Architetti & Ingegneri: la trasformazione di Roma dal 1920 al 1969, fabbricati, villini e palazzine (Parte 1^)

di Francesco MONTUORI

L’edilizia a Roma dal 1920 al 1969

DAL  VILLINO  ALLA  PALAZZINA 

Migranti sull’About

di M. Martini e F. Montuori

PRIMA PARTE

Come appariva Roma ad un viaggiatore degli inizi del Novecento? La forma della città era ancora quella che gli fu conferita in epoca antica fino alla grande stagione del barocco. Da non molto Capitale d’Italia contava allora poco più di 500 mila abitanti; l’edilizia era organizzata secondo un tessuto urbano continuo, lungo il sistema viario delle vie consolari e dei grandi assi disegnati da Sisto V.

Il suo ruolo di Capitale costituiva un fattore di enorme attrazione. Con il Piano Regolatore del 1909 redatto da Edmondo Sanjust di Teulada su incarico di Ernesto Nathan, primo sindaco eletto dal blocco del popolo, viene previsto un forte incremento della popolazione pari al doppio di quella preesistente. Sono previsti i nuovi quartieri di piazza Mazzini, di piazza Bologna, di piazza Verbano e una forte espansione sull’asse viario Appio-Tuscolano ed introdotti nuovi tipi edilizi, i fabbricati con altezza massima di 24 metri che diverranno 28 nel 1914 e 30 nel 1923, destinati alla popolazione immigrata a basso reddito e un secondo tipo edilizio, il villino, destinato a soddisfare le esigenze di rappresentanza della nuova borghesia agiata.

Il nuovo tessuto edilizio presupponeva dunque la discontinuità dell’edilizia della città novecentesca.

Nel Regolamento Edilizio del 1911 si precisava che

“nelle zone destinate a villini, questi dovranno essere isolati dalle vie, con rientranze dal filo stradale non inferiore a 4 metri, composti di non più di due piani oltre il piano terreno sopraelevato dal suolo” e sottolineava che “la costruzione dovrà avere vedute a prospetto (sic) in tutte le fronti”.

A partire dagli anni ’20, e in particolare con l’avvento del regime fascista, la spinta ad una forte crescita della città diviene incontrollabile; si procede alla realizzazione di nuove infrastrutture nella fascia intermedia, fra centro antico e la periferia estrema delle borgate e si consolidano i nuovi quartieri destinati agli impiegati dello stato, agli addetti ai servizi, ai commercianti, alle attività per il tempo libero.

Emergeva in particolare, nella accentuata divisione del lavoro, l’esigenza di un’edilizia di qualità destinata ai nuovi ceti dirigenti dello Stato e, più in generale, alla nuova borghesia impiegatizia; nuovi quartieri caratterizzati da un’edilizia adeguata al nuovo ceto sociale. Già nel Regio Decreto del 1920 veniva introdotto nel Regolamento Edilizio la possibilità di realizzare, nelle zone destinate a villini, un nuovo tipo edilizio di maggior volumetria, la cosidetta palazzina. Le palazzine potranno coprire un lotto di superficie superiore di quelli previsti per i villini, dovranno avere vedute “a prospetto” su tutti i fronti che potranno estendersi fino a metri 25 ed essere distaccati di soli 5,80 metri dai confini dei lotti attigui.

Si trattava ancora di una definizione ambigua che veniva con chiarezza precisata dal Piano Regolatore del 1931 che ne definiva con esattezza le caratteristiche:

“le fronti non maggiori di metri 28, elevabili a metri 38 se con ritiri parziali non inferiori a metri 4; altezza massima metri 19 comprendente non più di tre piani oltre al piano terreno sopraelevato dal suolo, distacchi del fabbricato di almeno metri 5,70 da ogni confine interno”.

