I Segreti di Raymond Carver. “Il mestiere di scrivere”

di Marco FIORAMANTI

Raymond Carver, (1938-1988) fu poeta, scrittore di racconti, saggista, sceneggiatore ed erede della grande tradizione letteraria della narrativa breve che ha radici soprattutto in Cechov e Hemingway. “Il mestiere di scrivere” è un prezioso breviario di un artigiano della parola.
Raymond Carver, pictured in Syracuse, New York, in 1984. Image by Bob Adelman/Corbis

Uomo schivo e introverso, Raymond Carver non si trovava mai a suo agio in pubblico, nonostante fosse riuscito a guadagnarsi da vivere con l’insegnamento. E nonostante dicesse in giro che non amava insegnare, ebbe grande influenza su molti dei suoi studenti, ad alcuni dei quali ha cambiato decisamente la vita. In un bel libro, Il mestiere di scrivere (Einaudi 1997), pubblicato postumo, i curatori William L. Stull e Riccardo Duranti fecerro parlare Carver stesso in prima persona, il quale ricostruì attraverso esercizi, lezioni e saggi di scrittura creativa, quel suo singolare modo di insegnare che teneva intimamente uniti sia la ricerca letteraria che la vita stessa dello scrittore.

QUESTIONE DI UN ATTIMO
C’è sicuramente un po’ de L’Attimo fuggente nell’approccio di Raymond Carver ai suoi studenti e nel suo modo di stimolarli alla scrittura. In quel “cogli l’attimo” il professor Keating (Robin Williams), proprio come Carver, stimolava i ragazzi a non mettere da parte le intuizioni del momento, rimandandole a un tempo più opportuno, semplicemente perché quel tempo è “ora”. Riusciva ad innestare in quegli aspiranti attori la fiducia che il fare quotidiano sia sempre una fonte esperienziale, e che comunque avrebbe favorito la nascita di nuovi stimoli creativi.
Secondo me, la trama, una linea narrativa, è molto importante. Sia che si scriva poesia oppure prosa, cerco sempre di raccontare una storia. (i corsivi sono dell’autore, ndr)

QUESTIONE DI STILE
Carver basava le proprie intuizioni – verso il proprio lavoro come verso quello di chi voleva apprestarsi a farne un’arte – sulla continua idea di voler ri-creare il mondo secondo le proprie modalità. Bisogna stabilire, innanzitutto, uno stile proprio di scrittura, inconfondibile, che contraddistingua lo scrittore, quasi fosse un’impronta digitale o un sigillo in rosso ceralacca. E distingueva molto bene, Carver, lo stile dal talento, di cui, stranamente, ne riscontrava molto attorno a sé. Affermava che lo stile riguarda il modo di guardare il mondo, che si trasmette poi nell’espressione scritta di quella capacità particolare di osservare le cose, e che su quello stile personale uno scrittore può radicare la sua forza e durevolezza nel tempo.
Ogni giorno, ogni notte della nostra vita, lasciamo in giro pezzettini i noi stessi, scaglie di una cosa o dell’altra.

QUESTIONE DI STUPORE
Carver era sicuramente uno scrittore “irregolare” (e di questo gliene siamo tutti grati). Lui trasmetteva ai suoi allievi tutti i segreti del suo sapere, perfino le fonti di quel sapere. Ad esempio, mentre metteva in evidenza la capacità e l’importanza di restare stupiti davanti a un qualunque dettaglio della quotidianità – e fa l’esempio di un tramonto o di una scarpa vecchia – citava Ezra Pound. Il suo grande maestro consigliava infatti ai suoi studenti di essere dei veri e propri sperimentatori, di dover rendere tutto nuovo, nella continua scoperta delle cose, portando cose nuove e nuove informazioni dal loro mondo. “Una fondamentale acutezza d’espressione è il solo e unico principio morale della scrittura”. (Ezra Pound). Insisteva molto Carver sull’uso strabiliante, sbalorditivo degli oggetti di comune approccio e sulla capacità di dotarli di un potere immenso, e cita una sedia, le tendine di una finestra, una forchetta, un sasso, un orecchino. Parlare di una sedia in modo naturale riuscendo a trasmettere al lettore un brivido lungo la schiena, questo gli interessava più di tutto.
Un autore non è i propri personaggi, piuttosto sono i personaggi a essere l’autore.

