Sylvain Bellenger si confessa dopo quattro anni di lavoro: Capodimonte, le Luci e le Ombre, le speranze, i progetti, le difficoltà.

P d L

Sylvain Bellenger (Valognes, Normandia, 1955), è stato da poco riconfermato alla direzione del Museo Nazionale e Real Bosco di Capodimonte, dove è approdato con la Riforma Franceschini. E’ forse il direttore con maggior esperienza internazionale tra quelli insediatisi nel 2014 e ora riconfermati, in particolare è stato direttore del dipartimento di pittura e scultura europee medioevali e moderne all’Art Institute di Chicago, dopo aver curato dal 1999 al 2005 al Cleveland Art Museum la sezione di pittura e scultura europea; nel suo paese, dopo la specializzazione in storia dell’arte alla École du Louvree della Sorbonne, ha ricoperto il ruolo  di curatore capo all’Institut National d’Histoire de l’Art (INHA) di Parigi, dopo aver diretto dal 1987 al 1991 i Museums of Montargis e successivamente fino al ’99 lo Château and Museums of Blois. E’ stato collaboratore della Getty Foundation, della National Gallery of Art di Washington, nonchè di Palazzo Farnese a Roma; è autore di numerose pubblicazioni oltre che di conferenze ed eventi espositivi di cui non è possibile dar conto in questa sede. Per ultimo ha curato, insieme con Robertina Calatrava, la mostra Santiago Calatrava. Nella luce di Napoli, apertasi il 6 dicembre e che sarà visitabile fino al 10 maggio, della quale About Art si occuperà nel prossimo numero con una intervista all’architetto spagnolo.

La prima domanda che vorrei rivolgerle parte da una constatazione per così dire numerica; nel 2018 Capodimonte è uscito dalla graduatoria dei trenta maggiori siti museali italiani, in cui si era collocato l’anno precedente grazie ad un incremento del 27% di visitatori fatto segnare l’anno prima. Ecco, personalmente mi sembra davvero curioso questo dato, considerando che Capodimonte è una realtà conosciutissima in tutto il mondo, quindi mi piacerebbe sapere a cosa è dovuto questo inatteso arretramento.

R: Non è corretto dire che Capodimonte è una realtà conosciutissima in tutto il mondo.

Questa grande collezione, una delle più grandi d’Europa, soffre di un problema di scarsa visibilità e accessibilità. Iniziamo con il problema dell’accessibilità. A Napoli il museo non è collegato dalla metropolitana, non è ben servito dai bus pubblici e non c’è un parcheggio. Un altro danno è che il museo non ha segnaletica di riferimento in città e nelle periferie.Per quanto riguarda il problema della visibilità, la questione è anche di natura intellettuale. A parte le grandi mostre temporanee, Capodimonte dal dopoguerra è rimasto un museo di nicchia, riservato a una élite intellettuale o sociale. Capodimonte è una grande pinacoteca situata in una regione storicamente conosciuta per le sue ricchezze archeologiche. Con la visibilità che la riforma Franceschini ha dato ai musei, con le mostre del 2017, sia le grandi mostre che le mostre-focus, come Picasso, Vermeer, Van Gogh, sono arrivati molti visitatori. Nel 2018 le nostre iniziative espositive hanno seguito un preciso criterio, quello della valorizzazione sia del Bosco, amato ma anche sconosciuto non solo da una parte dei Napoletani ma anche da gran parte dello stesso Ministero, sia della collezione permanente. Le mostre sono necessarie per la storia dell’arte e per la vita del museo ma hanno un effetto momentaneo. Invece è importantissimo riflettere sulla collezione permanente e sul racconto del museo, un racconto ora limitato alla storia, diciamo canonica, della storia dell’arte come della storia tout court.