Il nuovo Piano Regolatore del 1931 destinava vaste aree per la realizzazione delle palazzine, in particolare nel quadrante nord della città. Al tessuto edilizio continuo della città storica si vennero così ad aggiungersi nuovi quartieri formati da nuove unità residenziali discontinue, il villino e la palazzina.

Il barocchetto.

Ai nuovi tipi edilizi corrisponderà un nuovo linguaggio architettonico che caratterizzerà il volto della Roma del ‘900.

Dopo la prima guerra mondiale il l’architettura romana deve fare i conti con lo stile eclettico che, nella seconda metà dell’ottocento e del primo novecento, rappresentava l’indirizzo stilistico prevalente, in particolare nell’edilizia rappresentativa. Il senso dell’architettura eclettica consisteva nell’attingere all’immenso repertorio di forme del passato, scegliendo gli accostamenti più spericolati ed improbabili: nei fatti, tranne poche eccezioni, un assemblaggio di stili contrastanti, spesso goffe caricature di stili dell’antica Grecia. Un esempio per tutti, l’Altare della Patria a Piazza Venezia.

Sarà Gustavo Giovannoni, storico e critico dell’architettura nonché promotore della prima Facoltà di Architettura che dirigerà a Roma fra il 1927 e il 1935, a proporre un indirizzo stilistico di uscita dall’eclettismo. Come sempre in Italia, si tratterà di individuare una strada fra tradizione ed innovazione. Lo studio dell’architettura seicentesca minore, ricca di episodi – scalinate avvolgenti, logge rientranti o sporgenti, dettagli decorativi, statue marmoree e vasi terminali – rappresenteranno il materiale di un nuovo stile più dimesso, pittoresco e dialettale, che sarà chiamato barocchetto.

fig. 1 Villini alla Garbatella

Il barocchetto caratterizzerà l’ultima stagione del villino romano e la sua trasformazione nella palazzina romana (fig. 1 ).

In un saggio ben documentato Piero Ostilio Rossi sulla rivista Metamorfosi sottolinerà che

la base sociale che favori’ il diffondersi dell’architettura barocca minore a Roma fu di offrire al ceto medio della Capitale un’abitazione con un proprio decoro; un’architettura non monumentale ma riconoscibile per la semplicità dei suoi partiti e dei materiali utilizzati”

Il superamento del barocchetto e, più in generale dell’organismo classicheggiante, rappresenterà per gli architetti romani negli anni dal 1920 al 1930 la strada, spesso tortuosa e contraddittoria, per un rinnovamento stilistico che ormai in Europa si era prepotentemente affermato con il movimento razionalista.

Ingegneri e architetti.

Operarono a Roma l’ing. Mario Gra, gli architetti Mario Marchi, Mario De Renzi, Pietro Aschieri, Giuseppe Capponi, Domenico Filippone ed è ad essi che dobbiamo gli interventi più significativi.

I villini romani di via Mangili realizzati nel 1929 dall’ing. Mario Gra (fig.2)

fig. 2 Mario Gra, Villino in Via Mangili

dal semplice impianto volumetrico, il bugnato basamentale, il portale di ingresso ad arco, la serliana del piano nobile e le terrazze terminali arricchite dalla statuaria marmorea cosi’ come il villino di Mario Marchi a via Paisiello (fig.3)

fig. 3 Mario Marchi, Villino in via Paisiello

con il piano nobile segnato sull’asse verticale da un terrazzino aggettante e un attico cruciforme con terrazze angolari arricchite da statue neoclassiche, si rifanno ancora ai canoni del barocco minore romano.

Pietro Aschieri rappresenterà la personalità più complessa dell’architettura del primo modernismo romano; in esso si esprime la contraddizione della sua appartenenza al MIARMovimento Italiano Architetti Razionalisti – e la forte influenza della cultura romana, rappresentata prima da Giovannoni e poi dalla mediazione di Piacentini. Il risultato sarà un rigetto del “barocchetto” come risposta folkloristica e provinciale ed un più matura relazione con la tradizione, in particolare della  geometria  barocca  che  avrebbe permesso alle  sue  architetture di stabilire un confronto con la cultura europea.

