di Giorgia TERRINONI
«I create as a way of reinvigorating myself by replacing and reworking images and ideas that never fully represented me and the women and the people I was born from and who made me».
Dal 10 giugno al 14 settembre 2025 la Galleria Borghese ospita una mostra di Wangechi Mutu – artista di origini keniote ma residente a New York – dal titolo Poemi della Terra Nera, a cura di Cloé Perrone.
Come la mostra recentemente conclusa e dedicata a Giovan Battista Marino, anche Poemi della Terra Nera muove dall’interesse che il museo rivolge nei confronti della poesia oltre a legarsi al programma espositivo che è radicato nella natura stessa della Galleria Borghese, ovvero quello che ruota intorno al tema della metamorfosi.

Wangechi Mutu è poco nota al pubblico italiano benché nel 2015 abbia allestito una mostra personale alla galleria Il Capricorno di Venezia, oltre ad aver partecipato alla 56^ edizione della Biennale Internazionale d’Arte dello stesso anno. L’artista nasce a Nairobi nel 1972 e si trasferisce negli Stati Uniti alla metà degli anni ‘90, dove si forma come scultrice e antropologa. È nella scuderia newyorkese di Barbara Gladstone (recentemente scomparsa) dal 2010, dove ha esposto per ben quattro volte. È in collezione al MoMA e ha partecipato a biennali e importanti esposizioni in tutto il mondo, la più recente, Wangheci Mutu: Intertwined, al New Museum di New York (2023) e al New Orleans Museum of Art (2024). La ricerca dell’artista keniota si muove intorno all’idea della rappresentazione umana, soprattutto della rappresentazione del femminile.

Rimodellando le narrazioni della femminilità Mutu sfida i principi razzisti e misogini della cultura occidentale, senza però sfociare mai nella retorica femminista.
Nei suoi lavori polimaterici, come pure nei video e nelle performance, la donna – pur rimanendo figurativa – è rappresentata attraverso la profondità di un archetipo senza tempo. Immagini stereotipate di madri, vergini e dee forniscono a Mutu un materiale di partenza che viene poi riconfigurato attraverso un’operazione di smontaggio e rimontaggio per creare altre immagini, potenti e cariche di tensione.
In un’intervista di una decina di anni fa l’artista ha detto di partire da un’idea o da un sentimento più o meno concreti del mondo, dai quali poi cerca di estrarre un fantasma, ovvero un personaggio in grado di condensare il complesso e il multiforme, l’immaginario e l’inimmaginabile.

Par di sentire qui l’eco di Warburg per cui le immagini di ogni presente custodiscono fantasmi, cioè sono tracce spettrali che sempre contengono lacerti di passato. Interessante in tal senso è anche la scelta d’iniziare la mostra sulla soglia della Galleria Borghese dove sono installate due figure monumentali in bronzo, appartenenti alla serie The Seated (2019).

Moderne cariatidi o sfingi, ma che né sostengono né proteggono, queste figure dominano la facciata del museo. Non rispettano gli ideali noti di forma e proporzione: i loro corpi sono allungati, i loro volti combinano fattezze africane e aliene, le loro superfici rinviano agli ornamenti corporei delle donne di alto rango delle società dell’Africa orientale. I due bronzi di Mutu vanno a riempire, anche se temporaneamente, uno spazio che è stato a lungo dominato dall’assenza. Un’assenza dovuta al fatto che nel 1807 Camillo Borghese vendette al cognato Napoleone Bonaparte parte della collezione della villa, comprese molte delle sculture che decoravano la facciata e i giardini. L’architettura reca ancora le tracce dei punti in cui erano collocate le opere, ma la maggior parte di loro non è mai stata reinserita.
Spostandoci all’interno, dove per buona parte della visita siamo stati accompagnati dal racconto esaustivo e competente della Dottoressa Botti, dovremmo percepire come evolve il continuum tra il lavoro dell’artista e gli spazi e le opere della Galleria.
Tuttavia, a differenza di alcune mostre allestite in anni precedenti – penso ad Archaeology Now dedicata a Damien Hirst, ma anche a L’inconscio della memoria su Louise Bourgeois – Poemi della Terra Nera nasce sì dalla volontà d’interagire con il museo, ma l’interazione si rivela molto pacata. Il dialogo mi pare riuscito sul piano estetico e formale, meno su quello concettuale. E, in ogni caso, la scelta di non invadere eccessivamente lo spazio sembra dettata dalla volontà di non infastidire il visitatore medio della Galleria più che da una visione curatoriale.
Sui mosaici romani del Salone Mariano Rossi è installata la vera e propria poesia della mostra, The Grains of Words: ogni lettera è scolpita nel caffè e nel tè, a trasformare il linguaggio in qualcosa di materiale.

