di Francesco MONTUORI
Migranti sull’About
di M. Martini e F. Montuori
“Dopo il ‘700 non è più esistita nessuna architettura. Un balordo miscuglio dei più vari elementi di stile usato a mascherare lo scheletro della casa moderna, è chiamata architettura moderna. La bellezza nuova del cemento e del ferro vien profanata con la sovrapposizione di carnevalesche incrostazioni decorative, che non sono giustificate né dalle necessità costruttive, né dal nostro gusto, e traggono origine dalle antichità egiziana, indiana o bizantina, e da quello sbalorditivo fiorire di idiozie e di impotenza che prese il nome di “neo-classicismo”.
L’incipit del Manifesto “L’architettura Futurista” pubblicato del giovane Antonio Sant’Elia l’11 luglio del 1914, ci appare decisamente provocatorio e sommario, animato da una febbre distruttiva: Buttiamo all’aria tutto.. L’architettura si stacca dalla tradizione. Si ricomincia da capo per forza. Ma se osserviamo i suoi disegni per la Città Nuova, – due fra i più significativi sono a corredo della sua invettiva e vanno considerati come parte integrante del Manifesto (figg. 1 e 2) – capiamo che quest’enfasi nichilista è funzionale all’aspirazione di una nuova architettura, promotrice di un profondo rinnovamento spaziale e figurativo.
Antonio Sant’Elia è alla ricerca di “un’arte, unità di sintesi ed espressione”,un’ esigenza di riconquistare il volume tridimensionale, l’integrità dell’edificio, attraverso una nuova architettura che sappia interpretare il dinamismo della moderna società meccanizzata. Il tema centrale della città lo ricollega al movimento futurista di Marinetti: la città è il luogo deputato della modernità, i essa si incarna il futuro, la velocità, il movimento.
Antonio Sant’Elia era nato a Como nel 1888; capomastro, disegnatore edile si iscrive all’Accademia di Brera nel corso di architettura; allievo di Camillo Boito conoscerà Carrà e Boccioni. Diviene seguace e ammiratore della scuola viennese di Otto Wagner e questo riferimento figurativo segnerà a fondo la sua formazione di architetto. Nel 1915 interviene come volontario nel conflitto mondiale; nel 1916 progetterà il nuovo cimitero della Brigata Arezzo in cui militava. Il 10 ottobre, a ventotto anni muore in un’azione d’assalto. Sarà sepolto nel suo cimitero, ancora in costruzione.
Gli anni della formazione
Camillo Boito aveva già indicato nel 1880 i nuovi compiti dell’architettura dopo l’Unità dell’Italia: le grandi infrastrutture urbane, le stazioni ferroviarie, i grandi mercati, i macelli. Direttore della rivista “L’arte decorativa e industriale” ed a conoscenza della rivista “Emporium”, illustrò al suo allievo Antonio Sant’Elia le opere di Otto Wagner ove si indicava la necessità di un nuovo rapporto fra la volontà artistica e la moderna tecnologia. Dalla copertina della rivista austriaca “Der Architect” del 1905 Sant’Elia potrà ammirare la famosa chiesa di Wagner lo Steinhof sovrapposta polemicamente alla basilica di San Pietro.
I contatti fra la scuola wagneriana e Sant’Elia avvennero esclusivamente tramite le riviste specializzate; così grazie a Boito,divenuto direttore dell’Accademia di Brera, Sant’Elia fu puntualmente informato sulle correnti architettoniche europee. Durante l’Esposizione Universale del 1911 a Roma potrà apprezzare le opere di Klimt e di Franz von Stuck. Sempre a Roma visiterà il padiglione austriaco di Joseph Hoffman, architetto di spicco del modernismo viennese, seppur ancora legato ad un essenziale neo-classicismo. Nei suoi primi progetti professionali e concorsi Sant’Elia utilizzerà le sue fonti di ispirazione, come nello “Studio di un edificio cimiteriale sormontato da cupola” (fig. 3), dove evidenti sono i partiti decorativi wagneriani e klimtiani nelle figure, deformate e contorte, che adornano la cappella.
Circolavano nelle pagine dell’Illustrazione Italiana le immagini travolgenti delle città verticali americane. Sant’Elia venne affascinato da Kings’ of New York, pubblicato da Moses King nel 1908, dove una famosissima tavola , “La circolazione futura e i grattanuvole di New York” illustrava il futuro prossimo della città americana: vertiginosi grattacieli erano rappresentati fra dirigibili, aerei, veicoli, mentre passerelle si libravano alte sulle strade sottostanti (fig. 4).
