Uno ‘spleen’ devastante. Leo Longanesi a 60 anni dalla scomparsa.

di Mario URSINO

La “noia” di Leo Longanesi, ovvero della sua attualità

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Sul personaggio e sull’opera di Leo Longanesi (1905-1957) [fig. 1], di cui quest’anno è caduto il sessantesimo dalla sua prematura scomparsa a soli 52 anni, sono stati versati fiumi di inchiostro, dagli anni Venti in poi, da Malaparte a Savinio, dalla Sarfatti a Falqui, Vittorini, Prezzolini,  Giovanni Ansaldo, Henry Furst, Brancati, e, naturalmente, da uno dei suoi miglioria amici, Indro Montanelli; nel ventennale della scomparsa di Leo, nel 1977, Montanelli gli dedicò un’intera pagina, Un omnibus chiamato Leo, sul “Il Giornale” del 27 settembre, che l’illustre giornalista aveva fondato tre anni prima, nel 1974. Su quella stessa pagina, oltre ad un’antologia dei più famosi aforismi e caustiche battute di Longanesi, figuravano anche altri due importanti articoli: il primo di Mario Praz, L’occhio e lo stile, dove l’illustre anglista sottolinea: “Il suo era un occhio sicuro, che coglieva immediatamente la qualità […]. Così creò uno stile d’impaginazione e di caratteri di stampa che era la quintessenza di trovate ottocentesche; l’hanno poi imitato alcuni più recenti editori, ma senza quel tocco maestro, quella precisione impeccabile da grande sarto”; il secondo di Sergio Ricossa, Anarchico borghese, titolo quanto mai calzante per la figura più singolare e irripetibile del personaggio e per la molteplicità delle sue espressioni artistiche della prima metà del Novecento Italiano.

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Famoso, come dicevo, soprattutto per le sue fulminanti battute del tipo: “Cercava la rivoluzione e trovò l’agiatezza”, “Chi rompe non paga e siede al governo” (quanto mai attuali). Quest’anno è stato ripubblicato, per la ricorrenza, il suo libro forse più noto, La sua signora, il “taccuino” di Leo Longanesi, edito per la prima volta da Rizzoli nel 1957, poco dopo la scomparsa del protagonista, con la storica introduzione di Indro Montanelli. L’edizione più recente è del marzo 2017, edito dalla Longanesi, con aggiunta di una postfazione dello scrittore Pietrangelo Buttafuoco, ed è la terza, dopo la seconda pubblicata quarantadue anni fa. E quest’ultima è quella in mio possesso, nella prima edizione della BUR di Rizzoli, del 1975 [fig.2], che sono andato a rileggere per l’occasione.

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Riassumere tutto ciò che ha fatto Leo Longanesi nella sua breve e intensissima vita, come pittore, giornalista, direttore di giornali, scenografo, regista, commediografo, disegnatore oltranzista,  inventore dei “rotocalchi”, da “Omnibus” (1937) [fig. 3] a “Il Borghese” (1950) [fig. 4],  nonché fondatore, inutile dire, della celebre casa editrice che porta il suo nome dal 1946 a Milano, e che da allora si denomina Longanesi & C., è praticamente impossibile da descrivere per la densità di un lavoro senza pause e senza soste.