Le parole sono tratte da War di Bob Marley, un brano che rimanda a Hailé Selassié, ultimo imperatore d’Etiopia e figura chiave dei movimenti anticoloniali, che nel suo discorso del 1963 alle Nazioni Unite invocò la fine dell’ingiustizia razziale. Indubbiamente l’opera ha molte risonanze politiche e culturali (il caffè e il tè sono più che un materiale, diventano quasi un simbolo dello sfruttamento coloniale), pure l’installazione della poesia in uno spazio così carico e forse anche sopra i mosaici, ne vanifica la consistenza materica riducendola quasi a un fogliame ornamentale. Diversamente, ma altrettanto poco riuscita mi è parsa l’installazione di Water Woman, la sirena nera che apre il passaggio ai giardini e che troneggia altera, avulsa da tutto e per di più su una base oltremodo sproporzionata.


Ho trovato invece interessanti gli altri bronzi scuri installati nel giardino e adagiati all’interno di ceste intrecciate con foglie di palma. Tradizionalmente la cesta è un recipiente essenziale alla vita: contiene, trasporta, protegge… Anche le tre ceste di Mutu sono riempite di vita, contengono creature in trasformazione e/o immerse nell’acqua. Pure mettono in scena una doppia contraddizione visiva e tattile: infatti, ci appaiono deformate dall’uso, ma si tratta di un artificio dal momento che sono colate nel bronzo, un materiale duro, denso e resistente: oggetti tradizionalmente associati alla leggerezza diventano pesanti e permanenti. Inoltre, contengono acqua, un elemento che sarebbe impossibile trasportare in una cesta intrecciata.

Così, i materiali non corrispondo più alla loro reale funzione e questo genera un lieve senso di spaesamento: in Musa – che in swahili significa Mosè – una figura embrionale ed aliena è adagiata all’interno di una cesta riempita d’acqua, in una posizione indecifrabile che potrebbe alludere sia a un momento precedente la nascita sia a un momento successivo alla morte. Sembra di essere in presenza di una figura del limite, un limite che contiene tanto il prima quanto il dopo.
Questa presenza di un limite denso mi affascina nella ricerca artistica di Wangechi Mutu: l’ibridazione permea sia la forma sia il contenuto e aggiunge o apre verso una dimensione stratigrafica: all’artista riesce di rendere rappresentabile la complessità di ciò che è inimmaginabile. Potrebbe essere una forzatura, ma a me pare che queste e altre opere offrano uno spunto per riflettere sulla nostra percezione dell’alterità: siamo immersi in un mondo in cui l’alterità, quale essa sia, può essere solo inglobata o negata. Benché agli antipodi, entrambi questi atteggiamenti mi sembrano violenti oltreché riduttivi, perché tendono a normalizzare, a sottrarre complessità, a ridurre la storia.

Invece, le creature di Mutu sfidano la dimensione della soglia: si pensi anche alle due Weeping Head sospese nella Sala dell’Aurora. Non so quanto le due teste abbiano a che fare con la complessa cosmologia che si dipana nella stanza, ma esse rappresentano due esseri ibridi sospesi in uno stato di trasformazione, radici in fiore e, al contempo, radici estirpate. Ne scaturisce un’immagine instabile, frammentaria ma affatto inquietante, piuttosto densa di molteplici stati della materia e dell’esistenza, dove anche i nastri e le perline sono lontani dall’assolvere una funzione decorativa, enfatizzando invece la dimensione transizionale di questi ritratti. Dal momento che questo mio scritto segue una linea riflessiva intorno alle opere dell’artista e non vuole essere un accompagnamento al percorso della mostra, vorrei far riferimento ad altri due lavori lontani nello spazio ma che possiedono una corrispondenza formale e di contenuto, essendo entrambi sospesi e portatori di unità.
La prima è Prayers, un enorme rosario fatto di perline in terra rossa che scende dal soffitto della Sala degli Imperatori, racchiudendo il Ratto di Prosperpina entro un baldacchino ideale.

L’altra è Suspended Playtime, un’installazione divertente eppure malinconica, nata per essere praticabile dal pubblico che non potrà però praticarla, composta da sfere sospese realizzate a mano con sacchetti di plastica, spago e fil di ferro.

Le opere fanno pendant pur essendo l’una improntata alla spiritualità l’altra al gioco, ma tutte e due veicolano un’idea di catarsi. Prayers rinvia a una pratica devozionale – il gesto ripetitivo e contemplativo d’inanellare perline – comune a moltissime parti del mondo. Suspended Playground, invece, rimanda alle palle da calcio artigianali costruite con materiali diversi dai bambini anche in questo caso di moltissime parti del mondo. Entrambe sono opere unificatrici che rinviano a un’esperienza culturale condivisa, universale e che travalica i confini politici e di dominazione.
Ora, questo tratto unificatore non è affatto in disaccordo con i concetti di limite e ibridazione sui quali si è ragionato sopra; dà piuttosto la possibilità di muoversi in un territorio in cui nulla non è inglobato né negato: a saldarsi sono gli strati di un’umanità che potrebbe aver bisogno di ritrovare esperienze culturali condivise. E di questa possibilità di materializzare qualcosa che oggi è persino difficile immaginare personalmente sono grata a Wangechi Mut.
Giorgia TERRINONI Roma 22 Giugno 2025