Sulla differenza tra “imitare” e “ritrarre” nella poetica di Caravaggio.

di Sergio ROSSI

Alcuni interessanti e recenti interventi di Clovis Whitfield su questa stessa rivista ( cfr. https://www.aboutartonline.com/news-on-caravaggio-a-painter-who-was-not-solely-dedicated-to-working-dal-naturale-original-english-text-and-translation-by-c-whitfield/ e  https://www.aboutartonline.com/dal-verisimile-a-il-vero-come-la-tecnica-reale-di-caravaggio-abbia-cambiato-la-percezione-di-tutto-original-text-and-italian-translation-by-c-lollobrigida/ ), circa il vero significato da attribuire al termine ritrarre in relazione alla pittura di Caravaggio e più in generale alla letteratura artistica del Seicento mi inducono a qualche considerazione aggiuntiva

La prima delle quali è che il dibattito critico del XVII secolo, specie nella sua componente accademica e classicista, non può essere compreso appieno se non risale di circa un secolo fino ad un testo oggi ormai caduto quasi nell’oblio ma in realtà di fondamentale importanza, e cioè Il primo libro del Trattato delle perfette proporzioni di tutte le cose che imitare e ritrarre si possono con l’arte del disegno, di Vincenzio Danti, edito a Firenze nel 1567[1] e che insieme alla seconda edizione delle Vite del Vasari, di un solo anno più tardi, segna il culmine dell’esaltazione del “primato michelangiolesco” ma ne sancisce al contempo l’inizio della fine.

In questa sede il testo di Danti mi interessa in particolare riguardo a cosa egli intenda perimitazione” (cap. XII):

«Ora, per tornare a dire universalmente di tutte le proporzioni delle cose che imitare o vero ritrarre si possono, dico primieramente che ritrarre intendo io che sia fare una cosa come appunto si vede essere un’altra. E lo imitare medesimamente intendo, al proposito nostro, che sia fare una cosa non solo in quel modo che altri vede essere la cosa che imita, quando fosse imperfetta, ma come ella sarebbe in tutta perfezzione».

Nel XIII capitolo, poi, tra “imitare” e “ritrarre” viene indicata la stessa differenza che intercorre fra poesia e storia, ed è la prima volta che la teoria espressa nella Poetica di Aristotele viene così esplicitamente collegata con l’arte figurativa:

«Ritrarre si possono tutte quelle cose che sempre appaiono perfette nell’essere loro; et imitare quelle che possono essere per alcun accidente imperfette. Perciocché lo imitare et il ritrarre intendo che abbiano la stessa differenza che ha la poesia con la storia. L’Istoria scrive propriamente le cose come elle sono successe, verbigrazia, descrivendo la vita di un particolare, la racconta appunto come ell’è stata, e questo è il proprio della storia, dire le cose appunto come l’ha sentite e vedute. E la poesia non solamente le dice come l’ha viste e sentite, ma le dice come arebbero a essere in tutta perfezzione; e descrivendo essa poesia la vita d’un particolare, la racconta come arebbe avuta a essere, con tutte le virtù e perfezzioni che se l’appartengono».

Si tratta per l’appunto di una ripresa quasi testuale della Poetica aristotelica, un testo, non dimentichiamolo, che ha conosciuto una nuova fortuna già a partire dalla seconda metà del XVI secolo, anche per quel che riguarda l’applicazione dei suoi principi all’arte figurativa:

«Da quel che abbiamo detto, risulta manifesto anche questo: che compito del poeta è di dire non le cose accadute ma quelle che potrebbero accadere e le possibili secondo verosimiglianza e necessità. Ed infatti lo storico e il poeta non differiscono per il fatto di dire l’uno in prosa e l’altro in versi (giacché l’opera di Erodoto, se fosse posta in versi, non per questo sarebbe meno storia, in versi, di quanto non lo sia senza versi), ma differiscono in questo, che l’uno dice le cose accadute e l’altro quelle che potrebbero accadere. E perciò la poesia è cosa più nobile e più filosofica della storia, perché la poesia tratta piuttosto dell’universale, mentre la storia del particolare»[2].

E se il poeta si trova a dover scegliere tra il descrivere un avvenimento realmente accaduto ma “inverosimile” o incongruente con la storia da narrare ed uno “verosimile” e logico anche se inventato deve scegliere senz’altro quest’ultimo.