Abbiamo voluto iniziare a smuovere la polvere. Mostre come Carta Bianca. Capodimonte imaginaire, o come Depositi. Storie ancora da scrivere collegata ai misteriosi depositi, hanno portato uno spirito nuovo vale a dire una tipologia di mostre che magari pagano poco come numero di visitatori ma che sono necessarie per studiare nuove strade, iniziare a cambiare i racconti museali e comunicare un’altra storia dell’arte con altri messaggi sul significato e il ruolo dell’arte nelle nostre vite. La prima mostra Carta Bianca ha voluto reintrodurre la libertà nel museo, spesso confiscata dagli storici dell’arte, magari anche molto bravi, proponendo racconti diversi, più personali più pluridisciplinari. L’altra mostra, Depositi ha rivelato quanto la storia ufficiale nascondesse altre storie, e tanti altri approcci dell’arte. Essendo una mostra sperimentale, il catalogo sarà pubblicato dopo la chiusura della mostra con tutti i nuovi studi e gli insegnamenti che è stata proprio la mostra ad ispirare.

I numeri sono una cosa, ma una politica e un cambiamento culturale si costruiscono non in un anno, non in due anni ma in un’intera generazione. Mi ricordo il Louvre della mia adolescenza, prima dei Lavori del Grand Louvre, i visitatori erano meno di 500.000 l’anno. Oggi, dopo trent’anni di lavoro, comunicazione, mostre, progetti educativi, il Louvre si avvicina ai 10 milioni di visitatori.

Vorrei cogliere l’occasione per chiarire questa strana storia dei numeri, perché certamente pesa in modo determinante la burocrazia. Mi spiego: lei sa che noi siamo costretti a lavorare servendoci necessariamente di servizi aggiuntivi perché non abbiamo le forze adeguate interne. Quindi dobbiamo ricorrere a società esterne che ci aiutano a produrre le mostre, come è successo per esempio con l’esposizione di Picasso. In questi casi, la mostra risulta tecnicamente “esterna al percorso museale” con un biglietto Siae separato da quello del Museo e quindi non conteggiato nel sistema statistico del  MiBACT. Ma il visitatore che arriva a Capodimonte e vede quella mostra, spesso allestita con opere nostre, in spazi ovviamente nostri perché non può essere considerato un “visitatore” di Capodimonte?

Un’altra questione strettamente legata ai numeri è quella del Bosco.

Il Bosco di Capodimonte riceve più di tre milioni cinquecentomila visitatori l’anno ma è gratuito, senza biglietto d’ingresso, quindi non è contabilizzato nei nostri numeri. Ci vorrà ancora un po’ di tempo perchè si riesca a fare considerare la visita e l’uso d’un giardino come un’attività anche culturale. Anche quando si stratta d’un giardino storico come Capodimonte. 

E come se ne potrebbe uscire?

R: Basterebbe trovare una modalità per contabilizzare i biglietto SIAE tra gli accessi a Capodimonte.

Non può farlo lei direttamente?

R: No purtroppo no; questo è il limite di un grande paese geniale e creativo come l’Italia, che si perde spesso nei dettagli; con un provvedimento diverso, Capodimonte scalerebbe moltissimi posti nella classifica delle istituzioni museali più visitate, mentre invece, tanto per fare un esempio, io non potrò neppure conteggiare come visitatori del Museo una buona parte degli ingressi registrati con la mostra Caravaggio Napoli. Non è assurdo?

 Beh certo, ecco spiegato il mistero … Tuttavia un dato positivo comunque emerge cioè che la Campania è ormai stabilmente al secondo posto tra le regioni italiane con il maggior numero di visitatori, dopo il Lazio e prima della Toscana; i dati generali peraltro evidenziano un aumento pressoché generalizzato di spettatori, cosa che ha dato occasione al ministro Franceschini di sottolineare il successo delle esperienze delle gestioni autonome. La verità però è che tutti i Direttori che abbiamo intervistato, ma proprio tutti, lamentano invece una scarsa autonomia gestionale e finanziaria. È così anche per lei suppongo e dunque le chiedo: non dovreste essere proprio voi e non i giornalisti a far presente queste criticità al ministro?

R: Prendiamo, per iniziare, l’esempio della Francia dove le regole sono più o meno le stesse riguardo alla gestione del personale, per cui anche lì se c’è bisogno di un addetto alla vigilanza, ad esempio, occorre un concorso, ma lì innanzitutto i direttori possono contare sul fatto che i concorsi si fanno davvero ogni anno, e poi possono avere la possibilità di scegliere il personale scientifico che ha studiato alla Scuola del Patrimonio creata da Jack Lang negli anni 80 del secolo scorso dove si sono formati i curatori. Il profilo professionale del curatore non esiste ancora in Italia; qui ci sono ottimi funzionari storici dell’arte ed archeologi. Il curatore è responsabile delle gallerie e della loro tenuta, della coerenza e dell’aspetto divulgativo delle mostre, mentre il funzionario o lo storico dell’arte hanno altre responsabilità rispetto ai compiti del curatore e questo secondo me va a scapito sia della crescita museale che del concetto di museo contemporaneo.

