di Sergio ROSSI
Alessandro Masi, da oltre un ventennio infaticabile segretario generale della Società Dante Alighieri, ma anche attento storico e divulgatore d’arte, ha da poco fatto uscire pei tipi dell’editore Neri Pozza un utilissimo e appassionante volume: La vita maledetta di Benvenuto Cellini, che ha il merito, rispettando alla lettera la celebre autobiografia dell’artista, di “tradurla” in un linguaggio più snello e adatto ai nostri giorni senza farle perdere quella straordinaria carica emotiva che l’ha resa uno dei capolavori assoluti della nostra prosa cinquecentesca.
Forse il più grande orafo di tutti i tempi, sicuramente uno dei più grandi scultori del Cinquecento, eccellente scrittore e teorico d’arte, Benvenuto Cellini (Firenze, 1500-1571) era però anche un assassino, un violento sempre pronto ad attaccare briga con chiunque, un bisessuale sconfinante nella pedofilia e affetto per sua stessa ammissione dalla sifilide, un fanfarone e mitomane degno del barone di Münchhausen o di Tartarino di Tarascona, ma anche un figlio dei suoi tempi e per certi versi un anticipatore di quegli artisti maledetti che avranno di lì a qualche decennio in Caravaggio un altro illustre esponente.
Il manoscritto dell’Autobiografia, che in realtà si interrompe una decina d’anni prima della morte dell’autore, è conservato presso la Biblioteca Laurenziana di Firenze (Codice mediceo-palatino 234) e già circolava in diverse copie con Benvenuto ancora in vita, tanto da essere citato dal Vasari nella sua edizione delle Vite del 1568; mentre la prima edizione a stampa, a cura di Antonio Cocchi, venne pubblicata a Napoli (con la falsa dicitura di Colonia, essendo il libro considerato un testo libertino) nel 1728.
Oltre a farsi apprezzare per le sue grandi qualità letterarie quest’opera offre uno straordinario spaccato “in diretta” delle corti europee del XVI secolo, con i loro intrighi, maneggi, delitti, dove gli artisti, ridotti a rango di cortigiani, appunto, vivevano la nevrosi di una posizione sociale sempre in bilico tra la pretesa negata di “libertà intellettuale” cui aspiravano invano e una realtà molto più precaria e subordinata. E di questa nevrosi Cellini è un perfetto interprete, non più artigiano, ruolo in cui il suo “mestiere” di orafo lo avrebbe relegato fino a pochi anni prima, ma non ancora artista intellettuale a pieno titolo come lui si sentiva di essere, in quanto praticante la “Nobile Arte del Disegno”.
Uno dei principali meriti del libro di Alessandro Masi è quello di inserire sempre in modo puntuale le vicende personali del protagonista all’interno della realtà a lui contemporanea, sempre tratteggiata in modo rapido ma efficace, così che noi leggendo questa Vita maledetta abbiamo un quadro preciso del contesto storico culturale in cui le vicende stesse si sono sviluppate. Certo pretendere ad esempio giudizi obiettivi sui suoi colleghi da parte di Benvenuto sarebbe veramente troppo, perché aveva, come suol dirsi, una parola buona per tutti. Di Francesco Ubertini meglio noto come il Bachiacca – e meno male che era un suo “amicissimo” – scrive che era tanto pauroso, oltreché cornuto, che coinvolto in una delle tante risse provocate dal Cellini se l’era fatta sotto per la paura “imbrattandosi tutto”. Giorgio Vasari era ingrato, pederasta e afflitto da scabbia. Rosso Fiorentino ingrato anche lui perché aveva approfittato da giovane della generosità del Nostro, ma poi, quando questi era andato a trovarlo a Parigi, quasi aveva fatto finta di non conoscerlo. E l’elenco potrebbe continuare ancora a lungo.
