Sei anni fa la scomparsa di Maurizio Marini

Pietro di Loreto

Sei anni fa, nella notte tra il 5 e il 6 agosto del 2011 ci lasciava Maurizio Marini,

stroncato da un male incurabile. Sono passati già sei . Eppure è ancora molto difficile adeguarsi, sembra impossibile non poterci parlare più, non frequentare più la sua casa, non discutere su quel dipinto, su quell’artista, su quella nuova attribuzione. Non è bastato neppure il bel volume che siamo riusciti a dedicargli, grazie alla partecipazione di decine di studiosi e degli amici di sempre, a metterci a posto più che con la sua memoria, con la sua presenza che riaffiora continuamente, specie quando si affronta direttamente o indirettamente il tema che lo appassionò per tutta l’esistenza, cioè lo studio della vita e dell’opera di quel genio che fu Michelangelo Merisi da Caravaggio, che anche grazie alle sue ricerche e approfondimenti ha assunto – dopo decenni di sottovalutazione e di ridimensionamento- quel ruolo di rivoluzionario della storia dell’arte che oggi tutti riconosciamo essere stato. A suo tempo, la rivista “Valori Tattili” lo ricordò mandando in stampa un ottimo numero monografico – subito esaurito- che ne raccoglieva gli ultimi scritti. Era una sorta di anticipazione di un volume su cui Marini stava lavorando come una sorta di aggiornamento, doveroso ancorché polemico, della monumentale monografia Caravaggio Pictor Praestantissimus, pubblicata per i tipi dell’editore Newton Compton nel 2005, ma evidentemente già da aggiornare, specie in ragione di quanto – soprattutto di parziale ed inesatto – era venuto alla luce nelle esposizioni e pubblicazioni uscite come funghi in occasione della ricorrenza del quattrocentenario della scomparsa di Michelangelo Merisi.

Certamente, era stato un vero cruccio per Marini assistere all’emergere di iniziative da lui ritenute per lo più inutili, discutibili ed improvvisate, in quello che definiva “infausto IV Centenario”, allorquando aveva denunciato quella che già allora gli appariva come una ‘moda’ del tutto deleteria, laddove perfino certi direttori di museo sembravano prestarsi al gioco del consumismo. Chissà cosa penserebbe oggi, vedendo l’emergere costante di “Caravaggi” sempre più discutibili, e a come impazza quello che chiamava “il virus dell’attribuzionismo”.

Molte critiche si possono rivolgere alle tesi di Marini, ma non che si sia prestato al richiamo delle mode. Riguardo a questo, anzi, va detto che molti dei suoi strali polemici non hanno risparmiato bersagli anche tra i più importanti, specie in relazione ad iniziative curate o partecipate troppo spesso da studiosi privi di competenze specifiche. In effetti disprezzava i dilettanti che entravano nell’argomento “Caravaggio” perché “faceva notizia”, per avere anche loro i quindici minuti di celebrità, e traspariva evidente nei suoi scritti e nelle sue parole la delusione per l’occasione mancata rappresentata dalla grande mostra del ‘Quattrocentenario’ tenutasi alle Scuderie del Quirinale a Roma.

Ci sembra davvero di riviverle ancora oggi le molte accese discussioni nel suo studio all’insegna della polemica, con i suoi lapidari giudizi riguardo quello che doveva essere il fiore all’occhiello del IV Centenario, la Mostra-Evento del 2010, stroncata come  “sostanziale regresso per gli studi e deviante sfoggio di certezze raccolte nelle schede, sommarie e scientificamente inaffidabili, in quanto in gran parte affidate a ‘caravaggisti’ occasionali … “ E non era stato evidentemente per un caso che proprio lui, certamente tra i più conosciuti e competenti studiosi del Merisi, fosse stato addirittura tenuto fuori da quell’evento, in forza di chissà quale ‘veto’ arrivato da qualcuno che evidentemente ne temeva, per averlo sperimentato, il rigore scientifico e la coerenza metodologica.

E proprio qui tocchiamo un punto che a Maurizio Marini stava molto a cuore. Come capire l’autografia caravaggesca di certi capolavori? E più in generale : come individuare in modo quanto più esaustivo possibile i caratteri di un dipinto al punto che possano renderne sicura l’autenticità? Bastano a questo scopo documentazioni che risalgono a secoli e secoli addietro? Insomma: quali dipinti e perché dovrebbero essere ritenuti autentici? E poi ancora: quali tra loro possono essere considerati repliche? Quali invece copie?

L’attribuzionistica – sosteneva – non è una scienza esatta ma può avvicinarglisi qualora sia suffragata da concause sinergiche come i dati tecnici –  vale a dire-  l’occhio del conoscitore, poi le componenti tecnico-materiche tipicamente riscontrabili in un artista del passato, quindi la struttura preparatoria di un dipinto, lo studio delle pennellate del pittore che determinano il ‘cretto’ nella superficie”, vero e proprio “patrimonio genetico del quadro, unico e irripetibile per ogni autore”, che ci dà “le impronte digitali” dell’opera stessa. Insieme a tutto ciò, ovviamente, la documentazione, la bibliografia antica, in una parola “la ricerca archivistica”. Citava ultimamente a questo proposito come esemplari e degni di nota i lavori di monsignor Sandro Corradini, Giacomo Berra, Stefania Macioce, Mario Marubbi, Loredana Lorizzo, e riteneva, fra tutte le scoperte fatte recentemente sull’argomento, come la “più significativa” quella di Vittorio Pirami, autore del ritrovamento dell’atto di battesimo di Michelangelo Merisi, che metteva fine ad una querelle durata anni.