Lo sappiamo tutti che la vera sfida è ovviamente quella del personale. Non prenderei come riferimento l’esempio del Louvre che conta settanta curatori, ed oltre al Direttore, un gabinetto di tre persone, quattro amministratori di livello dirigenziale più una direzione responsabile della qualità e dell’audit interne, tutte scelte dal direttore Jean-Luc Martinez. Pensiamo invece a un format di museo più vicino a noi come quello del Prado, un museo che con tutti i suoi edifici riuniti conta una superficie paragonabile a quella di Capodimonte di circa 16.000 m², con una collezione di circa 38.000 opere d’arte, e Capodimonte ne possiede 47.000.

Museo del Prado

Vuole sapere come funziona a Madrid, o per meglio dire al Prado? Ebbene lì il Ministero della Cultura ha individuato il museo della Calle de Ruiz de Alarcón come ‘esperienza’, cambiandone nel 2005 lo statuto giuridico, dotandolo di una struttura amministrativa autonoma, con un board pubblico-privato e dando al direttore facoltà di avere il proprio staff. Il museo ora non ha un enorme numero di curatori, sono 9 in totale, ma se guarda l’organigramma del Prado è proprio costruito come l’organigramma di un’impresa con profili professionali che corrispondono alle missioni pubbliche del museo e alla realtà quotidiana d’un museo contemporaneo.

Cosa è successo? Che un museo che quindici anni fa aveva circa 300 mila visitatori annui, nel 2018 è salito  a quasi 3 milioni. Invece Capodimonte non ha struttura amministrativa, non ha i servizi standard dedicati al pubblico d’un museo europeo e dopo Natale avrà solo due curatori per una collezione che copre nove secoli della storia dell’arte italiana e non solo, e in più ha la responsabilità d’un giardino storico due volte più grande di Villa Borghese a Roma.

Quindi se capisco bene si tratta di criticità di carattere generale che un’autonomia più funzionale vi aiuterebbe a superare ?

R: In effetti occorrerebbe una più grande riforma culturale per superare questa logica; se poi non si vuole adottare un criterio generale per tutti i musei, allora facciamolo per i tre grandi musei nazionali, ossia Uffizi, Capodimonte e Brera; noi, inoltre, abbiamo davanti questioni mai prese in esame prima d’ora.

Cioè ?

R: Le spiego subito; quando sono arrivato a Napoli la situazione in cui versava il Bosco non si conosceva e neppure io stesso la conoscevo proprio perché nessuno me l’aveva segnalato; oggi, come le ho detto, contiamo un numero di visitatori superiore ai tre milioni l’anno per un luogo che non era conosciuto neppure da tantissimi napoletani. E tuttavia mi ritrovo un parco con zero custodi; e lo capisco perché so che il personale statale non può fare vigilanza perché occorre una vigilanza giurata, e in qualche parte anche armata …

Ma in questo non vi può aiutare la ‘Associazione amici di Capodimonte’?

R: No, non è proprio possibile; lAssociazione svolge un’attività benemerita di sostegno, ma non può essere gravata della sorveglianza.

A questo riguardo, è vero che l’ex ministro Bonisoli ti aveva promesso oltre 100 milioni per Capodimonte?

R: In realtà si tratta di fondi Cipe già concessi da Franceschini e che riguardano molte cose, come il grande progetto per Capodimonte, la videosorveglianza, l’antincendio, la messa in sicurezza tecnica e così via.

Lei come si è trovato con Bonisoli quando era insediato al Collegio Romano?

