Arman, o dell’ “Elogio del rifiuto”

di Mario URSINO

Oggi il rifiuto è ormai irrifiutabile. Il rifiuto non è solo degno di interesse, ma anche di lode. Il rifiuto è l’umanizzazione e la sublimazione degli oggetti, delle cose, di tutte le cose”.

Questa definizione, così perentoria, assertiva, venne formulata dall’artista Guido Biasi (Napoli 1933 –

Manifesto del movimento Noveau Réalisme, di Yves Klein

Parigi 1983), apparsa nel suo articolo, appunto Elogio del rifiuto, sulla rivista d’avanguardia “Documento Sud”, n. 3, marzo 1960, l’anno in cui egli si era anche trasferito a Parigi. Biasi, tra l’altro aveva partecipato alla formazione del “Gruppo 58” con Castellani, Del Pezzo, Di Bello, Fregola, Persico, tutti artisti dediti allo sperimentalismo di discendenza surrealista e dadaista. Da notare che parallelamente si era formulato a Parigi una sorta di manifesto del movimento Noveau Réalisme, redatto dal critico Pierre Restany (1930-2003) in casa dell’artista Yves Klein, con Arman, Dufrêne, Hains, Raysse, Spoerri, sublimato il giovedì 27 ottobre 1960, in un documento firmato dai sette fondatori, in sette copie su carta monocroma del blu di Yves Klein [fig. 1], un’altra in foglia d’oro (monogold), ed un’altra ancora su carta  monocroma rosa (monopink), che sono appunto i tre colori di tutte le opere di Klein (cfr. Pierre Restany, Nuovo Realismo, Milano 1973). Nel manifesto del Nuovo Realismo si legge quindi la seguente dichiarazione:

Arman in una foto di Chris Felver

“Les nouveaux Réalistes ont prixconscience de leur singularité collective. Nouveau Rèalisme=nouvelles approches perspectives du réal ˮ. Ciò voleva dire che la volontà di costoro era di rompere con l’astrazione in voga in quegli anni, utilizzando oggetti della vita quotidiana al fine di farne i simboli delle società dei consumi e approdare, secondo le parole del critico Restany, a “un recyclage poétique du réal”. È in questa ottica che, a mio avviso, si riflettono, nelle parole più sopra citate del Biasi, le opere di Arman (Armand Pierre Fernandez, Nizza 1928 – New York 2005) [fig. 2], che ora sono visibili a Roma dal 5 maggio al 23 luglio 2017 a Palazzo Cipolla, in una notevole antologica dal 1954 al 2005 dell’artista francese, per iniziativa di Emmanuele F. M. Emanuele, Presidente della Fondazione Terzo Pilastro, e curata da Germano Celant.

In questa mostra le primissime opere di Arman sono definite “Poubelles”, ovvero “Pattumiere”, costituite da rifiuti inscatolati in teche di plexiglas, che nella compressione della loro promiscuità dovuta ai molteplici scarti, rimandano al soggetto che li ha utilizzati: si vedano infatti Poubelle Ménagére, 1960 [fig. 3], o Poubelles des Enfants, 1960) [fig. 4],  che si pongono come icone-sculture dagli svariati colori dei rifiuti fittamente pressati e che, sempre a mio avviso, richiamano ancora una volta le parole del Biasi nel testo già sopra citato: “Il rifiuto è il riscatto postumo dell’oggetto menomato e avvilito dalla sua stessa utilità e dalla utilizzazione. Il rifiuto è infine l’anima scarnita di esso oggetto spoglio della sua funzione, purificato e autentico «che torna ad essere» in quanto significato e non in quanto funzione”. Parole che coincidono perfettamente con quelle del Restanyrecyclage poétique du réal”. Dunque Arman è “un peintre qui fait de la sculpture”?, secondo la definizione dello stesso artista, ricordata dal professor Emanuele nella sua presentazione in catalogo; propenderei a ribaltare  l’asserzione di Arman, ritenendo che egli è piuttosto uno scultore che dipinge con materiali extra-pittorici. Lo si vede bene infatti nel percorso della mostra che parte singolarmente e intelligentemente a ritroso dalle ultime monumentali opere del 2005 fino a retrocedere agli anni ’60, e alle prime esperienze pittoriche di astrazione  del 1954, quali Mauve Administratif e Cachet 54. Ma successivamente Arman passa alle “Accumulazioni”, suggestive teche che contengono ammassi di un unico oggetto, come in Bebida Loca (tappi di bottiglia), 1960 [fig.5], e Fiat pas Lux (lampadine), 1960 [fig.6], o Le Bouclier de la Gorgone (pettini), 1962, [fig.7] dai titoli non privi di pungente humour e ironia. Inoltre “accumulazioni”, quali vere e proprie sculture sono, per esempio, anche metallici oggetti di uso, come chiavi inglesi assemblate, dal titolo Stegosaurus Plierus, 1978 [fig.8], che allude alla forma dell’animale preistorico , o Dante’s Inferno, 1976, [fig.9] che simula una pira di lingue fiammanti; questi però non sono rifiuti, ma oggetti di lavoro materiale che l’artista trasforma evocativamente con fervida fantasia in opere d’arte, e che non mettono in discussione la nostra percezione del significato poetico di queste sculture, concepite in un rigoroso e algido formalismo disegnativo.

C’è poi un tema ancora più affascinante nella produzione di questo straordinario artista che discende dalla poetica dada e da precedenti esperienze di opere fatte con materiali extra-pittorici, e penso ai “Merzbau” di Kurt Schwitters (1887-1948), [figg.10-11], dai quali, in un certo senso, derivano quelle frammentazioni di oggetti musicali, scomposti e ricomposti cubisticamente, secondo il principio di distruzione, destrutturazione, ricontestualizzazione, come il monumentale Robot Portrait of Mozart, 1992, (con quel cielo stellato del blu di Klein, che si incunea geometricamente tra i frammenti degli strumenti musicali) [fig.12], o  Chopin’s Waterloo, 1962 del Centro Pompidou a Parigi (opera però non in mostra) [fig. 13]. Viceversa spiccano in apertura delle sale a ritroso il Concerto for 4 Pianos, 1998, [fig.14], del Musée d’art contemporaine de Lyon (tutte le altre opere in mostra sono provenienti dalla Collezione Arman Marital Trust, Corice Arman Trustee), e Smokey Quartet,1998, [fig 15], o lo stupendo Senza Titolo, 2005 [fig. 16], un violoncello spaccato contenente una cascata di pennelli colorati, e ancora, Senza Titolo, 2004, [fig.17], un meraviglioso trittico di violoncelli spaccati di oltre due metri di altezza e circa cinque metri di base, come una grandiosa pala di altare dedicata alla musica.

Senza titolo

Impensabile citare tutte le settanta opere che definiscono perfettamente  le straordinarie fasi creative dell’artista francese che ha poco o punto riscontro per estro, rigore e fantasia nei contemporanei artisti italiani, se non nelle parole del nostro artista  Guido Biasi, riportate in apertura di questo mio commento, dopo una visita in un primo pomeriggio di fine maggio, in cui fortunatamente ero il solo ed unico visitatore.

Mario Ursino