Egli insisteva di continuo sul fatto che la vera conoscenza nasce dall’esperienza dello studioso che consente di riconoscere la forza di un autografo dall’eventuale copia, anche se questa fosse arrivata fino a noi in sostituzione dell’originale, e la sua capacità di conoscere e studiare qualsiasi aspetto dell’opera caravaggesca lo aveva portato ad analizzare anche le più recenti tesi circa l’influenza delle scoperte scientifiche sul lavoro del genio lombardo. Si tratta, com’è noto, di un tema complesso, peraltro già esplorato a cominciare da Roberto Longhi, cui non era sfuggita la concomitanza tra le scoperte del geniale scienziato napoletano Giovan Battista Della Porta in materia di ottica e la nuova pittura del Merisi. La ricerca storica circa quella disciplina ha evidenziato che se non fu lo scienziato di Vico Equense ad inventare la famosa ‘camera obscura’ fu certo lui a tirarla fuori, per così dire, dal chiuso del laboratorio, inaugurando un percorso che, passando attraverso l’uso che ne avrebbero fatto nel corso del Settecento i vedutisti veneziani, sarebbe arrivato – a metà Ottocento – fino alle scoperte di Louis Daguerre.

Della Porta aveva in ogni caso sperimentato con successo come fosse possibile raddrizzare, tramite una lente biconvessa, le immagini luminose che passando in un foro di una ‘camera obscura’ si riflettevano capovolte, ed inoltre come proiettando l’immagine su un foglio bianco se ne sarebbero potuti segnare i contorni; ne conseguiva la possibilità di dar corpo ai colori che vi si riflettevano ed arrivare così ad un esito pittorico. Addirittura, in un passo del suo volume De Rifractione, pubblicato nel 1593, rimarcando come la struttura della ‘camera obscura’ fosse analoga a quella dell’occhio stesso e al funzionamento della vista, aveva finito col sottolineare gli effetti della luce negli ambienti in ombra: proprio quello su cui analogamente avrebbe concentrato la sua attenzione Caravaggio, secondo quanto riportano gli storiografi del tempo.

E’ noto che da tempo alcuni studiosi, come Roberta Lapucci e Clovis Whitfield, hanno avanzato tesi non certo cervellotiche, ancorché discutibili per gran parte degli esperti, sul metodo di Caravaggio, su come egli lavorasse ‘praticamente’, in funzione dell’uso della camera oscura, dello specchio parabolico, di sostanze fluorescenti impastate nella mestica. “Teorie importanti – notava Marinial cui riscontro però non sussistono prove tecniche pittoriche o storiche”; teorie a suo parere nate sulla base di forzature dei testi dei biografi caravaggeschi. Come nel caso di un noto passo del biografo Giulio Mancini che ha lasciato scritto come fosse tipico del Caravaggio “lumeggiar con lume unito che venghi dall’alto senza riflessi, come sarebbe in una stanza da una finestra con le pareti colorite di negro”; frase che doveva essere intesa semplicemente a mo’ di esemplificazione – secondo Marini -, da leggere cioè ‘come sarebbe se ci si trovasse in una stanza con le pareti nere’, che non voleva affatto dire che Caravaggio avesse intonacato di bitume le pareti del suo studio, essendo “del tutto improbabile l’artificio delle pareti nere”; così come era “impossibile interpretare questi due oggetti [vale a dire ‘uno specchio grande’ e uno scudo a specchio, citati nell’inventario dei beni del pittore] al di fuori dell’uso quotidiano esteso a quello dell’illuminazione scenografica dei modelli”.
Abbiamo citato un solo caso delle numerose messe a punto circa la corretta esegesi delle opere di Caravaggio, che del resto attraversano tutti gli ultimi scritti e le ultime iniziative con cui, come amava dire, “rimetteva le cose al loro posto”, e con cui è difficile non concordare; così come con le sue precisazioni, o con certi suoi interventi spesso sarcastici allorquando controbatteva tesi palesemente inattendibili: come nel caso dell’inverosimile ritrovamento delle ossa di Caravaggio, immediatamente appellate come “buone neppure per farci il brodo” .

D’altra parte, nell’individuazione di ciò in cui consiste l’essenza dell’arte di Caravaggio Maurizio Marini non è stato secondo a nessuno: egli ne ha scandagliato la vita, gli interessi, le scelte, ricostruendo il contesto sociale, politico, culturale in cui il genio lombardo mosse i suoi passi; ha riportato alla luce alcuni capolavori dimenticati o dispersi, ha fatto chiarezza sulle opzioni iconografiche e iconologiche, fornendo strumenti di analisi comparativa fondamentali.

Per questo la sua scomparsa ha lasciato un vuoto incolmabile.

Pietro di Loreto                Roma  5 agosto 2017