R: Devo dire che l’ex ministro non è stato sempre lineare; in effetti, incontrandolo appariva molto disponibile e ragionevole poi, però, al momento di decidere non era più raggiungibile e le cose cambiavano; è il caso, ad esempio, del dipinto di Caravaggio al Pio Monte della Misericordia Le Sette opere di Misericordia, che avrebbe dovuto essere prestato in mostra a Capodimonte, dopo che lui stesso si era mostrato d’accordo e a seguito del parere favorevole delle autorità competenti. In ogni caso, per ritornare alla domanda precedente, vorrei sottolineare come la grande sfida del paese sia l’organizzazione, la formazione, la selezione e l’assunzione del personale, l’adeguamento degli incarichi, considerando che le figure professionali debbono essere anche aggiornate rispetto alle sfide e alle novità che si presentano: quali saranno le nuove figure professionali? Quali criteri per organizzarle? Come devono rapportarsi con le altre? Ecco, sediamoci attorno al tavolo e parliamone. 

E se invece dovessimo parlare dei problemi ‘tipici’ se posso dire così del museo di Capodimonte? Dove metterebbe in particolare l’accento?

R: Soprattutto su due questioni; la prima è davvero tipica, come dice lei, di Capodimonte, l’altra è storica; la prima concerne la collezione, per meglio dire come è stata organizzata, cioè secondo una visione che seppur coerente è però datata, molto datata, perché il racconto che ne traspare è noioso, il pubblico viene introdotto davanti ad una autentica marea di capolavori senza nessuna possibile apertura concettuale o sensibile che gli consenta di pensare, di immaginare, di lavorare intellettualmente. L’altra questione si ricollega fortemente al tema dell’allestimento, secondo un’idea che risale agli anni Novanta e che non esalta affatto le opere, al contrario; pensi all’illuminazione ad esempio, che le schiaccia, che non le rende fruibili come invece dovrebbe. La nostra sensibilità visuale segue le tecnologie che sono ora ben diverse. Io resto sorpreso ogni qualvolta mi rendo conto che le nostre opere che vanno in mostra in qualche altro museo sono quasi sempre al top, sono quasi sempre il capolavoro di quella mostra, poi al rientro qui quasi spariscono nelle sale malamente illuminate, quasi fossimo in un ospedale o una stazione di autobus.

Mi pare che anche riguardo ai mezzi di trasporto Capodimonte debba pagare lo scotto della difficoltà a raggiungerlo.

R: È vero! Abbiamo istituito la navetta Shuttle Capodimonte ma certamente se si fosse pensato a far arrivare fin qui la metropolitana sarebbe stato molto meglio. La posizione del museo non è così ai confini della città metropolitana, l’ostacolo è più che altro di natura psicologica perché il Museo non é ancora entrato davvero nell’inconscio dei napoletani, che in qualche modo ancora non lo percepiscono come loro patrimonio.

È per questo motivo dunque secondo lei che a suo tempo Comune e Regione abbiano trascurato l’importanza di una fermata della metro a ridosso degli ingressi del museo? Come se la spiega questa amnesia?

R: Non me la spiego; come spiegarsi d’altra parte che è stato trascurato il Real Bosco, il grande polmone verde della città che ora invece sta diventando un vero punto di riferimento per la città, per le famiglie, per tutti i cittadini?

Se posso avanzare un’altra ipotesi, è che secondo me Capodimonte non viene alla mente per un preciso capolavoro, per ‘quel’ quadro o ‘quella’ scultura. Pensiamo al David di Michelangelo alle Gallerie dell’Accademia di Firenze, ad esempio; Il paradosso è che va a finire che qui da voi ce ne sono troppi…

R: Non sono totalmente d’accordo, viviamo è vero in una cultura della celebrità ma la celebrità è sempre un malinteso. Il problema maggiore è come si racconta la storia, questo è il punto, e la storia raccontata a Capodimonte banalizza l’opera d’arte, ad eccezione di Caravaggio, che è una specie di rock star delle mostre. Eppure è vero che Caravaggio da noi non attira quanto ad esempio Michelangelo alle Gallerie di Firenze; perché? Perché Caravaggio non è stato mai percepito come ‘napoletano’, nel senso che non lo si è mai identificato con la città di Napoli.

Ma perché su questo tema avete organizzato un importante evento espositivo allora, che pure ha avuto grande successo di critica e pubblico?