Non stupisce allora, come in Sant’Elia fossero presenti, nella sua produzione, a fianco degli esercizi in stile esplicitamente riferibili alla secessione viennese, le visioni inedite e sfavillanti della Città Futura.
La sua predilezione per il disegno architettonico in prospettiva, che scandalizzeranno gli storici, come Leonardo Benevolo, per l’assenza di piante e sezioni, era all’epoca condiviso dall’intera giovane architettura europea. E’ infatti una manifestazione caratteristica dalle fasi di forte innovazione di una cultura stagnante e ripetitiva: le prospettive di Sant’Elia saranno anch’esse un Manifesto e permetteranno di comunicare con chiarezza le idee innovative e di esplicita rottura gettando un sasso nel placido conformismo in cui versava la cultura italiana.
Il Movimento futurista
Gli ultimi anni dell’Ottocento e il primo ventennio del 1900 furono infatti caratterizzati, in Italia, da un’anacronismo culturale che soffocava sistematicamente ogni espressione poetica. Ci ricordano oggi la situazione degli anni del secondo dopoguerra con l’egemonia indiscutibile e la successiva inevitabile crisi dell’Intenational stile. Anche in questo caso decisiva fu l’architettura disegnata. Allora la rivolta verso il passato fu gridata ad alta voce dal Movimento Futurista, a cui va il merito di aver affrontato il problema non più rinviabile del rinnovamento dell’arte italiana, contro luoghi comuni e delle facili convinzioni della piccola borghesia benpensante. Umberto Boccioni lo sintetizzerà nel suo scritto “Fondamento plastico della scultura e pittura futurista”: “Noi italiani moderni siamo senza passato.” La sensibilità che scaturisce dalle nuovissime condizioni di vita permetterà a tutte le arti di creare nuove relazioni di forma e colore “calpestando quanto è grottesco, pesante antitetico con noi – tradizione, stile, estetica, proporzione – determinando nuove linee, una nuova ragion d’essere”.
Giulio Carlo Argan ci ricorda che le avanguardie sono un fenomeno tipico delle società culturalmente arretrate; per primo Umberto Boccioni, pittore, scultore, polemista, in lucidi ed illuminanti scritti indicò la strada per uscire dal provincialismo ed allineare la cultura italiana con quella europea: occorreva far propria l’esperienza del Romanticismo, dell’Impressionismo, del Cubismo e nello stesso tempo superarla criticamente. Dal “Manifesto della pittura futurista” dell’aprile 1912 esce un
“grido di ribellione rivolto agli artisti giovani d’Italia, per combattere la religione del passato, alimentata dai musei….per il progresso scientifico e il rinnovamento della società…noi denunciamo al disprezzo dei giovani tutta quella canaglia incosciente che a Roma applaude a una stomachevole rifioritura di classicismo rammollito”…
Boccioni proclama la “distruzione della vecchia ed inutile simmetria” ed auspica l’autonomia delle molteplici componenti l’edificio. Nelle sue pitture le facciate delle case “devono scendere, salire, scomporsi entrare o sporgere secondo la potente necessità degli ambienti che la compongono” (fig. 5)
La Città Nuova
Nell’impaginazione conforme ai canoni rigorosi dei manifesti futuristi, l’esposizione programmatica del Manifesto dell’Architettura futurista elenca al decimo punto i principi da porre in atto contro la cultura ufficiale: “Combatto e disprezzo tutta l’architettura classica, solenne, ieratica, scenografica, decorativa, monumentale, leggiadra, piacevole e proclamo che l’architettura futurista è l’architettura del calcolo, dell’audacia temeraria e della semplicità: l’architettura del cemento armato, del ferro, del vetro, del cartone, della fibra tessile e di tutti quei surrogati al legno alla pietra al mattone che permettono di ottenere il massimo della elasticità e della leggerezza. Bisognerà dunque armonizzare con libertà e grande coraggio, l’ambiente con l’uomo, cioè rendere il mondo delle case una proiezione diretta del mondo dello spirito;…..questo costante rinnovamento dell’ambiente architettonico contribuirà alla vittoria del futurismo.
Le tavole della Città Nuova di Antonio Sant’Elia saranno esposte a Milano nel maggio 1914, in esse sono rappresentati i grandi spazi urbani della moderna metropoli. Sant’Elia non è condizionato da una precisa committenza professionale e si libera finalmente dai segni decorativi della secessione viennese. Il disegno di architettura gli consente di misurarsi con le geometrie pure ed astratte del cubo, della sfera, del cilindro.