Un equilibrio  instabile  fra il carattere  astratto del segno architettonico razionalista e le esigenze espressive di un  collegamento con  l’architettura classica proclamate dagli accademici. Punto di arrivo è rappresentato dalla casa Salvi in piazza della Libertà (fig.4)

fig. 4 Pietro Aschieri, Palazzina Salvi in piazza della libertà

dove la semplificazione dell’apparato decorativo permette ad Aschieri di operare essenzialmente sul “muro” delle quattro facciate ritmate dalla concavità delle pareti e la convessità dei balconi, realizzando così una forte plasticità chiaroscurale.

Ugualmente Giuseppe Capponi si qualifica al di fuori dell’eclettismo e per una polemica ripresa della semplicità geometrica del barocco maggiore ed in particolare di Borromini. In polemica con il movimento razionalista, avrà fra i suoi eredi consapevoli l’esperienza di Paolo Portoghesi. La palazzina Nebbiosi in lungotevere Arnaldo da Brescia del 1932 (fig.5) fu abitata da Pier Luigi Nervi nel periodo in cui la società Nervi e Nebbiosi si occupò di realizzare le opere delle Olimpiadi del 1960.

fig. 5 Giuseppe Capponi, Palazzina Nebbiosi, Lungotevere Arnaldo Da Brescia.

La palazzina presenta le quattro facciate ugualmente caratterizzate da profonde esedre semicilindriche che consentono di arretrare gli ambienti e di eliminare il cortile centrale, sostituito da due chiostrine che illuminano una scala elicoidale. Il fronte di ingresso sul Lungotevere è arricchito da una scalinata di accesso L’articolazione delle superfici piane e curve è accentuata dalla configurazione volumetrica dell’attico che ripropone le esedre centrali e si arretra con ulteriori concavità in corrispondenza delle quattro angolature dove saranno realizzate altrettante terrazze.

Il napoletano Domenico Filippone, laureato presso la neo istituita scuola di architettura di Roma, progetta e realizza fra il 1929 e il 1931 la Palazzina in Piazza Trento (fig.6).

fig. 6 Domenico Filippone, Palazzina in Piazza Trento

Anche in questo caso la palazzina si presenta con un volume compatto – privo di balconi e di logge – articolato nelle consuete tre parti: basamento, tre piani di appartamenti, attico. Minime ed essenziali le variazioni: la parte centrale leggermente aggettante, gli angoli smussati, il volume articolato da lesene verticali che delimitano una muratura leggermente arcuata e ritmata da finestre verticali rigorosamente uguali, con la sola variazione delle finestre dell’attico chiuse da archi a tutto sesto e sovrastate da quattro statue terminali. Colori il giallo ed il grigio; come si usava spesso due iscrizioni sulla facciata: ALTE SPECTAT SIDERA (Con la sua altezza guarda le stelle) e ARTIBUS VITA EMINET (La vita s’innalza grazie alle arti).

Mario De Renzi

Più esplicitamente innovativo è il contributo di Mario De Renzi nel villino Cappellini (fig 7)  di via Mecenate e nella palazzina di piazza Cuba, all’inizio di via Panama.

fig. 7 Mario De Renzi, villino Cappellini in via Mecenate

Nel villino Cappellini, De Renzi riesce ad esprimere i caratteri essenziali del modernismo della generazione architettonica pre-razionalista. Paradossalmente De Renzi sembra voler sfidare il canone neoclassico: un porticato di base, fortemente chiaroscurato, un antecedente dell’impostazione delle poste di via Marmorata che realizzerà con Adalberto Libera, fa da piedistallo ad un edificio con una spessa muratura bugnata su cui si imposta un loggiato; un terzo livello modulato con un partito geometrico “a quadrati” aperti-chiusi sorreggono un attico dichiaratamente art-nouveau sormontato da una serie di vasi. Utilizzando spregiudicatamente un linguaggio classico De Renzi vuol dimostrare che è possibile reinterpretarlo in chiave polemicamente modernista. In risposta alle critiche di Erich Mendelsohn sulla presunta mancanza di partecipazione dei paesi mediterranei al movimento moderno, nelle palazzine di piazza Cuba  e in quella della vicina via Panama, si intuiscono le valenze pre-moderne dell’architettura di De Renzi una forte tensione all’evoluzione e al rinnnovamento dell’organismo classico.

