Un nuovo “Martirio di S. Bartolomeo” di Gioacchino Assereto tra realismo, chiaroscuro caravaggesco ed apertura all’arte barocca

di Barbara SAVINA

Recentemente ho avuto la fortuna di visionare in una raccolta privata questo interessante dipinto attribuibile al pittore genovese Gioacchino Assereto[1].

Il soggetto raffigurato ricorre nel corpus dell’artista: un San Bartolomeo e due abbozzi, raffiguranti il santo, sono documentati nella sua casa, al momento della morte (1650) e altri dipinti con quest’ iconografia sono stati attribuiti all’artista e alla sua scuola (Zennaro, 2011).

La composizione in questione (fig. n. 1) è dominata dal busto inarcato di Bartolomeo, con le braccia legate in alto, mentre un aguzzino, che indossa costumi seicenteschi, sta scuoiando il braccio sinistro, con il coltello, divenuto suo attributo tradizionale. Sullo sfondo compare uno squarcio di cielo, con striature bianche e rosate, ricorrente in altre composizioni dell’artista.

FIG. n.1 Gioacchino Assereto, Martirio di S. Bartolomeo, 1640 ca., olio su tela, cm 133,5×91,5, collezione privata Bassano del Grappa (da Treviso, presso l’antiquario Enrico Cattai)

L’età e le caratteristiche fisionomiche corrispondono alla descrizione fornita nel XIII secolo nella Legenda Aurea di Jacopo da Varagine, principale fonte iconografica sul santo, dove si legge il racconto del suo viaggio missionario in India e delle torture sofferte in Armenia, dove fu crocifisso, deposto dalla croce e scorticato vivo:

“ha i capelli neri e crespati, la pelle bianca, grandi occhi, naso diritto, barba spessa, con qualche pelo bianco. È di normale statura ed è coperto da un vestito bianco…”.

Significativo appare il confronto con la tela dedicata allo stesso soggetto conservata all’Accademia Ligustica di Belle Arti di Genova e datata verso il 1630, affine stilisticamente, anche se con varianti iconografiche (fig. n. 2): nella tela genovese il santo, deposto dalla croce, si contorce tra i suoi aguzzini, in un tortuoso contrapporsi di arti superiori e inferiori.

Gioacchino Assereto, Martirio di san Bartolomeo, 1630 ca. Genova, Accademia Ligustica di Belle Arti

L’esame stilistico conferma l’attribuzione del nostro dipinto all’artista, già proposta da Maurizio Marini, in una perizia scritta per il proprietario intorno al 1990: le dimensioni suggeriscono che si tratti di uno studio preparatorio per un dipinto di maggiori dimensioni, come già ipotizzato dallo studioso.

Gioacchino Assereto, uno tra i maggiori esponenti della scuola genovese del Seicento, attivo per committenti genovesi e spagnoli, assimilò l’austera lezione dei lombardi, fu allievo di Luciano Borzone e di Andrea Ansaldo, e divenne poi interprete originale della lezione del Merisi, attingendo alla cultura caravaggesca prima in ambito genovese e poi attraverso un viaggio diretto a Roma nel 1639. Il dipinto è un pregevole esempio del suo stile oscillante tra maniera e naturalismo: come ha sottolineato Longhi

“il modo intensamente affettivo ne fa uno dei pittori più sensitivi del tempo”.

I dipinti della maturità si distinguono per la forza dei nudi erculei, che emergono da un fondo oscuro, costruiti a tutta luce: anche il S. Bartolomeo di questa tela, databile intono al 1640, sembra quasi uscire dalla tela in cui è stato costretto, entrando direttamente nello spazio dell’osservatore e coinvolgendolo emotivamente nel dramma messo in scena. Nel dipinto ritroviamo la soluzione compositiva tipica degli altri capolavori del pittore, impostata su una diagonale, intorno a cui gira la tela, mentre le figure incombono e si svolgono vigorosamente, nella ricerca di un violenta plasticità.
La figura del martire, vittima del violento supplizio, emerge dall’ombra, colpita da una luce che la investe frontalmente, aspetto significativo di riflessione sulla pittura caravaggesca, costante nella pittura di Assereto, erede al tempo stesso della violenza demoniaca di un Cerano e di un Morazzone.

È straordinaria la resa anatomica, con una cura realistica dei dettagli della muscolatura contratta nella forzata inarcatura ed esaltata dal fascio di luce che squarcia diagonalmente la scena. Attraverso il colore superficiale dell’incarnato si intravede il fondo scuro, che ne esalta la modulazione chiaroscurale, conferendo saldezza alla forma. Il panneggio che avvolge i fianchi è solcato da pieghe profonde, con solchi d’ombra e innervature luminose.  L’opera è caratterizzata da violenti e drammatici contrasti chiaroscurali, che rimandano alla lezione caravaggesca: gli incarnati del torso e del volto sono modulati da attenti passaggi luce-ombra.