R: Se vuole sapere la verità, l’idea originaria con cui era stata concepita la mostra Caravaggio Napoli, curata da me e da Maria Cristina Terzaghi, era precisamente di rendere più sensibile l’accostamento del grande genio lombardo alla città; poi ci si sono messi i soliti bastian contrari che hanno danneggiato l’evento impedendo di fatto che un’opera determinante come Le Sette Opere di Misericordia del Pio Monte fosse in mostra ed abbiamo perduta la chance di far entrare nell’immaginario collettivo il momento napoletano dell’artista.

Quindi è anche un problema che riguarda l’immagine ?

R: Esattamente. L’immagine e la comunicazione. Ma per tornare alla sua domanda sulle criticità che in questo caso non riguardano solo Capodimonte, devo richiamare ancora il tema della identità delle varie dimore borboniche. Mi spiego. Capita che Palazzo Reale, ad esempio, contenga una parte della collezione Farnese, o che al Museo Archeologico ci sia la collezione Farnese antica. Prendo un altro esempio. A Capodimonte c’è la Sala della Culla, ma la culla si trova a Caserta, a Caserta il trono di Murat ma la scrivania di Murat è a Palazzo Reale vicino a una parte delle pitture della collezione Farnese. Questa confusione non aiuta la comunicazione e la forza del messaggio culturale. Per riequilibrare questa realtà ci vorrebbe un enorme lavoro iniziando con la digitalizzazione di tutti gli inventari ora gestibili con l’intelligenza artificiale poi sul circuito e l’identità delle Residenze Borboniche che dal dopoguerra raccontano una storia confusa con le loro collezioni distribuite spesso casualmente o con delle logiche piene di contradizioni o d’eccezioni.

D’accordo, però se è vero che una ripartizione del genere appare poco congrua, tuttavia se è stata effettuata, vuol dire che un qualche criterio è stato seguito, o no?

R: Niente è più complesso che un inventario. Identificare una logica unica per secoli di storia dispersi in tanti luoghi è molto complesso. Infatti tutti gli inventari dai Borboni ai tempi recenti sono incompleti e seguono tante logiche diverse messe insieme, sia topografiche, sia storiche, sia tecniche, o casuali. Per fortuna grazie alla digitalizzazione e all’intelligenza artificiale si può sintetizzare tutto e capire meglio le logiche e i racconti che sono necessari per comunicare un sito culturale.

Vorrei chiederle adesso il suo parere su un dato statistico che non riguarda solo Capodimonte, anzi non so se riguarda anche voi, ma che è stato rilevato a livello internazionale, secondo il quale uno spettatore che va in un museo si fermerebbe mediamente otto secondi davanti ad un’opera; solo otto secondi, cioè un’occhiata e via; preoccupante, no?

R: Sarebbe preoccupante per noi ma abbiamo rilevazioni statistiche in proposito che testimoniano il contrario e siamo in grado di dimostrarlo perché abbiamo a disposizione delle rilevazioni effettuate durante la mostra Picasso e Napoli. Parade grazie all’app. ideata da ARM 23 srl, che ha fornito precisi dati statistici al riguardo tracciando altresì un profilo del visitatore medio. Nel periodo analizzato (7 aprile – 20 maggio 2017), un visitatore su cinque ha scaricato l’app (22%) per una media di 6 minuti e 33 secondi, il periodo medio di consultazione dei contenuti relativi alla singola opera è di 2 minuti e 17 secondi. Nella classifica delle opere più scansionate il Sipario del balletto Parade conquista il primo posto, seguito dal Musicista, da L’acrobata, Strumenti musicali su un tavolino e dall’Uomo con la pipa. Ma chi scarica l’app? Gli italiani in primis, seguiti dagli americani, francesi, inglesi e cinesi, in prevalenza sono uomini (52,2%) rispetto alle donne (47,8%) che però preferiscono accedere dal proprio account personale Facebook (55% donne, 45% uomini). Come vede se le mostre sono interessanti generano interesse e smentiscono certe statistiche.

Parliamo ora del problema dei prestiti di opere d’arte; ha fatto molto discutere, ed anzi ha provocato un esposto al Tar, il memorandum d’intesa tra il ministro Franceschini ed il suo omologo francese per mandare a Parigi l’Uomo Vitruviano e a Roma due capolavori di Raffaello; lei come si comporta in questi casi?

