Bernini e Romanelli, due capolavori in S. Giacomo alla Lungara; un saggio di Marcello Fagiolo

di Marcello FAGIOLO

In occasione del  quarantesimo anniversario della nascita del Centro di Studi sulla Cultura e l’Immagine di Roma, promosso nel 1980 dal Prof. Marcello Fagiolo, insieme a Giulio Carlo Argan, allora Sindaco di Roma, About Art è lieta di ospitare un importante saggio scritto dal prof. Fagiolo, concernente due capolavori di Gianlorenzo Bernini e Giovan Francesco Romanelli nella chiesa di San Giacomo alla Lungara a sostegno della iniziativa di crowdfunding per un restauro da parte della Associazione no profit Verderame Progetto Cultura

Tra Morte e Assunzione in Cielo; due capolavori di Bernini e di Romanelli  in S. Giacomo alla Lungara

Presento qui alcune considerazioni sulla lettura del San Giacomo, la pala d’altare di Giovan Francesco Romanelli in rapporto con Gianlorenzo Bernini, a partire dalla Memoria di Ippolito Merenda (realizzata per il convento adiacente e trasportata in chiesa dopo la sua demolizione), Memoria commissionata dallo stesso cardinale Francesco Barberini, promotore della ricostruzione della chiesa tra il 1640 e il 1664 nonché protettore del Romanelli.

Le impressionanti tangenze con le invenzioni berniniane vanno inserite nel quadro di una chiesa che – già definita “via sancta” perché posta sull’itinerario di collegamento tra le basiliche – era stata scelta come “filiale” della basilica vaticana: di qui le analogie con alcune opere berniniane in S. Pietro, non sappiamo se dovute alla frequentazione fra i due artisti ovvero se ispirate dalla committenza barberiniana.

Il San Giacomo rivela comunque la compiuta acquisizione delle modalità di Pietro da Cortona e di Bernini negli anni che seguono la precoce elezione di Romanelli a Principe dell’Accademia di San Luca. Vanno ricordate per di più le vite parallele di Romanelli e Bernini, entrambi attivi tra la corte vaticana e la Francia (il viaggio di Bernini in Francia fu compiuto peraltro dopo la morte di Romanelli).

Iniziamo con la straordinaria Memoria di Ippolito Merenda, benefattore della chiesa, iniziata verso il 1640 come semplice epigrafe (analoga a quelle ideate da Bernini nelle facciate interne dell’Aracoeli e di S. Andrea al Quirinale).

Si tratta di un momento molto importante nella lunga serie di immagini della Morte elaborate da Bernini come protagoniste di quello che possiamo chiamare “Teatro del Tempo e della Morte”. Nella contemporanea Tomba di Alessandro Valtrini in S. Lorenzo in Damaso, la Morte sorregge il clipeo con l’immagine del defunto appoggiandosi a un pesante drappo.

Nel mosaico pavimentale della Cappella Chigi in S. Maria del Popolo la Morte sembra emergere su sfondo nero dal sottosuolo ostentando lo stemma Chigi innalzato verso il cielo. Nel Monumento di Urbano VIII in S. Pietro, la Morte emerge dal sepolcro per incidere a lettere d’oro sul libro dei pontefici il nome del papa Barberini. Qualche decennio dopo nel Monumento di Alessandro VII, sempre in S. Pietro, la Morte solleva l’oceanico drappo di diaspro che fa da basamento alle Virtù papali e ostenta la Clessidra, inesorabile come la Falce.

Nella Memoria Merenda, la Morte esibisce tragicamente il drappo dell’epigrafe che sorregge coi denti con ironia un po’ macabra, alludendo certamente al potere della Morte divoratrice della memoria. Ma bisogna osservare in particolare quel drappo stupefacente che lascia trasparire le ossa, quasi in una parodia del velo della Sindone (con immagine a bassorilievo anziché bidimensionale).