fig 4

E così sono andato a rileggere questo suo singolare “taccuino”, una sorta di Bouvard et Pécuchet: “Leggevano le ricette dei medici, e si meravigliano molto che i calmanti fossero qualche volta eccitanti…”, sembra una battuta di Longanesi, ma in realtà è di Gustave Flaubert (p.105); va ricordato a questo punto che Longanesi pubblicò il singolare libro francese sopra citato – dell’autore del più noto Madame Bovary – nel 1946, opera che figura tra i primi volumi della sua neo casa editrice, ed è il n. 5 della storica collana “La Gaja Scienza”, nell’ottima traduzione della scrittrice Orsola Nemi – pseudonimo di Flora Vezzani, (1903-1985). Ma questa volta, ne La sua signora, mi è sembrato di scorgere, con vera sorpresa, che in questo strano diario che copre l’ultimo decennio della sua esistenza, 1947-1957, un Leo Longanesi che si trovava spesso ad “annoiarsi”; sì perché lui era affetto da una cronica malinconia, come disse Moravia: “Longanesi fu uomo estremamente elegante, malinconico, con atteggiamenti quasi crepuscolari, in bilico tra antichi valori strapaesani e la modernità” (in “Il Giornale”, 14 aprile 1985);  non sopportava tutto ciò che era banale, stupido, conformista, sia nell’Italia fascista, come nell’Italia post-fascista e democristiana, insomma sempre controcorrente; e quando per forza maggiore, come capita a tutti, si imbatteva in talune situazioni indesiderate e incontri obbligati, egli si sfogava in questo bizzarro testo dicendo: “che noia. Noia che non mi pare sia stata sufficientemente rilevata, (se si esclude il breve cenno che ne fa  Buttafuoco: “Il demonio da ricacciare negli inferi è la noia, una giallognola zitella come la vendetta”), da illustri e meno illustri esegeti di questo maestro, inventore di stili e di personaggi; valga per tutti la famosa giornalista e scrittrice Irene Brin, al secolo Maria Vittoria Rossi (1914-1969) che scrisse: “Io non mi chiamo né Irene, né Brin […] sono nomi inventati da Leo Longanesi. Io sono un’invenzione di Leo Longanesi, come altre persone che ebbero la fortuna di passargli accanto, di svegliare in qualche modo il suo interesse, di scatenare la sua furiosa pazienza costruttiva […]. Longanesi inventava tutti. […] Longanesi regalava le idee che, molti anni dopo, sarebbero divenute i rotocalchi, i romanzi, i film, le fortuna altrui.” (cfr. I. Brin, Un nome inventato, in “ Il Borghese”, n. 41, Milano, 10 ottobre 1957, pp. 588-589).  Longanesi infatti  volle la Brin in “Omnibus” sin dal 1937 per una rubrica di costume e cronaca mondana, una novità per il primo rotocalco italiano, sempre ricco di foto a commento. (Il settimanale durò solo due anni, poiché nel 1939, come è noto, il regime fascista lo soppresse, con il pretesto di un articolo di Alberto Savinio su Leopardi, ritenuto oltraggioso: egli aveva scritto che il poeta recanatese, golosissimo di gelati, era morto di dissenteria a Napoli usando un termine più prosaico e popolare, nello spirito satirico e caricaturale del periodico longanesiano). Persino un grande protagonista delle letteratura italiana del Novecento, Giuseppe Prezzolini (1882-1982), ammise di aver avvertito la irresistibile forza della sua personalità: ”Gli debbo di aver scritto il mio Italiano inutile [1954, n.d.a.], che misi insieme per il suo insistente invito […] e mi trovai a mezz’agosto, a finire in dieci giorni il volume… Sono cose che non posso dimenticare”. (G.Prezzolini, Lettera da New York, in “Il Borghese”, n. 41, 10 ottobre 1957, pp. 584-585).

Ecco perché è sorprendente leggere quei momenti di “noia” che attraversavano la vita di Longanesi, e mi è sembrato interessante annotarli puntigliosamente da questo suo “taccuino” cronologico, nonostante egli fosse poi sempre prontissimo a “scatenare la sua furiosa pazienza costruttiva”, come ha scritto la Brin.

Ed è per questo che ho trascritto qui di seguito un florilegio estratto  da questa sorta di diario, che però Longanesi non teneva giorno per giorno, ma riversava saltuariamente nella scrittura, pensieri, battute divenute celebri, e brevi episodi della più svariata natura, sempre secondo i suoi umori e malumori, e molto spesso, come mi è sembrato,  allorquando compariva la “noia”:

fig 5 Longanesi e Maria Spadini
Milano, 10 novembre 1949, «Sì, ma non vorrai passare così tutta la domenica» «Suona» «Vedi come sei? Ti annoi. Perché mi hai sposato allora» [breve dialogo tra Longanesi e l’amata moglie Maria Spadini, figlia del noto pittore Armando Spadini, n.d.a.  [fig. 5].
Milano, 25 novembre 1949, La famiglia è uno stato che riceve autorità dalla noia, dalle convenienze e dalla paura di morire soli in casa.
Milano, 28 agosto 1950, La nostra vita è sempre appesa a un filo; basta un nulla per tagliarlo, un doppio genitivo che dà noia, un quadro mal fatto, una lettera. 
Milano, 13 ottobre 1950, La noia mi attende in anticamera e fuma, fuma: fuma la sua centesima sigaretta. 
Milano, 13 novembre 1950, Oggi, noia che sbatte come una persiana al vento. 
Milano, 18 dicembre 1950, A teatro: noia e disagio. Brutte girls malfatte mostrano flaccide coscette violacee e seni appassiti, costumi e scene volgari: battute, danze e canzoni che insudiciano gli spettatori. Non ho la forza di alzarmi, e resto seduto, intontito da quelle stupidità.
Milano, 19 dicembre 1950, Nel fosso / è riflesso / del mio cuore / il rosso*
Milano, 12 luglio 1951, «Non la sfiora mai, in queste lunghe giornate d’estate […] in queste ore distese e immobili l’ala della noia
Parigi, 20 settembre 1951, Blu di Prussia sconfitta / rosso vendetta di Russia / e bianco di letto sfatto: / sta Parigi, come un gatto, / nel suo glorioso drapeau.*
Milano, 20 giugno 1952, Cena sotto la pergola, all’Osteria del Berti. La ragazza che siede al nostro tavolo indossa un abito da sera carico di lustrini. Essa si annoia dei nostri discorsi e spezza grissini. 
Milano, 11 dicembre 1952, Sulla neve del sagrato / bianca di bucato / un passero si è fermato. / E’ una primizia / per cartolina natalizia
Milano, 1 febbraio 1953, Dopo la noia che era seguita al primo entusiasmo per Fido, ci fu in casa un ritorno alla cinefilia e al socialismo alla Malot: il triste mito del cane randagio si impossessò ancora di noi […] ora sono colto dalla noia di possedere un cane, di trovare le mie calze a brandelli, di sentirmi le pulci addosso.
Milano, 11 febbraio 1953, La noia porta vendetta.
Francoforte, 3 maggio 1953, L’anticamera del fotografo che mi riceve alle nove del mattino è minuscola ammobiliata con poltroncine di legno tinte di verde […] «Quante persone abitano in questa casa?» «Otto» dice il fotografo. «Quante camere ci sono?» «Cinque, più la cucina, il bagno e l’anticamera […]. La noia più grossa è quella del bagno, al mattino. Ma ognuno di noi ha il suo turno. L’importante è avere grazia nel disagio». Queste parole mi restano nell’orecchio per tutto il giorno: Grazia nel disagio. Vorrei che a Roma qualcuno le comprendesse.
Imola, 26 agosto 1953, In cerca d un argomento, di uno spunto, di qualcosa che mi spinga a scrivere. Ascolto il battito della noia, nel vuoto in cui riposo.
Milano, 5 novembre 1954 [? Verosimilmente 5 dicembre, essendo Lanza deceduto il 30 novembre, n.d.a.], Morte di Lanza. Molti whiskies, molte illusioni; suoni di chitarre; il bar, il barman, la notte che non passa mai. La noia alle calcagna, la noia di lusso, la noia mondana, la noia viziosa […] Addio vecchio amico. [si tratta di Raimondo Lanza di Trabia (1915-1954), noto personaggio mondano, morto il 30 novembre 1954 per una caduta da una finestra dell’ Hotel Eden a Roma; resto un mistero se si sia trattato di suicidio, n.d.a.].    
Milano, 17 dicembre, 1954, A cena con B., giornalista inglese, simpatico intelligente. Quel che dico lo interessa. Inghiotte ogni mia parola come un uovo all’ostrica. Ho l’impressione di vederlo ingrassare sotto i miei occhi. Ma alla fine mi annoia. O meglio: mi annoio a destare tanto interesse.
Imola, Natale 1954, Sole sui tetti. Cappone in tavola, malumore. Il cappone è insipido come la noia di questo giorno che soltanto i poveri, i malati, i derelitti sanno apprezzare. Per festeggiare la nascita di Gesù, si decide di licenziare la serva […] “Proprio oggi dobbiamo prendere queste decisioni?”, dico, ma le mie parole non trovano eco. 