Le prospettive dal basso o a volo d’uccello, gli scorci fortemente diagonali, il taglio ravvicinato della composizione accentuano la verticalità delle rappresentazioni e sottolineano il carattere monumentale dei caseggiati. Sant’Elia mette al centro della composizione la configurazione dei volumi architettonici: le superfici inclinate, i corpi cilindrici, i prismi rastremati, i tronchi di piramide e di cono, montati e ricomposti in figure geometriche complesse. Esse ospitano nelle loro cavità vaste sale teatrali; articolano le stazioni ferroviarie nella leggerezza delle strutture in ferro e vetro; i volumi verticali a servizio dei viaggiatori svettano come moderni monumenti di una società nuova (figg. 6 e 7)
Il 1914 è lo stesso anno in cui Le Corbusier concepisce Les Maisons Dom-ino, un completo sistema costruttivo in cemento armato, del tutto indipendente dalla funzione, per far fronte alla ricostruzione dei villaggi delle Fiandre devastati dalla Grande Guerra. Les Maisons Dom-ino saranno la cellula minima per i grandiosi edifici che Le Corbusier proporrà per “une ville contemporaine” da tre milioni di abitanti (fig. 8);
lo stesso Eric Mendelson, fra il 1914 e il 1915 tracciava i suoi schizzi di aeroporti e stazioni, di edifici industriali, ripetendo, come Sant’Elia quelle stesse manipolazioni sulle semplici geometrie dei volumi architettonici rappresentati, quelle stesse contrapposizioni tra lisce superfici murarie e gli scuri volumetrici dei piani vetrati (fig. 9);
Frank LLoyd Wright aveva progettato fin dal 1904 i grandi volumi dei Larking Company Amministration Building di Buffalo New York (fig. 10)
Non sappiamo se Sant’Elia conoscesse le proposte dei grandi maestri del Movimento Moderno. Certo partecipava di un comune sentire; sviluppando in grande piccoli e rapidi schizzi, come Alberto Longatti annota in “Quel visionario di ferrigne visioni”, tracciava la sua proposta, l’immagine composita e frazionata di una megalopoli dove tutto è mosso dalla velocità, dove la corrente elettrica spinge gli ascensori lungo i casamenti, i veicoli sulle rotaie delle strade, i rari pedoni sui tapies roulants.
Sant’Elia dà così inizio al rinnovamento dell’architettura italiana ponendosi sullo stesso piano di quei grandi maestri; rovescia idealmente un cimitero di vetusti monumenti neo-classici, templi, musei, arengari per aprire i suoi disegni a grandi alberghi, stazioni ferroviarie, a strade immense, porti colossali, gallerie luminose rettifili infiniti che pur tuttavia accennano sempre ad un tessuto connettivo di una più vasta operazione insediativa della Città Futura. Fa “piazza pulita” della civiltà architettonica del passato, ma non ne cancella la memoria; riutilizza, senza decori, gli archetipi fondativi di ogni architettura: la casa, il castello, la torre, il ponte. Egli si distingue dal nascente razionalismo architettonico per i riferimenti figurativi, certamente consapevoli, alla città medioevale italiana: per i muri scoscesi, gli speroni architettonici, i varchi degli archi sugli spazi interni, i risalti dei torricini da lui rappresentati in cima ai volumi della metropoli moderna, come negli archi trionfali di accesso al centro antico di Perugia o nelle torri medioevali di Siena, San Giminiano, Gubbio. (figg. 11 e 12)
La Città Nuova immaginata da Sant’Elia nasce da un atto di volontà: dalla negazione di un mondo di figure che stava scomparendo per lasciare il campo ad una metropoli deserta, fatta in funzione della vita moderna, di cui tuttavia non riesce a percepire la drammaticità e la fragilità. Siamo nell’11 luglio del 1914. L’Italia si appresta ad entrare nella prima Grande Guerra; nel momento delle grandi scelte politiche prevarrà il nazionalismo e l’interventismo. Quel “costruttore di case ciclopiche” il visionario di “ferrigne visioni”, come lo ricordò con ammirazione Margherita Sarfatti, le aveva portate con sé per sempre cadendo al suolo in un assalto, alla testa di un plotone di zappatori.
Poco più tardi l’Italia scivolerà dalla Grande Guerra alla dittatura fascista. Marinetti, che il futurismo aveva fondato a Parigi nel 1909, proclamando nel suo Manifesto
“Noi vogliamo glorificare la guerra, il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna”,
sosterrà che nel fascismo si inverava il futurismo, che il futuro sperato era diventato presente. La passione per la libertà si trasformò in disciplina gerarchica.
Francesco MONTUORI Roma 22 febbraio 2020