R: Ogni volta che si richiedono opere in prestito la decisione dev’essere ben ponderata perché entrano in gioco vari fattori, innanzitutto la condizione dell’opera che deve uscire dal museo, cioè se è fragile, se il trasporto la può mettere a repentaglio, inoltre la serietà e la scientificità oltre che l’importanza dell’evento, ovvero se l’opera che esce è necessaria non solo per la mostra in sé ma più in generale per l’avanzamento degli studi e delle conoscenze in campo storico artistico; c’è poi un discorso che riguarda quella che possiamo definire la politica del museo; nel nostro caso, ad esempio, i prestiti rispondono sempre alla precisa logica di far conoscere sempre più la realtà di Capodimonte, la sua collezione eccezionale a pochi nota;

al momento ci sono due mostre a Parigi, Gemito e Luca Giordano, entrambe al Petit Palais. Sono le prime mostre dedicate ai due artisti realizzate fuori l’Italia, ad eccezione della mostra Giordano e la Spagna del Prado del 2002, e si tratta della prima mostra in assoluto per Gemito. Questa rottura dell’isolamento ha restituito l’importanza internazionale dei due artisti e portato nuove letture: l’importanza di Giordano per la scuola francese e la scoperta che Gemito ha conosciuto Rodin e non è potuto sfuggire all’occhio avido e scrupoloso d’un altro napoletano a Parigi:  Edgar Degas. A Seattle e al Kimbell Art Museum c’è un’altra grande mostra Flesh & Blood. Italian masterpiecese from the Capodimonte Museum che mette in mostra 40 nostre opere importanti.

Quaranta? Ma sono parte della collezione permanente o dei depositi?

R: Quaranta opere in gran parte della collezione permanente, in minore misura dai depositi; è anche l’occasione di esporre opere sepolte nei depositi da sempre. Le può sembrare strano ma in realtà è il modo migliore per esportare un’immagine vincente di Capodimonte e forse anche di Napoli. Quando le opere rientreranno organizzeremo un evento qui al Museo proprio su come è stato recepito Capodimonte all’estero; molta gente che non ha magari mai fatto caso alle opere quando erano qui a parete sarà incuriosita e verrà a vedere, quantomeno per curiosità appunto; ma anche così, attraverso lo sguardo portato all’estero, le persone si affezionano al proprio museo.

Le faccio notare che a una domanda simile il suo collega Schmidt che dirige le gallerie degli Uffizi ha risposto in modo molto differente; per lui le opere, quanto meno le più importanti, non dovrebbero uscire dal museo se non col contagocce anche perché ormai la tecnica è in grado di riproporle in 3D quasi come fossero reali.

R: Lo capisco, ma lui ha un problema esattamente opposto al mio, la Toscana è dalla fine del diciannovesimo secolo, grazie al primo scholarship anglosassone, al centro degli studi sull’arte italiana. Invece la Campania rimane un mondo largamente sconosciuto e la scuola napoletana lasciata in disparte nella storia tradizionale dell’arte. Schmidt con 4 milioni e mezzo di visitatori di cui oltre due e mezzo agli Uffizi, semmai deve pensare a come farvi fronte; a Firenze poi ci sono capolavori ‘star’, che fanno parte dell’inconscio culturale europeo anche grazie allo scholarship di cui parlavo mentre qui a Capodimonte non solo la scuola napoletana rimane poco studiata fuori Napoli ma c’è una collezione diversa che racconta la storia dell’arte, tutta la storia dell’arte dal XII al XXI secolo; insomma le cose, e soprattutto i problemi da affrontare, sono molto differenti. 

Lei dunque è favorevole al prestito e le ragioni addotte mi sembrano molto coerenti. Ma c’è in ogni caso un quadro, una scultura, insomma un capolavoro che proprio le costerebbe gran fatica far uscire da Capodimonte?

R: Si, almeno due: La parabola dei ciechi, di Pieter Brueghel il Vecchio, che è un dipinto conosciutissimo perché è su tutti i libri di storia dell’arte e non solo, anche se non sono sicuro che siano tanti a sapere che si trova da noi; l’altro quadro è il capolavoro di Simone Martini che raffigura San Ludovico da Tolosa che incorona il fratello Roberto d’Angiò, in questo caso anche perché si tratta di un’opera d’un importanza maggiore estremamente fragile.