Milano, 19 marzo 1955, “I miei bambini” dice la signora con voce patetica. “Anche noi, se non le dispiace, abbiamo i nostri” […] Dagli amorini dell’Albani a quelli disegnati sui calendari delle opere pie, questi bambini hanno finito coll’annoiarci. Ce li mostri quando saranno grandi, non pagheranno le tasse, quando saranno dei lestofanti come loro  padre. 
Milano, 7 aprile 1955, Toi, / moi / et ce monsieur là / nous sommes / tous les trois / destinés, / condamnés / a voir / toujours / l’ombre noir, / d’un noir chapeau / sur la peu / blanche  / d’Italie.* 
Milano, 18 maggio 1955, All’ISPI, in una sala barocca, una cinquantina di persone, in prevalenza donne, ascoltano l’oratore negro che tesse un noiosissimo panegirico del progresso pedagogico degli Stati Uniti […]. Il pubblico ascolta compunto queste sciocchezze con lo stesso candore con cui le espone l’oratore. E ciò non meraviglia: chi frequenta queste conferenze non sa, di solito, come passare il pomeriggio, ed è incline alla benevolenza pur di vincere la noia.
Roma, 9 luglio 1955, Rome / sans cœur / sans larmes / pleine de charme / vit sans bataille / dans un feu de paille.*
Roma, 4 agosto 1955, Tutto sommato l’estro di Roma è ancora tenuto in vita dalla volgarità, dalla noia e dalla indolenza della plebe. Quel suo indomabile piacere di vivere senza decoro è il solo custode del decoro cittadino.
Milano, 5 agosto 1955, No / non posso / mangiar rosso / né ingoiare il satanasso / né ber del chiasso, / Io salto il fosso / e ti dico adesso: / fa lo stesso / a più non posso / fino all’osso*.
Milano, 8 agosto 1955, Che bella scollatura / che carne dura! / di sapore asprigno / di color benigno.*
«Non ci posso credere» «Ci creda, ci deve credere, perché lei è credente» [non si può non pensare a Totò! [n.d.a.]
Treviglio, 8 ottobre 1955, Pranzo ieri sera al castello di M. in una vasta sala affrescata, seduti intorno a una immensa tavola, illuminata da pesanti candelieri d’argento. Noia, cibi ottimi, cristalli lucenti. 
Roma, 9 ottobre 1955, Domenica di scirocco. Siedo a un tavolo di via della Vite […]  «A Buenos Aires oggi si spara», dice uno, «e qui si muore di noia». 
Milano, 12 ottobre 1955, In tribunale. Quel che qui mi colpisce, soprattutto, è la sciatteria, la noia, la noncuranza in cui tutto si svolge.
Milano, 21 ottobre 1955, «Non è la noia che mi spaventa: è la paura di non divertirmi che mi terrorizza. Perché l’annoiarsi non costa alcun sacrificio, ma non divertirsi rincresce», dice la signora A.
Milano, 10 novembre 1955, Ho qui sul tavolo il libro di Missiroli, Polemica liberale, ora pubblicato, e ne taglio le pagine piano piano. È come sfogliare un mazzo di lettere d’amore, ritrovate in un cassetto […].  A posar l’occhio su questo libro, si ritrova quel che non s’ha più: la fiducia nelle idee, anche se alle idee non si crede più. Anche se la realtà italiana ci spaventa e ci annoia.
Napoli, 27 febbraio 1956, Dopo quattro giorni di permanenza in questa città, tutto quello che dapprincipio recava noia e fastidio, comincia a piacere. Ci si accorge di essere entrati in un mondo antichissimo, civile, che ha continuato a vivere fino a noi, e che prospera nonostante la nostra estrema volgarità moderna 
Milano, 20  marzo 1956, Un pensiero, / come un sonetto, / è men che zero / se non dà diletto.* 
Milano, 19 novembre 1956, Alla mostra del pittore S. quadri tristissimi, di un avanguardismo vecchissimo, neri, opachi, tonti. Lo strano è che il loro autore, che sta tutto il giorno nella mostra, li guardi di continuo senza annoiarsi.
Milano, 11 gennaio 1957, A un tratto, mi annoio di quel che stavo dicendo. Ma i miei ospiti, ormai erano troppo interessati al mio discorso.
Milano, 14 gennaio 1957, Sono un uomo inquieto, uscito da una famiglia quietissima. La quiete mi annoia, l’inquietudine mi irrita. Cerco una via di mezzo, ma la cerco dove sono sicuro di non trovarla. Amen. 
Milano, 8 febbraio 1957, La mia storia non mi appassiona, mi annoia soltanto.
Milano, 9 febbraio 1957, Siamo appassiti insieme in un appartamento bloccato dalla noia. 
Milano, 2 marzo 1957, Gli amici ci lasciano; i nostri discorsi li annoiano. Anche noi siamo stanchi di ripeterci.  