È evidente la forza naturalistica: il corpo del santo, con il braccio scorticato, tutto teso nello sforzo di torcere le mani legate in alto, è mosso in modo manieristico e sembra al tempo stesso un frammento degno di Caravaggio. La testa, posta in questo piano ideale inclinato, sembra modellata come un pezzo napoletano e spagnolo e si distingue per la sua intensità espressiva e drammatica. La fisionomia del manigoldo posta a sinistra sembra tipica di Velasquez e si rivela un’acuta capacità di penetrazione psicologica. Una pittura dal vero, con la scelta del notturno, di forte potenzialità drammatica. La tavolozza è abbastanza sobria, con note dominanti di rosso e bianco. Il dipinto è databile nel quinto decennio, presumibilmente dopo il soggiorno romano del 1639, e propone una sintesi originale delle coordinate culturali, entro le quali si muoveva l’artista in quegli anni: Caravaggio, Honthorst e Stomer ma anche Rubens e van Dick, dopo le ascendenze strozziane giovanili.

Assereto entrò in contatto con la lezione del Merisi prima attraverso le copie di Caravaggio e le opere di caravaggeschi come Honthorst e Ribera, conservate nelle collezioni genovesi: una versione riberesca del Martirio di S. Bartolomeo, presente nella raccolta genovese di Marcantonio Doria è stato probabilmente un modello ispiratore. Si esercitò anche nella pittura dal vero, nell’Accademia del disegno di Doria, mettendo in posa modelli presi dalla strada.

La sua cultura caravaggesca si consolidò inoltre attraverso Domenico Fiasella, rientrato a Genova nel 1617, dopo il soggiorno romano che lo aveva visto impegnato per Vincenzo Giustiniani. Inoltre a Roma nel 1639 visitò direttamente la collezione Giustiniani e Costa, ed ebbe l’opportunità di apprezzare dal vivo dipinti di forte impatto espressivo ed emotivo, opera di Caravaggio e dei suoi seguaci nordici e spagnoli, come Honthorst, van Baburen e Ribera, oltre a Valentin, Vouet, Reni.

Questo Martirio di S. Bartolomeo è un dipinto della maturità, in cui ritorna sull’iconografia del supplizio del santo, focalizzandosi sullo scuoiamento successivo alla deposizione dalla croce, raffigurata nella tela genovese giovanile più manieristica: l’artista dimostra di aver assimilato la lezione realistica e chiaroscurale caravaggesca e l’opera si pone in un certo senso a conclusione della fase di forte sperimentazione del pittore nel quarto decennio, caratterizzata dall’ interesse per gli effetti di lume, anche notturno e per la forma, con  un’apertura ad un linguaggio barocco

“con enfasi per gesti ed espressioni, nella ricerca di una compenetrazione tra figure ed ambiente” (Zennaro).

Sono evidenti le affinità compositive e stilistiche con altre opere di Assereto datate negli stessi anni come il Caino ed Abele di Braunschweig e il Sacrifico di Prometeo, in collezione privata (fig. n. 3 in Zennaro, 2011, fig. 58).) in cui la composizione, organizzata entro direttrici diagonali, si distingue per il naturalismo intenso e la sofferta umanità, attraverso la mimica espressiva degli attori sulla scena, tagliata da un lume fortemente contrastato, in una sintesi originale di caravaggismo e barocco genovese.

Giovacchino Assereto, Sacrifico di Prometeo, collezione privata.

La scelta del notturno, di forte carica espressiva e drammatica, con un lume artificiale in diagonale, ricorda anche Mathias Stomer, allievo di Honthorst, con le cui opere entrò in contatto nella raccolta Doria.

Il suo principale biografo Soprani racconta che l’artista raggiunse una grande notorietà anche fuori d’Italia, soprattutto a Siviglia ” dove molti ne facevano copie, che inviavano per originali. Ve ne trasmise però molte lavorate di sua propria mano, che gli fruttarono copiosa mercede”.

Barbara SAVINA Roma 23 Luglio 2023

Bibliografia:

  1. Soprani, Vite de’ pittori genovesi, Genova 1768-69, (pp. 271-278)
  2. Longhi, L’Assereto, in Saggi e Ricerche, 1925-28, vol. II, ed, Firenze 1967, tavv. 39-40
  3. Mercenaro (a cura di), Mostra dei pittori genovesi a Genova nel 600 e 700, catalogo della mostra, Genova 1969, n. 48, pp. 120-121
  4. Marini, perizia
  5. Zennaro, Gioacchino Assereto (1600-50) e i pittori della sua scuola, Soncino (CR) 2011
  6. Bober (a cura di), Superbarocco. Arte a Genova da Rubens a Magnasco,catalogo della mostra Scuderie del Quirinale, Roma 2022

[1] Ringrazio il proprietario e Roberta Lapucci per avermi dato l’opportunità di studiarlo e pubblicarlo in questa sede.