L’idea della Sindone, secondo la mia interpretazione, torna più volte nell’opera berniniana, per non parlare del panno col “Volto Santo” ovvero “Veronica”, la più importante reliquia della basilica vaticana. Nel 1635-39 Francesco Mochi realizza la statua colossale della Veronica, capolavoro barocco ideato sotto la supervisione di Bernini nella crociera di S. Pietro, con un pathos drammatico che peraltro va aldilà del progetto iniziale di Bernini, esprimendo insieme il dialogo con la passione di Cristo e la corsa della Veronica che secondo la leggenda avrebbe portato la reliquia da Gerusalemme a Roma. La Veronica appare investita da un vento poderoso che gonfia come una vela il panno leggendario col volto di Gesù.

Qualche anno dopo, nel 1647 Bernini realizza la Memoria di Suor Maria Raggi in S. Maria sopra Minerva, in cui il clipeo con l’immagine della venerabile suora è appoggiato sopra un drappo marmoreo nero bordato di giallo che può alludere insieme ai drappeggi delle cerimonie funebri, alla veste monacale e al lenzuolo della Sindone. Il drappo, che è una costante scenografica nell’opera berniniana, si increspa con pieghe che visualizzano la forza di un vento misterioso e invisibile, ispirato forse dal vento della Veronica di Mochi.

Recentemente una fotografa, Daniela di Sarra, ha avuto l’intuizione di comparare il Volto di Cristo quale appare nella Sindone di Torino con l’ultima opera di Bernini, il busto del Salvator Mundi (scoperto in S. Sebastiano fuori le Mura da Francesco Petrucci e poi studiato da Maurizio Fagiolo dell’Arco). Il volto della Sindone e quello del Salvatore di Bernini appaiono perfettamente sovrapponibili e praticamente identici nella fisionomia. La scoperta è stata illustrata dalla stessa fotografa in una Mostra e in un libro.

Ma come aveva fatto Bernini a conoscere la Sindone?

Sicuramente doveva averla vista e studiata al tempo della sua accoglienza trionfale a Torino nel 1665, sulla strada per Parigi. Già nel 1656 la Sindone era stata venerata da Cristina di Svezia sulla strada verso Roma, prima dell’ingresso trionfale con gli apparati trionfali disegnati da Bernini di cui sarebbe stata poi protettrice, amica e confidente nella sua corte del Palazzo Riario (poi Corsini) alla Lungara.

I legami culturali con la basilica vaticana – pienamente legittimi in una chiesa che era “filiale” di S. Pietro – potrebbero spiegare le tangenze del San Giacomo di Romanelli con le tematiche artistiche presenti in S. Pietro.

Mi riferisco all’evidente dialogo del San Giacomo col Longino di Bernini nella crociera di S. Pietro, l’unica delle quattro statue colossali eseguita direttamente da Gianlorenzo.

Il bastone da pellegrino del San Giacomo viene impugnato con la solennità di un pastorale, aggiungendosi al libro sotto il braccio sinistro, piuttosto incongruo per l’apostolo, che fa pensare piuttosto ai Padri della Chiesa che sorreggono la Cattedra berniniana, e in particolare al Sant’Agostino col libro, mentre la gestualità a braccia spalancate nella esibita imitatio Christi può rievocare il Sant’Atanasio.

Ma il gesto trova un riferimento anche nello stucco di Antonio Raggi col Sant’Andrea in ascensione in Sant’Andrea al Quirinale, mentre il dialogo del santo con gli angeli nel quadro di Romanelli fa pensare al quadro d’altare del Borgognone nella stessa chiesa di S. Andrea al Quirinale

E va ricordato che Andrea e Giacomo erano stati fra i primi quattro Apostoli chiamati da Gesù. La rara iconografia della incoronazione celeste del San Giacomo sembra annunciare l’ascensione in cielo forse in relazione allo status  privilegiato dell’apostolo che, insieme a Giovanni e  Pietro, era stato testimone della Trasfigurazione di Cristo.

Marcello FAGIOLO    Roma 22 febbraio 2020