Applicato all’arte figurativa questo assunto coincide proprio col principio della “natura corretta dall’idea teorizzato dal Bellori[3], il quale contrapponendo Annibale Carracci a Caravaggio osserva che il primo è il pittore del “verosimile”, mentre il secondo è il pittore del «vero», parafrasando appunto la nota distinzione dello Stagirita da noi appena citata. Infatti, la semplice imitazione è tanto inferiore alla vera arte

«che gli artefici similitudinari e del tutto imitatori de’ corpi, senza elezzione e scelta dell’idea, ne furono ripresi: Demetrio ricevé nota di essere troppo naturale, Dionisio fu biasimato per aver dipinto uomini simili a noi, comunemente chiamato antropografos, cioè pittore di uomini. Pausone e Pirreico furono condannati maggiormente, per aver imitato li peggiori e li più vili, come in questi tempi Michel Angelo da Caravaggio fu troppo naturale, dipinse i simili, e ‘l Bamboccio i peggiori».

Anche in questo caso Bellori si rifà alla lettera all’Aristotele della Poetica, quando il filosofo, dopo aver osservato che i poeti imiteranno o uomini migliori di noi, o peggiori di noi o come noi, scrive:

«Così fanno i pittori. Polignoto, per esempio, raffigurò esseri migliori, Pausone peggiori, Dionisio simili…E’ questa è appunto la differenza onde anche si distinguono tragedia e commedia: chè l’una tende a rappresentare personaggi peggiori, l’altra migliori degli uomini d’oggi».

Pensiero ripreso agli inizi del ‘600 anche da G.B. Agucchi:

«Il Bassano è stato un Pierico nel rappresentare i peggiori…il Caravaggio, eccellente nel colorire si dee comparare a Demetrio, perché ha lasciato indietro l’idea della Bellezza, disposto a seguire del tutto la similitudine».[4]

Tornando al Bellori, che la sua conoscenza della Poetica si estenda anche ai suoi commentatori cinquecenteschi è dimostrato da questo brano (p.8):

«Dal che apparisce non esser giustamente ripreso Aristotele nella tragedia del Castelvetro, volendo questi, che la virtù della pittura non consista altrimenti: nel far l’immagine bella, e perfetta, ma simile al naturale, ò bello, ò deforme; quasi l’eccesso di bellezza tolga la similitudine. La qual ragione del Castelvetro si ristringi agli pittori icastici, & facilitatori de’ ritratti, li quali non serbano idea alcuna, & sono soggetti alla bellezza del volto, & del corpo, non potendo essi aggiungere bellezza, né correggere le difformità naturali, senza torre la similitudine, altrimenti il ritratto sarebbe più bello & meno simile. Di questa imitazione icastica non intende il Filosofo, ma insegna al tragico li costumi de’ migliori, con l’esempio de’ buoni Pittori e facitori d’immagini perfette, li quali usano l’idea & sono queste le parole: essendo la tragedia imitazione de’ migliori, bisogna che noi imitiamo li buoni pittori; perché quelli esprimendo la propria forma con farli simili, più belli li dipingono».

Che questa conoscenza dei testi cinquecenteschi si estenda anche al Danti, anche se non può essere provato con certezza appare molto probabile, se ci rivolgiamo proprio alla differenza tra Annibale Carracci e Caravaggio cui prima accennavo. Per Bellori, infatti, l’artista contemporaneo che incarna alla perfezione la teorizzazione aristotelica circa l’imitazione di migliori e circa la natura corretta dall’idea, e quindi quello che Danti chiama “imitare” è proprio l’artista bolognese, che può proprio definirsi come il “pittore del verosimile”; al contrario a Caravaggio, che imita i “simili o i peggiori” e racconta la realtà così come essa è senza sottoporla a nessun filtro di carattere poetico o storico, così “vera” da divenire “inverosimile” può proprio applicarsi il concetto di “ritrarre” nel senso usato dal Danti.

Venendo al dibattito critico contemporaneo, quelli che erano pregiudizi accademici motivati comunque da profonde ragioni ideologiche e pur sempre in grado, anche se in negativo, di cogliere la carica rivoluzionaria della pittura caravaggesca, sono diventati oggi a volte delle sterili rimasticature circa l’artista che non sa dipingere nulla che non abbia sotto gli occhi e che quindi sappia solo “ritrarre”, per l’appunto e non “imitare”, cosa assolutamente falsa. Ad esempio a proposito delle nature morte, nel mio libro di imminente uscita Caravaggio alla specchio tra salvezza e dannazione (Paparo editori) dimostro come fosse impossibile che Caravaggio avesse in realtà davanti agli occhi un cesto di frutta come quello della della Fiscella della Pinacoteca Ambrosiana di Milano o quello della Cena in Emmaus di Londra [figg. 1 e 2], proprio per la diversa stagionalità dei frutti medesimi che andavano da fine luglio a novembre;

naturalmente il Merisi, che tutte le fonti descrivono fin dai suoi esordi come un abile copista di nature morte, era ben in grado di dipingere alla perfezione una mela, o un fico o un grappolo d’uva senza averlo in quel momento davanti agli occhi e di assemblarli poi in delle ceste di meravigliosa bellezza proprio perché “corretti” dal filtro della memoria e dell’immaginazione e cioè “imitati” e non semplicemente “ritratti”. E lo stesso dicasi per le figure umane.