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fig 6

Gli ultimi quattro pensieri, così perentori, qui sopra riportati, sembrano proprio parole di un inconscio congedo del Longanesi che scomparirà circa sette mesi dopo, all’improvviso, nel suo studio a Milano. Montanelli, nel 1980, in occasione della ripubblicazione di un altro celebre libro del suo amico Leo, In piedi e seduti, del 1948 [fig. 6], che racconta ironicamente gli italiani, e la storia italiana, della nascita e della fine del fascismo dal 1919 al 1943, ha scritto: “Longanesi è morto 23 anni fa. Ne aveva appena 52 quando un infarto lo fulminò nel suo studio di via Bigli. Sentendoselo arrivare addosso, non fece nulla per scamparvi, anzi disse: «Meglio così: alla svelta, e qui dentro, fra le mie cose». Non aveva, da un pezzo, più voglia di vivere” (Indro Montanelli, Longanesi esce dal ghetto. La congiura del silenzio, in “Il Giornale”, 3 febbraio 1980).

È stata quindi la “noia”, a mio avviso, ad ucciderlo e le ultime frasi riportate nel suo “taccuino” ne sono la testimonianza più eloquente. Chissà quante altre volte la “noia” deve averlo colto nei suoi libri usciti senza sosta, nei suoi numerosi articoli in giornali e riviste e le innumerevoli frasi pubblicitarie da lui stesso coniate a commento dei suoi inimitabili disegni; penso inoltre che la prova più evidente del suo annoiarsi sia stata nel pubblicare il romanzo Una vita [fig. 7], che è grosso modo un po’ la vita di tutti, un singolare volume dato alle stampe dalla sua omonima casa editrice nel 1949, che risulta composto esclusivamente dalle sue 154 illustrazioni, fra disegni e incisioni, con una brevissima, innocente ironica frase di commento per ognuna delle immagini; cito qui la prima: “…ero ancora piccolo e non capivo…” e l’ultima: “…e gettate il mio cuore in un bicchiere di rhum…”. [figg. 8-9].  Adorabile Longanesi.

fig 10

E bene fecero, perciò, gli editori Longanesi suoi soci a pubblicare a soli tre mesi dalla scomparsa, nel dicembre del 1957, il raro volume Me ne vado [fig. 10], anche questo consta di 81 bozzetti incisi da Longanesi, non corredati da alcun testo; sono disegni  editi e inediti che, come sappiamo, servivano per stampare i famosi volantini pubblicitari, i cosiddetti “santini”, che il lettore trovava quasi sempre (io stesso ne ho trovato un certo numero nei miei libri) nelle pubblicazioni longanesiane tra il 1946 e il 1950 e oltre, e che negli anni sono divenuti oggetto di studio e di collezionismo. Ne esistono tre versioni, distinte dalla profilatura rosa, azzurra e marrone che inquadrano di volta in volta un disegno di Longanesi, ognuno per la pubblicità di un libro edito dalla sua casa editrice. [figg. 11-12-13]

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Un dipinto di Leo Longanesi nelle collezioni della Galleria Nazionale d’Arte Moderna

fig 14

Il dipinto Roma, 1941, olio su tela, cm. 50×60 [fig. 14], fu acquistato nella storica Galleria Barbaroux a Milano, ma proveniente dalla collezione dell’artista, dal Ministero della Pubblica Istruzione nel 1941, per essere destinato al nostro museo di arte moderna.