Lei è d’accordo con la proposta di rendere gratuiti gli accessi ai Musei?

R: Si sono sostanzialmente d’accordo anche se lascerei la facoltà alle regioni, perché ad esempio in Toscana questo potrebbe provocare problemi, non così al Sud d’Italia; credo che si avrebbero dei risultati sorprendenti; guardi che succede qui al Real Bosco che ora conta annualmente oltre tre milioni di visitatori, e poi pensiamo alla sostenibilità e l’economia indiretta, all’indotto, ai negozi, ai ristoranti, a tutte le iniziative che un afflusso così enorme genera e tiene in vita.

E adesso passiamo alle mostre in corso: cosa può vedere il visitatore che arriva a Capodimonte durante il periodo natalizio?

Ora a Capodimonte, oltre alla collezione permanente, abbiamo quattro mostre in corso: Yeesookyung. Whisper Only to You con gli oggetti in porcellana creati dall’artista coreana, installazioni meravigliose seguendo la tecnica del restauro cinese di legare i cocci con il filo d’oro, Canova. Un restauro in mostra  ovvero la statua in gesso di Letitia Ramolino restaurata davanti al pubblico. E ancora la mostra Napoli, Napoli. Di lava porcellana e musica che propone un’altra lettura delle arti applicate e la loro relazione con la musica e la civiltà, e infine, da poco inaugurata la mostra Calatrava. Nella luce di Napoli:

la prima esposizione di architettura a Capodimonte per la quale Calatrava ha realizzato nuove sculture in bronzo, allestito con le sue opere in ceramica spazi nuovi come il Cellaio storico del Real Bosco e che dimostra in maniera palese quanto la sua idea di architettura sia la sintesi di tutte le arti che lui praticate: disegno, scultura, ceramica. Calatrava, inoltre, sta collaborando con la Real Fabbrica di Capodimonte, oggi Istituto ad indirizzo raro Caselli-De Sanctis per creare opere in porcellana.

Torniamo sulla collezione permanente: pensa di ampliarla? Ci sono acquisizioni in vista?

Marlene e Spencer Hays

R: Le posso dire più in generale che l’Italia ha una politica protezionista ma non ha a mio avviso una vera politica di acquisizioni non solo a causa dei fondi ma soprattutto perché non tratta a dovere il tema del commercio d’arte, che pure con tutto quello che l’Italia ha e tutta l’arte italiana in vendita fuori l’Italia dovrebbe essere un punto di forza; pensi a Londra che certo non ha le potenzialità di questo paese eppure detiene una sorta di leadership nel campo del commercio d’arte, lo promuove, non ha leggi così rigide come sono quelle in vigore qui. Ma mi spiego meglio con un esempio: chi ha fatto la fortuna dell’Impressionismo nel mondo? Gli americani, i collezionisti americani, sono loro che hanno comprato tantissimo, che hanno in pratica imposto l’Impressionismo come fenomeno artistico più importante del XIX secolo, tanto è vero che quando il Museo d’Orsay è stato creato come tale, le grandi collezioni americane erano già dappertutto. Addirittura la politica molto aperta del Museo d’Orsay tre anni fa ha fatto tornare a Parigi la grande collezione Spencer Hays. Per non parlare dell’Ottocento italiano, conosciuto davvero a pochi ed ancora vittima di pregiudizi e non valorizzato. Me ne sono reso conto di recente con la mostra al Petit Palais di Parigi dove è in corso da metà ottobre la mostra su Vincenzo Gemito, e dove abbiamo prestato varie opere dell’artista; si tratta di una esposizione di gran livello non solo relativa a Gemito ma anche ad una intera stagione artistica, quella dell’800 partenopeo, della scuola di Posillipo, del verismo, di cui nessuno sapeva nulla e che invece posso assicurarle che è stata una sorpresa, con artisti come Antonio Mancini, che ai suoi tempi è stato una vera star internazionale, ed ora quasi misconosciuto all’estero; perché? Perché il paese non ha sostenuto queste esperienze artistiche, tanto che oggi spesso i quadri di Mancini a suo tempo adorato da tutti, sono spesso nei depositi dei musei.