E’ infatti risaputo che almeno per quel che riguarda il cosiddetto Bacchino malato e secondo l’acuta ipotesi di Marco Bussagli[5] anche per il Ragazzo con il cesto di frutta entrambi della Galleria Borghese [figg. 3 e 4] egli si sia autoritratto allo specchio, salvo modificare poi leggermente i caratteri dei due volti rappresentati, dionisiaco e saturnino nel Bacchino, quasi efebico nell’altra tela; ma molti altri autoritratti o supposti tali sono stati invece dipinti a memoria.

Del resto io stesso nel titolo del mio libro Caravaggio allo specchio appena citato mi riferisco più allo specchio dell’anima che non a quello in cui riflettersi alla mattina. Ed è stato sicuramente eseguito “a memoria” l’autoritratto che compare nel fondo del Martirio di San Matteo in S. Luigi dei Francesi, o i due autoritratti di profilo della Cattura di Cristo nell’Orto ora in collezione Bigetti [fig. 5] e del Martirio di S. Orsola di Palazzo Zevallos a Napoli, perché è del tutto evidente che non ci si può autoritrarre con anche il proprio volto di profilo stando davanti allo specchio.

5. Caravaggio, Presa di Cristo nell’orto, ex Sannini (foto del dipinto in corso di pulitura; per gentile concessione dell’attuale proprietario)

Ed anche nel caso del corpo umano, non solo un genio come Caravaggio ma un qualsiasi pittore di medio livello è in grado di dipingere un ritratto somigliante senza avere il modello davanti agli occhi. Che poi un ritratto assolutamente somigliante possa essere nel contempo un brutto quadro è un altro discorso.

Caravaggio, Madonna dei Pellegrini, Roma, Sant’Agostino.

Dico questo per sottolineare come la grandezza del Merisi non dipenda assolutamente dal “realismo” della sua arte, dal fatto che le sue rappresentazioni sembrino “vere”, come direbbe un profano, ma proprio dall’esatto opposto, anzi, per meglio dire, dall’essere talmente “vere” da risultare “inverosimili”. Prendiamo ad esempio la Madonna dei pellegrini in Sant’Agostino a Roma [fig. 6]. Intanto l’immagine davanti alla quale si inginocchiano i due viandanti dovrebbe ovviamente essere una statua ed invece nel dipinto caravaggesco è una splendida e sensuale giovane donna con in braccia un bellissimo bambino in carne ed ossa; ma anche il vecchio con i piedi sporchi in evidenza, secondo l’acuta analisi di Alessandro Zuccari[6], non è assolutamente una sorta di medicante ma lo stesso nobile committente della tela, Ermes Cavalletti ripreso (di fantasia, perché già morto al momento del dipinto) come pellegrino presso la Santa Casa lauretana. Dunque quattro singoli “ritratti” assolutamente “veri” se presi singolarmente, danno vita ad una composizione altrettanto “inverosimile” se presa nel suo complesso.

Caravaggio Incredulità di San Tommaso, Saint Souci, – già collezione Massimo-

E lo stesso discorso, ad esempio, potrebbe estendersi all’Incredulità di San Tommaso nelle due versioni autografe di Potsdam Sanssouci e di collezione privata, già Roma, raccolta Massimo [fig. 7]. Anche in questo caso miracolo e realtà si fondono in un unicum assolutamente inestricabile. Cristo guida la mano dell’incredulo Tommaso dentro il suo costato e pronuncia la frase riferita nel Vangelo di Giovanni: “Perciocchè tu hai veduto, Toma, tu hai creduto; beati coloro che non hanno veduto, ed hanno creduto”. Frase che indubbiamente poteva essere interpretata sia nel senso della supremazia della fede rispetto alle opere sia in senso contrario, come in effetti hanno fatto i cattolici: è Cristo, simbolo della Chiesa, a guidare la mano incerta di Tommaso davanti agli altri apostoli suoi testimoni e ribadire dunque il ruolo della Chiesa stessa come fondamentale elemento di intermediazione tra i fedeli e Dio.