Sui pittori residenti a Roma alla vigilia del Sacco, molti dei quali frequentati proprio dal Cellini, ho personalmente compiuto alcuni anni fa studi fondamentali colpevolmente ignorati da una storiografia artistica troppo spesso propensa a preferire alle evidenze documentarie le presunte illuminazioni critiche di più o meno illustri epigoni longhiani.[1] Confrontando infatti il censimento assai accurato pubblicato nel 1894 da Domenico Gnoli sulla popolazione residente a Roma tra il dicembre del 1526 ed il gennaio del 1527 e redatto da un certo Jacopo Hellin (anche questo inspiegabilmente sottovalutato dagli storici dell’arte) con tutta un’ampia documentazione da me raccolta presso l’Archivio dell’Accademia di san Luca (soprattutto il Libro degli introiti) sono riuscito ad individuare con buona certezza almeno due terzi dei pittori citati dallo Gnoli. Ed è interessante ancora notare come il numero dei pittori titolari di bottega fosse più o meno corrispondente a quello del 1478, quando la Compagnia di S. Luca venne istituita, che era di trentuno unità, a conferma di una stabilità professionale ultra cinquantennale: sarà solo a partire dalla seconda metà del Cinquecento che il numero dei pittori residenti a Roma aumenterà vertiginosamente, fino agli oltre cento del 1594.
Iniziamo la nostra rassegna rione per rione partendo da Monti, dove abbiamo 374 case censite con 2919 abitanti, ma nessun pittore; vi compare però un Laurentio scultor, ossia Lorenzo Lotti alias Lorenzetto, che è l’unico in assoluto ad avere la qualifica di scultore, mentre nel documento abbonderanno gli scalpellini, specie quelli lombardi. Segue il rione Trevi, con 373 case e 1757 abitanti, dove troviamo un Ioanne pitor con tre bocche a carico che non può essere che Giovanni da Udine, dal momento che l’altro Giovanni del Censimento, residente nel rione Ponte, è stato da me identificato con certezza con Giovanni Battista d’Ippolito Romano, come si vedrà tra breve.
Trattasi dunque di Giovanni Recamador, detto Giovanni da Udine (Udine 1487 – Roma 1561) l’allievo di Raffaello divenuto titolare della principale bottega operante a Roma alla vigilia del Sacco e di nuovo in città dal 1528 al 1534, che ci ha lasciato una preziosa testimonianza della sua attività grazie ai Libri dei conti nei quali egli annota anche i nomi di tutti i suoi collaboratori su cui presto tornerò.
Passando al rione Campo Marzio il Baldasar pitor con sette bocche a carico è Baldassarre Peruzzi (Siena 1481 – Roma 1536), la cui presenza in Campo Marzio è confermata da tutta un’altra serie di documenti che non posso qui citare per brevità. Compaiono quindi un Pietro pitore e Giovan Pietro pictor rispettivamente con quattro e due bocche a carico. Il primo dei due è Pietro d’ Andrea Viventi da Siena, fratellastro del Peruzzi, che abiterà nella casa del parente anche dopo la sua morte occupandosi anche del mantenimento dei suoi sei figli. Del fratellastro del Peruzzi possediamo una documentazione abbastanza continuativa per indicarlo a Roma tra il 1511 e il 1552, anche se allo stato attuale delle conoscenze nulla possiamo dire del suo stile; possiamo però arguire che fosse uno dei molti pittori di apparati, grottesche, architetture dipinte, attivi a Roma sotto Paolo III e Giulio III, come Francesco da Siena, Giovanpietro Condopulo, Domenico Zaga, anch’essi fino a pochissimo tempo fa assolutamente sconosciuti e di cui si comincia soltanto adesso, anche grazie ai miei studi, a ricostruire un primo itinerario critico.
Occupiamoci di Giovanpietro Condopulo o Giovanpietro calabrese, il misterioso “maestraccio” che, stando al Vasari, avrebbe vessato un Taddeo Zuccari ancora adolescente e che è senz’altro una delle scoperte più interessanti della mia ricerca. Io per primo lo ho identificato con Joan Pietro Condopulo per ben tre volte console della Compagnia di S. Luca nel 1534, 1541 e 1546, allievo di Raffaello, di cui possedeva alcuni disegni originali, e che è stato appunto uno dei primi maestri di Taddeo Zuccari a Roma.
Quanto agli altri pittori residenti in Campo Marzio, il Perino pitor con ben dieci bocche a carico è ovviamente Pietro Giovanni Bonaccorsi detto Perin del Vaga (Firenze, 1501 – Roma, 1547) che giunto a Roma intorno al 1517 vi sosterà fino al 1528 quando si reca a Genova per tornare poi nell’Urbe e rimanervi dal 1537 fino alla morte, divenendo il principale punto di riferimento della scuola raffaellesca. Non ho trovato invece alcuna notizia di Stephano pitor e Cremon pitor entrambi con una sola bocca a carico.