L’opera fu certamente un omaggio alla città di Roma e in particolare a quella papale, (si veda anche Angelo Romano, 1941, coll. priv. con la cupola di San Pietro sullo sfondo) [fig. 15], come si evince dalla sua inusuale iconografia, fantasiosa, liberamente caricaturale e vagamente surreale, con quell’angelo volante e festante che suona la tromba sulla veduta della città. Sullo sfondo appare la cupola michelangiolesca di San Pietro, al di là di una piccola chiesa immersa in una folta vegetazione, e in primo piano un vaso trasparente con fiori, poggiato su un

fig 15

tavolo, probabile punto di vista di  questa scena immaginaria. Il tutto con colori tenui e vibranti, tonali come quelli degli artisti della Scuola Romana (coi quali Longanesi aveva certo avuto consuetudine: egli, infatti partecipò  alla Prima e alla seconda Quadriennale Romana nel 1931 e nel 1935). Ma, in particolare, le sue opere sono caratterizzate dalla linea sinuosa, serpentinata, un po’alla Toulouse-Lautrec, un po’alla Daumier, caricata  espressionisticamente nella sua inconfondibile cifra stilistica disegnativa.

Va detto però, a questo punto, che tale dipinto, ancorché giuridicamente inventariato nel 1941 al n. 4056 delle collezioni della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, lo si cercherebbe invano nei due cataloghi generali del museo: quello del 1973 e in quello del 1998. L’opera è attualmente conservata nei depositi del museo e fu da me recuperata dall’oblio nella mostra che denominai Espressionismo romano degli Anni Quaranta alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna dal 23 luglio al

fig 16

30 ottobre del 2004 [fig. 16]. Il dipinto Roma figura al n. 21 del depliant riproducente tutte le 46 opere adunate, fra dipinti e sculture; molte di queste opere, non solo quella di Longanesi, furono da me tratte temporaneamente dai depositi del museo: dall’Afro figurativo a Mazzacurati, a Maccari, Bartoli, Tamburi, Quaglia, Guzzi, allo Scialoja ancora figurativo, e altri; insomma tutti gli allora giovani artisti che nella comune esperienza, appunto romano-espressionista, operavano in controtendenza alla corrente classicista di “Novecento” di Margherita Sarfatti; essi ritraevano e si ritraevano a  Roma nei cupi anni della guerra, in maniera libera e spontanea, nonostante il fascismo imperante.

Per ricostruire la figura del Longanesi, artista a tutto campo, bisognerà attendere la grande mostra tenuta a Palazzo Reale a Milano nel 1996 a cura di Giuseppe Appella, Paolo Longanesi e Marco Vallora,

fig 17
fig 18

dal titolo Longanesi. Editore Scrittore Artista 1905-1957, con un catalogo [fig.17] di circa trecento opere, fra dipinti e disegni, e una completa biografia del personaggio, corredata dalla vasta bibliografia, anno per anno, dal 1923 al 1996. Il dipinto Roma, 1941 fu esposto in questa importante mostra milanese, ed è riprodotto al n. XXVII del relativo catalogo.

*Ho voluto inserire gli scherzi in rima che Longanesi ha coniato, come divertenti pause tra i pensieri sulla noia e che ricordano anche le poesie senza senso e giocose riunite nel volume Versi del senso perso, 1989 [fig. 18], del pittore Toti Scialoja (1914-1998), probabilmente conosciuto da Leo nei suoi anni romani, prima e durante il periodo bellico negli anni Quaranta, insieme a Maccari, Bartoli e tanti altri artisti che si riunivano spesso nello storico “Caffè Aragno”, a Roma, in via del Corso, che purtroppo oggi non esiste più.

di Mario URSINO   Roma dicembre 2018