La chiave di lettura della sua produzione fra gli anni Venti e Trenta “può essere infatti colta solo attraverso la percezione della sottile ambiguità tra tradizione e innovazione, e dell’ambivalenza fra continuità con il passato e ideazione figurativa, in un susseguirsi di sperimentazioni linguistiche coerenti” come giustamente sottilinerà Maria Luisa Neri nel suo volume Mario De Renzi alle pagg. 32 e seguenti.

Nella palazzina di Piazza Cuba (fig.8) De Renzi edifica “una casa manifesto”

fig. 8 Mario De Renzi Palazzina in piazza Cuba

dove con consumato mestiere cerca di smontare sistematicamente le recenti ed ancora acerbe certezze di un nascente movimento moderno internazionale. Il fronte che guarda verso piazza Ungheria è esplicitamente simmetrico, organizzato da un ordine gigante di quattro semicolonne con ionici capitelli sormontati da statue di divinità greche. Su un cornicione fortemente aggettante il volume conclusivo dell’attico rafforza l’impostazione simmetrica. Una provocazione antimoderna che costringe tutti a fare i conti con le radici classiche e i modelli della tradizione della storia nazionale.

Quanto dell’innovazione razionalista e della tradizione barocca si saldano in questa felice sintesi sinceramente moderna?

Un caso limite.

Emblematica infine è la vicenda della palazzina Alatri a via Paisiello. Il preesistente villino originario, commissionato da Giovanni Alatri all’architetto Vittorio Ballio Morpurgo alla fine degli anni ’20, era caratterizzato da una modesta volumetria: un impianto ad L e due piani fuori terra. Un attico ed un’altana conclusiva. Il fronte su via Paesiello  caratterizzato da quattro arcate strombate che inquadrano le finestre del piano terreno dotate di balconi; un primo piano con tre semplici finestre mentre l’angolo con via Bellini era caratterizzata da una loggia balconata (fig.9).

fig. 9 Vittorio Ballio Morpurgo,Villino Alatri in via Pesiello

Ebbene nel 1948 si procederà alla trasformazione del modesto ma elegante villino in una palazzina, legittimata da una variante del piano del 1931. I progettisti, Mario Ridolfi e Mario Fiorentino scelgono di conservare i piani terreno e primo del villino preesistente per impostare al di sopra di esso un edificio di tre nuovi piani (fig.10)

fig. 10 Ridolfi, Fiorentino, Palazzina Alatri, in via Paisiello

La tecnologia adottata, il cemento armato, sovrapponendosi alle murature tufacee “alla romana” del preesistente villino, è risolta con l’esibizione dei piani e delle membrature. I contorni movimentati degli alloggi disegnano i nuovi prospetti: la netta orizzontalità dei tre nuovi livelli caratterizzati da grandi infissi, avvolgibili, velette in cemento armato, ringhiere in ferro e vetro, fioriere romboidali dichiarano provocatoriamente l’estraneità dell’intervento al contesto preesistente, per affermare un’ ideologia modernista profondamente antistorica.

Un violento manifesto di netta discontinuità con il recente passato.

Un nuovo capitolo si apriva nell’edilizia Roma Capitale: riguarderà i nuovi quartieri periferici, i quartieri Ina Casa, per concludersi  con la grande barriera rettilinea del Corviale.

Francesco MONTUORI     Roma 1 settembre 2019