Il Roseo pitore con tre bocche a carico altri non può essere che Rosso Fiorentino (Giovan Battista di Jacopo, Firenze, 1495 – Parigi, 1540) della cui presenza a Roma durante il Sacco Vasari lascia vivide testimonianze e che è anche uno degli artisti citati, anzi denigrati, dal Cellini. Più complessa è la situazione per quel che concerne i due Francisco pittore del Campo Marzio e gli altri due del rione Regola: uno di questi ultimi, come preciserò tra breve è senz’altro Francesco dell’Indaco, ma anche per gli altri tre in realtà l’identificazione non è particolarmente difficile, avendo a disposizione solo tre pittori con questo nome sicuramente a Roma nel periodo del Sacco e cioè Francesco Mazzola, ossia il Parmigianino (Parma, 1503 – Casalmaggiore, 1540); Francesco Ubertini, detto il Bachiacca (Firenze, 1494 – 1557) di cui Cellini, come detto, narra gustosi aneddoti e Francesco da Siena. Quest’ultimo, appartenente come Pietro Viventi alla stretta cerchia peruzziana è molto probabile che abitasse anche lui in Campo Marzio.
Passando ora al rione Ponte siamo in grado di identificare, anche se solo a livello documentario, tutti e quattro i pittori che vi si trovano. Bernardino pintore è in realtà Bernardino Aquili, cioè il figlio minore di Antoniazzo Romano, che risulta reiscritto alla Compagnia di S. Luca nel 1536. Di Joanne Dominico depintore con due bocche a carico, ho trovato solo dei documenti che ne attestano la presenza a Roma in quel periodo ma nessuna opera certa, così come per Joanne depintore con quattro bocche a carico, che però sono riuscito ad identificare con Giovanni Battista d’Ippolito da Tor di Nona. Infine il Joanne del Lione con cinque bocche a carico, è quel Giovanni del Lione di cui Vasari parla come di uno dei principali allievi di Giulio Romano, ma che risulta ormai completamente immerso nell’oblio.
In Borgo l’unico pittore presente è un Vicentio pinctore con tre bocche a carico che è da identificarsi con Vincenzo Tamagni da S. Gimignano (1492-1530 ca.). In Parione abbiamo invece Antonio Io. pintor con due bocche a carico non meglio documentabile e un Antonio Pintor con tre bocche a carico mentre troveremo un altro Antonius nel rione Pigna. Ebbene entrambi gli Antonio sono identificabili come allievi di Giovanni da Udine, ed esattamente come Antonio da Pontremoli ed Antonio di Baldino, presenti nei Libri dei conti del friulano, anche se ovviamente non possiamo sapere chi dei due abitasse nel rione Pigna e chi in Parione.
Passando al rione Regola vi troviamo ben otto pittori, quattro dei quali Guido pintor; Domenico da Viterbo, Joanne Gino depintor, Nicola pintor; allo stato attuale delle conoscenze sono assolutamente non identificabili. Per quanto riguarda i due Francisco pintor rispettivamente con una e tre bocche a carico, uno dei due è senz’altro Francesco dell’Indaco (mentre per l’altro si veda quanto osservato per il Rione Campo Marzio). Abbiamo infatti una lettera autografa dell’artista fiorentino (Francesco di Lazzaro Torni, detto dell‘Indaco, Firenze, 1492 – Roma, 1562) che lo attesta abitare nel rione Regola proprio al momento del Sacco: si tratta di un documento particolarmente impressionante perché descrive quasi in presa diretta la precipitosa fuga dell’artista dalla propria casa per sfuggire alla furia dei Lanzichenecchi.
Nel Rione Pigna troviamo il solo Jeronimo pinctore con due bocche a carico, mentre un altro Hieronimo comparirà in Trastevere: ed uno dei due è senz’altro quel «Hieronimo da Faenza detto il Fantino» presente prima del Sacco e che si reiscrive a S. Luca pagando in due rate lo scudo di sua competenza, il 22 aprile del ’35 e il 28 aprile del ’37: di lui null’altro allo stato si conosce. Passando in Campitelli, troviamo un Antonius pictor con otto bocche a carico di cui si è già discusso; un Hipolitus pictor con due bocche a carico, forse padre di Giovanni Battista d’Ippolito e infine un Lucas pictor con sei bocche a carico che altri non è se non Luca Penni, fratello del più noto Giovan Battista e cognato di Perin del Vaga, nato a Firenze nel 1500 circa e morto a Fontainebleau nel 1566.