Questo però può dipendere molto dalle mode, non trova?

È vero, ma le mode le facciamo noi. Tuttavia secondo me bisogna risalire al dopoguerra quando nelle università e nelle accademie si sono affermate soprattutto le analisi e le ricerche intorno ad alcune grandi personalità ad esempio Antonello da Messina, Caravaggio e altri, mentre invece l’800 è stato ignorato. Vero è che in Italia si è fatto uno straordinario lavoro sull’arte dal XIII al XVIII secolo, grazie anche ad una politica di attenzione al territorio che ha portato notevoli risultati, tanto che si può dire che dentro questa fascia temporale non c’è artista che non abbia uno studio approfondito o comunque una qualche indicazione di riferimento.

Lei ha una grande esperienza internazionale, come pure – anche se in misura diversa – gli altri suoi colleghi entrati in carica con la famosa legge Franceschini; non avete mai pensato di formare una specie di squadra che potesse in qualche modo suggerire al Ministero una possibile tipologia di riforme, percorsi, progetti utili a migliorare il vostro lavoro?

R: La verità è che tutti noi ci siamo trovati subito dopo la nomina in realtà molto complesse e per molti versi inaspettate (le ho fatto prima l’esempio del Bosco di Capodimonte) tanto che non c’è stata proprio l’occasione di organizzarci al di fuori delle nostre realtà; le dico ad esempio che io lavoro almeno tredici ore al giorno anche perché mi manca una struttura di supporto e quindi devo fare di necessità virtù; pensi solo che in questi quattro anni ho perso circa la metà dei collaboratori. Nonostante le difficoltà si sta organizzando un tavolo verde per fare entrare il giardino storico come valore artistico e patrimoniale a pieno titolo, mi congratulo della recente dichiarazione del Ministro Franceschini a proposito dell’autonomia del Palazzo Reale così insieme alla Reggia di Caserta potremmo iniziare il lavoro necessario sulle Regge borboniche.

Napoli Palazzo Reale

Eppure ci sono stati concorsi ed assunzioni nel frattempo.

R: È vero però i vincitori hanno potuto scegliere dove andare o dove rimanere e se lei pensa che gli stipendi sono piuttosto bassini non può meravigliare che chi sta a Milano con il sostegno della famiglia non scelga di venire a Capodimonte, ad esempio. Le faccio un altro esempio che mi pare istruttivo; riguarda il Grand Palais dove alcuni anni fa i curatori dei musei francesi si radunarono dichiarando al ministro della cultura –allora era in carica Jack Lang – che non se ne sarebbero andati finché non fosse stato riconosciuto loro un trattamento economico adeguato; Lang accolse la protesta rivolgendosi a Mitterrand che se il governo avesse voluto valorizzare il patrimonio artistico della nazione avrebbe dovuto in primo luogo valorizzare chi lo curava, dandogli modo di vivere adeguatamente. E così accadde. Quel momento ha cambiato i musei francesi. Adesso pensi al fatto che un curatore che ha lavorato a Capodimonte per 40 anni si trova uno stipendio mensile intorno ai 1700 euro: si capisce che non è accettabile, anzi è indecente.

Ci avviciniamo alla fine di questa conversazione Direttore Bellenger e le chiedo – come faccio spesso con i suoi colleghi – ripensando ai primi quattro anni del suo lavoro, quale è stata la soddisfazione più grande, o comunque la cosa che ricorda con maggior piacere, e al contrario, cosa le ha dato maggiormente fastidio.

R: La soddisfazione più grande è senza dubbio per me la riconoscenza della città, dei napoletani; le assicuro che è davvero impressionante, a volte non posso neppure attraversare alcune strade di Napoli senza essere fermato, senza ricevere complimenti. Non ho mai dato tanto al mio lavoro ma non ho mai ricevuto tanto in cambio e devo dirle che sono anche molto cambiato personalmente in questi quattro anni, non sul lavoro, ma nel comportamento, perché Napoli è una città che ti segna; e sono fiducioso perché il lavoro è tanto ma lascia grandi emozioni.

P d L    Napoli   13 dicembre 2019