«The color makes the structure, the structure doesn’t make the color » Stanley Whitney da Gagosian (Roma fino al 17 ottobre)

di Giulio de MARTINO

La scacchiera della percezione. Stanley Whitney espone da Gagosian (Roma)

Stanley Whitney (Philadelphia 1946) è artista profondamente novecentesco e, al tempo stesso, pittore profondamente americano.

Come molti artisti del ‘900 ha una visione dell’arte (e della pittura in particolare) saldamente radicata nelle tante e diverse esperienze dell’Avanguardia. Ma, come pittore americano, vive una sorta di «nostalgia» dell’Europa – e del nostro Paese in particolare – che lo ha spinto, non solo a risiedere spesso in Italia, ma ad interpretarla come una porta aperta verso l’«antico». Una antichità non vissuta, ovviamente, secondo i canoni della filologia e dello storicismo europei, ma da americano, cioè come un «antico contemporaneo».

Whitney vive e lavora fra New York e Parma (Solignano, Casa Bertacca) – ma ha lungamente abitato a Roma negli anni ’90. Per questo, nell’esergo della mostra, Gagosian ha posto questo suo pensiero:

«Il colore, la luce, l’architettura antica: non mi stanco mai di contemplare Roma. Roma da sempre illumina ed ispira il mio lavoro. La mia tecnica pittorica attuale ha iniziato a prendere forma negli anni novanta, quando, immerso nella città, mi guardavo intorno ammirando l’architettura antica e rinascimentale. A Roma vige un ordine e un ritmo antico che voglio nei miei dipinti».
Fig 1 Stanley Whitney, That’s Rome, oil on linen, 243,8 x 243, 8 (2019)

Cosa questo significhi è tutto da sviscerare e il lavorìo ermeneutico che si richiede al visitatore va di pari passo con il cimento percettivo cui viene esposto dalla visione delle grandi tele di Whitney.

Come tutti i pittori Whitney ha imparato a dipingere da altri pittori. Tradizioni, esperienze e intuizioni sono poi state da lui rielaborate in modo del tutto personale, ma si possono dividere agevolmente fra quelle provenienti dagli artisti dell’anglosfera – di cui Gagosian, con i suoi grandi spazi espositivi e il suo fervido lavoro critico e informativo, è il massimo divulgatore nel mondo – e quelle europee o addirittura «classiche».

Tra gli influssi americani Whitney indica Pollock e Rothko come i due estremi del suo spettro pittorico:

«I was thinking to myself, I want space like Pollock, but I want color and depth like Rothko, which seem so opposite of each other» (S. Whitney, Intervista a Louise Neri, 10.04.20).
Fig. 2 Stanley Whitney, Roma 20, oil on linen, 101,6 x 101,6 (2020)

Evoca anche una pittrice americana non popolarissima in Europa come Agnes Martin (1912 – 2004) con la Artists’ Colony di Taos in New Mexico, che lo spinse verso il minimalismo, che possiamo intendere come l’equivalente americano dell’«arte povera italiana». Questi riferimenti, nel complesso, lo hanno indirizzato verso la libertà delle forme pittoriche e verso la dinamica espansione del colore sulla tela. Soprattutto, però, ci chiariscono molti aspetti del peculiare status di cui fruiscono gli artisti in America in quanto esploratori dei confini slabbrati del sociale e del naturale.

Riguardo all’Europa, Whitney ha detto :

«I was thinking about how Munch painted, about Cézanne, and slowly things were coming together for me. The last piece of the puzzle was density. I thought that if I put the colors next to one another, I would lose the space. Then I realized the space is in the color. I put a color down and then I respond to it».

In questa sentenza Munch e Cezanne vengono evocati soprattutto per la loro gestualità pittorica e per il nesso corpo/tela che emerge dai loro dipinti.

Fig. 3 Stanley Whitney, A Million Midnights, oil on linen, 243,8 x 243,8 (2019)

Non va trascurato, però, l’influsso dell’astrattismo geometrico di Piet Mondrian. Infatti, per Stanley Whitney, l’astrattismo si avvicina a quello stile non figurativo, ma decorativo, che vedeva applicato – in Italia – ai vasi e alle pitture etrusche e romane. Il geometrismo astratto e cromaticamente raffinato diventava basilare anche nella sua pittura. Si può così meglio comprendere quel legame che Whitney individua fra l’astrattismo decorativo antico (e moderno) e il lavoro di Peachwork e di «Quilt making» che si tramanda, artigianalmente, presso molti popoli (anche in America) e che appare nella scacchiera cromatica dei suoi quadri.

Whitney parla anche diffusamente del suo interesse per l’architettura rinascimentale. Dall’osservazione delle grandi forme (Shapes) e dei colori presenti negli spazi e negli edifici protomoderni proviene sia il suo interesse per la figura del quadrato (Square) – che racchiude i suoi dipinti – sia l’ordine e la partizione dei diversi colori dentro il campo pittorico (Field). Va chiarito, però, che, per Whitney, ogni tela va concepita come un «campo di battaglia», una griglia di confini e di frontiere in cui ogni colore è in accostamento, ma anche in contrasto, con un altro.

Dice infatti:

«I think of colors as borders. With countries, borders are fought for. In my paintings, the colors are fought for».
Fig. 4 Stanley Whitney, Stay Song 60, 101,6 x 101,6 (2019)

Il dipinto è una scacchiera (Grid) in cui fra un quadrante e l’altro ci sono sia armonia che contrasto. I colori si espandono liberamente nello spazio e trovano un limite solo negli altri colori: «The color makes the structure, the structure doesn’t make the color », dice. Per questo i salti cromatici impegnano costantemente lo sguardo dell’osservatore. Chi vede i dipinti di Whitney non vi trova accostamenti di colori complementari o abbinamenti naturalistici, bensì interazioni dinamiche e sorprendenti. I contrasti cromatici acquisiscono valenze interculturali e creano una relazione dinamica tra spazio e massa, campitura e densità, permettendo ai ritmi e alle forme del passato classico (i colori di Pompei o di Botticelli) di dialogare con quelli del presente pittorico.

Ma il tassello decisivo, il collante risolutivo, pare gli sia venuto dalla musica jazz:

«The idea of a painting being so still but so rhythmic at the same time. So getting the rhythm of the painting is really important to me […] when I first went to art school, I thought of Cézanne in terms of Charlie Parker and the rhythm» (S. Whitney, 10.04.20).
Fig. 5 Stanley Whitney, In Memory of Tomorrow, oil on linen, 243,8 x 243,8 (2020)

L’accostamento di Cézanne a Charlie Parker evoca il tema neoclassico dell’arte come incontro di «due Muse» – la poesia e la musica (Erato e Euterpe) – che qui diventano la pittura e la musica. La musica jazz è anch’essa un elemento povero e minimalista: spinge al movimento il corpo e guida il gesto del pittore che, quando dipinge, misura la tela con le sue gambe e le sue braccia e sposta il pennello secondi ritmi mentali e fisici che lo avvicinano al «session player» del jazz.

In Italia, il lavoro di Stanley Whitney potrebbe evocare quello di Riccardo Licata (Torino, 20 dicembre 1929 – Venezia, 19 febbraio 2014), ma alla griglia cromatica e alle partizioni geometriche Licata sovrapponeva un codice segnico, mentre Whitney lascia che il linguaggio resti tutto interno ai colori e alla loro musicalità.

Giulio de MARTINO    Roma 13 settembre 2020

STANLEY WHITNEY

September 10 – October 17, 2020 h:12:00 – 20:00

GAGOSIAN. Via Francesco Crispi 16, 00187 Roma