Nessun pittore troviamo nel Rione S. Angelo ed il solo Diego depintore con una bocca a carico nel rione Pigna, di cui peraltro nulla sappiamo. Concludendo con Trastevere, il Sebastiano pictore con cinque bocche a carico è ovviamente Sebastiano del Piombo (Sebastiano Luciani, Venezia, 1485 – Roma, 1547), mentre del Hieronimo pictore con tre bocche a carico e di Jacobo pinctore con sei bocche abbiamo già discusso in precedenza. Non rimane così che quel Menico pinctore da identificarsi senza ombra di dubbio in Domenico Zaga, ossia Domenico Rietti o Domenico di Francesco fiorentino detto lo Zaga (Figline 1505 circa – Roma post 1581) che è uno dei protagonisti minori della Roma manierista di cui di recente la storiografia si è maggiormente occupata e di cui ho ricostruito in maniera minuziosa nei miei saggi, cui rimando, tutta la carriera[2].
Tornando all’Autobiografia celliniana, non posso certo riassumere in poche righe l’intero libro, ma posso comunque citarne alcuni brani di particolare interesse. E così Benvenuto ci ricorda quel fanfarone del barone di Münchhausen quando racconta di come, praticamente da solo, abbia tenuto testa a suon di cannonate alla furia dei lanzichenecchi che assediavano Castel S. Angelo. Mentre anticipa il Conte di Montecristo (con in più una vena surreale che a Dumas mancava) quando descrive la sua fuga dalle segrete del Castello approfittando della momentanea follia del capo delle guardie che si credeva un pipistrello in grado di volare.
Venendo al lato libertino del suo racconto, spunti degni del marchese de Sade riguardano alcuni aspetti del suo soggiorno parigino dove, grazie alla liberalità di Francesco I viveva come un principe in una splendida residenza. Qui, tra i suoi innumerevoli ospiti vi era una bellissima modella, Maddalena, di cui il Nostro si era invaghito, la sua perfida madre e un certo Pagolo fiorentino, che Benvenuto riteneva giovane a modo e timorato di Dio, tanto da affidargli la sorveglianza della fanciulla durante una sua improvvisa assenza. Tornando nella sua residenza prima del tempo aveva però colto Pagolo e Maddalena oscenamente accoppiati e sguainata la spada aveva messo in fuga il primo e selvaggiamente picchiato la fanciulla e quella mezzana della madre, cacciando anche loro di casa. Maddalena si era però vendicata denunciandolo per averla posseduta “alla fiorentina” che era la definizione corrente al di fuori d’Italia per la sodomia, reato punibile con la pena di morte. Benvenuto si era però brillantemente difeso durante il processo ed era stato assolto ma continuava a non poter accettare il tradimento subito; anziché lavare l’onta col sangue aveva però preferito attuare un piano assai sorprendente.
Fatta irruzione nell’abitazione dei due fedifraghi, sempre spada alla mano, li aveva costretti a sposarsi, dopo di che, allontanato Pagolo, aveva fatto ripetutamente l’amore con Maddalena, ritenendosi finalmente soddisfatto in base a questo contorto ragionamento: quando la ragazza lo aveva tradito la prima volta era solo una sua amante, mentre ora che tradiva Pagolo era sua moglie e quindi “tecnicamente” quest’ultimo e non Cellini era il vero cornuto. Contento lui!
Ma il racconto continua ancora a lungo e posso solo invitare i lettori a leggerlo nella sua interezza. Così come assolutamente da leggere sono le splendide pagine dedicate alla fusione del Perseo, sua massima gloria e tormento, paragonabile, fatte le debite differenze, con quello che aveva rappresentato la tomba di Giulio II per il “divino” Buonarroti, uno dei pochissimi artisti e letterati, insieme forse al Pontormo e a Benedetto Varchi verso cui Benvenuto mostra ammirazione e rispetto.
In definitiva questo di Alessandro Masi è un libro da leggere tutto d’un fiato e che riesce a tratteggiare mirabilmente non solo la vita “scellerata” di un grandissimo artista ma anche cinquant’anni di storia europea tra le più intricate e interessanti dell’Evo moderno.
Sergio ROSSI Roma 3 Dicembre 2023NOTE