Ed a proposito della mano del Cristo, vero fulcro visivo della tela, è proprio la sua assoluta pregnanza visiva ha testimoniare in modo inequivocabile che anche la versione dell’Incredulità di San Tommaso già in collezione Massimo e non solo quella di Potsdam sia assolutamente ed integralmente autografa, perché nessun altro artista coevo avrebbe saputo dipingerla con tale forza magnetica. Ma per un confronto dettagliato tra i due dipinti appena citati rimando nuovamente al mio volume di imminente uscita.

Tornando ora per concludere al punto da cui eravamo partiti e cioè alla differenza tra “imitare” e “ritrarre”, che in Aristotele si traduce con la differenza tra “vero” e “verosimile”, notiamo come nel filosofo greco quest’ultimo termine corrisponda al concetto di “conveniente” e significa in sostanza che l’opera d’arte segue delle regole proprie che sono diverse da quelle della realtà di tutti i giorni e ne segnano pertanto l’autonomia. Annibale Carracci persegue quest’ultima correggendo il “vero naturale” fino a farlo divenire poeticamente “verosimile” ma proprio per questo irreale; Caravaggio la raggiunge invece esasperando il naturalismo delle proprie figure fino a farle diventare irreali e quindi artisticamente coerenti e funzionali alla medesima autonomia. In altri termini i due grandi artisti sono come il rovescio e il dritto della stessa medaglia, e la Fiscella caravaggesca pur attraverso il suo apparente ipernaturalismo raggiunge lo stesso effetto “astratto” e straniante del Trionfo di Bacco e Arianna del Carracci o della Peste di Azoth di Poussin.

Dico questo perché bisogna finalmente smetterla col considerare le opere d’arte di qualsiasi genere e stile come delle riproduzioni fotostatiche della realtà di tutti i giorni e quello che era stato capito da Aristotele già nel IV secolo A.C. stenta ancor oggi ad essere pienamente compreso ai giorni nostri. A questo proposito mi sia consentito un ultimo esempio della massima attualità.

A corroborare la recente tesi che Caravaggio possa essere andato in guerra prima di arrivare a Roma viene addotta la sua capacità di dipingere alla perfezione spade e pugnali di ogni ordine e grado, confondendo ancora una volta arte e vita. Io non so se Caravaggio sia mai andato a combattere e personalmente sarei molto propenso ad escluderlo, ma in ogni caso tutto ciò con le armi presenti nei suoi quadri non ha niente a che fare, così come non doveva essere un musicista per dipingere alla perfezione strumenti musicali, molti dei quali per altro insuonabili. Procedendo di paradosso in paradosso, per dipingere le due Cene in Emmaus di Londra e Milano il Merisi avrebbe dovuto essere un garzone d’osteria.

Sergio ROSSI  Roma 17 Aprile 2022

NOTE

[1] Ripubblicato da Paola Barocchi nel primo volume de I trattati d’arte del Cinquecento tra Manierismo e Controriforma, Bari 1960, pp. 209-269, da cui sono tratte le citazioni seguenti. E si veda anche di chi scrive Dalle botteghe alle accademie. Realtà sociale e teorie artistiche a Firenze dal XV al XVI secolo, Milano 1980
[2] Aristotele, Poetica, a cura di Manarra Valgimigli, Bari 1966. E inoltre si vedano G. C. Argan, Il “Realismo” nella poetica del Caravaggio, in Scritti in onore di Lionello Venturi, Roma 1956, pp. 25-41; G. della Volpe, Poetica del Cinquecento, Bari 1954, ora in Opere, vol. V, Roma 1973 e S. Rossi, Dalle botteghe alle accademie. Realtà sociale e teorie artistiche a Firenze dal XV al XVI secolo, Milano 1980; G. della Volpe, Poetica del Cinquecento, Bari 1954, ora in Opere, vol. V, Roma 1973.
[3] Nel suo Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni, Roma 1672, preceduta da L’Idea del pittore, dello scultore e dell’architetto, discorso detto presso l’Accademia Romana di San Luca nel maggio del 1664.
[4] In D. Mahon, Studies in Seicento Art and Theory, London 1947.
[5] M. Bussagli, Un modello per Caravaggio. L’uomo da un braccio solo, in “Art e Dossier”, n. 269, settembre 2010, pp. 54-59.
[6] A. Zuccari, Caravaggio controluce. Ideali e capolavori, Ginevra-Milano 2011, pp. 187-201.