulso: molto più simile al caos della folla del Martirio di Matteo che non all’equilibrio della Vocazione del Santo.

Cosa è cambiato da allora? Che Matteo implorava di vivere, mentre Lazzaro pretende la morte. E non vorrebbe risorgere, pensiamo, nemmeno nel giorno del Giudizio.

Nel quadro è lo stesso Caravaggio a deprecare il miracolo: il suo volto spiritato pare contrapporsi al volere divino, che impone resurrezione là dove regna l’Inferno. La scena livida, impregnata di miasmi pestiferi, illuminata da una luce radente che non accarezza, ma disseca tagliente le figure, è una scena dell’anima del pittore, tormentata da sentori letali più che illusa da improbabili miracoli.

Il fatto è che nel frattempo Caravaggio ha fallito la sua ultima prova. Convinto dalla Marchesa, sua protettrice, a recarsi a Malta presso l’Ordine dei Cavalieri, al fine di ottenere quello status di Cavaliere di Grazia che lo avrebbe posto al riparo dall’esecuzione a morte, il pittore ha sopportato un intero anno di severa osservanza, oltre a dipingere per il Gran Maestro dell’Ordine. Ma poi, finito il noviziato e ottenuto il titolo ambito, una qualche oscura ragione lo ha portato al rifiuto, alla prigione e alla fuga dall’isola. La sentenza capitale dell’Ordine ne segue inesorabile: espulso e condannato “tamquam membrum putridum et foetidum”.

E tale deve sentirsi Caravaggio: perché dovrebbe pretendere grazia? Non lo fa: ogni volta che si avvicina la grazia (sono i suoi protettori a richiederla, assieme ai suoi committenti, che vorrebbero tutti che egli fosse graziato, e restasse in vita a dipingere per loro), lui fa qualcosa di grave per negarsela. Lazzaro è Caravaggio: un cadavere che non vuole risorgere.

Nel Seppellimento di Santa Lucia, contemporaneo alla Resurrezione di Lazzaro (1609 per entrambi), tutto parla di morte:

è il dipinto più disperato che esista. Non c’è rimedio, non c’è soluzione: la morte è la risoluzione.

Cito solo altri due quadri suoi, con lui in persona presente alla scena in cui si ritrae: la Cattura di Cristo e il Martirio di Sant’Orsola: quadri entrambi sulfurei, che trattano di tradimento e punizione mortali.

Nel primo Caravaggio non solo assiste alla scena, ma cerca di fare luce con una lampada al crimine che si sta perpetrando (il tradimento del Salvatore): il Profiler vi legge che è come se, al contempo, volesse indagare, nel fondo dell’anima propria, l’ineluttabile spinta a rifiutare l’ultima occasione di personale salvezza (siamo cronologicamente alla vigilia dell’omicidio di Ranuccio).

Nel secondo si offre in sacrificio alla esecuzione a morte sua propria, in uno con quella di Sant’Orsola, cui si accosta per ricevere in petto il dardo mortale (siamo alla vigilia della sua fine).

Ma facciamo un passo indietro: si dobbiamo chiedere da dove tragga origine questa compulsione a dare-ricevere morte; quale ne sia la matrice nell’esperienza storica del pittore, e quale la dinamica di sviluppo. Nel libro si troverà una ricostruzione storica dell’infanzia di Caravaggio, dell’ambiente in cui visse e delle circostanze per cui si trovò a patire un complesso di inferiorità, lui figlio di piccoli borghesi servitori dei Marchesi di Caravaggio, verso i privilegi della classe aristocratica di padroni.

Si parlerà della logica padronale che informa la sua esistenza bastarda, fatta di continui torti inflitti all’infima gente da cui era circondato, rispetto alla quale si sentiva superiore. E infine, con prepotenza, entrerà in scena la compulsione a portare Spada, emblema e status symbol di quei Cavalieri di cui invidiava i natali, e di cui pretendeva di imitare i costumi e di godere dell’impunità di offendere che ad essi era concessa.

Se da cosa nasce cosa, è esattamente da questa compulsione a portare Spada, evidente a partire dal 1599 in poi nella vita e nell’opera di Caravaggio (è proprio da quell’anno che la Spada fa il suo ingresso nell’una e nell’altra), che germina la pulsione a dare morte: che esita infine nell’omicidio, evitabilissimo, di Ranuccio Tomassoni.

Da quel momento in poi sarà evidente, progressivamente, come sia i fatti della vita di Caravaggio che lo spirito della sua pittura tracceranno il percorso opposto a quello descritto finora: una conversione a centoottanta gradi verso una fanatica determinazione a ricevere morte, a dispetto di ogni perdono o disposizione di Grazia. Fino all’esito inevitabile della sua parabola esistenziale.

Ma dal momento che la ricostruzione storico-psicologica toglie spazio al Profiler (e forse susciterebbe la sdegnata riprovazione dei puristi, che abbondano tra gli storici dell’arte, nel pervenire alle inevitabili conclusioni anticonvenzionali) mi rimetto alla clemenza della corte.

Giuseppe RESCA  Gaeta 25 Novembre 2022