QUESTIONE DI ATTESA
In un interessante libro, Vidas escritas, Javier Mariàs ha raccontatoe alcuni aneddoti sui grandi scrittori. Scrivendo di Rilke, lo presenta nella continua e introversa attesa della Musa ispiratrice. È vero, molti scrittori sostengono che la maggior parte delle volte non si ha alcuna idea di dove si andrà a finire. Scrive a tale proposito Carver:

Una volta mi sono messo a scrivere quello che poi si è rivelato un bel racconto, anche se all’inizio mi si era presentata solo la prima frase. Erano già diversi giorni che andavo in giro con queste parole in testa: “Stavo passando l’aspirapolvere quando squillò il telefono”. Sentivo che dietro quella frase c’era una storia che voleva essere raccontata. Me lo sentivo nelle ossa che insieme a quell’inizio ci doveva andare una storia, bastava che trovassi il tempo per scriverla. Il tempo lo trovai, un giorno intero – dodici, quindici ore, addirittura – bastava che volessi metterlo a frutto. E così fu, una mattina mi sono seduto e ho scritto la prima frase e subito le altre frasi hanno cominciato ad attaccarsi a quella. Ho composto la storia come avrei composto una poesia; una riga dietro l’altra e poi un’altra e poi un’altra ancora. Dopo un po’ ho cominciato a intravedere la storia e sapevo che quella era la mia storia, proprio quella che avevo voluto scrivere.

QUESTIONE DI TRUCCO
Niente trucchi, mi raccomando! argomentava spesso Carver nelle sue lezioni. Qualunque tipo d’innesto sarebbe andato meglio di ogni volgare trucco letterario, se ne sarebbe impoverito l’intero testo. Raccontava una volta che era alla stesura di un racconto quando squillò il telefono. Era un certo Nelson, sicuramente un nero dalla voce, che cercava di una festa. Aveva sbagliato numero, e riattaccò. Rimessosi al lavoro, Carver si accorse, con suo massimo stupore di star introducendo nell’intreccio narrativo un personaggio nero, dall’aria sinistra di nome Nelson, al punto di modificare in pieno l’assetto del racconto. Lui stesso afferma poi che, a racconto finito la fiducia trasmessa dall’imprevedibile presenza di quel Nelson abbia conferito, anche dal punto di vista estetico, forza e verità al testo.
Con un po’ di fortuna, imparerete anche voi a tenere la rotta orientandovi con le stelle.

QUESTIONE DI MAESTRI
John Gardner teneva un corso di scrittura per principianti al Chico State College quando Carver decise di iscriversi. Era l’autunno del 1958. Sei o sette studenti, seduti sul prato ascoltavano quali autori leggere, per imparare a scrivere mentre il docente distribuiva delle riviste che pensava valessero qualcosa. Racconta Carver:

Prese uno dei miei primi tentativi di racconto e lo esaminò insieme a me. Ricordo che era molto paziente, voleva che capissi ciò che cercava di mostrarmi, dicendomi e ripetendomi quanto fosse importante avere le parole giuste per dire quello che volevo. Niente di vago e di confuso, niente prosa dai vetri appannati. E continuava a battere sull’importanza dell’uso – non so in che altro modo definirlo – del linguaggio comune, il linguaggio della conversazione normale, il linguaggio che parliamo tra noi.

In un incontro successivo Gardner stesso disse che aveva cambiato idea su molte cose. Ma Carver ribatté che quei consigli di allora erano proprio ciò di cui lui aveva bisogno in quel momento. Il fatto che qualcuno si prendesse cura di lui, che esaminasse insieme a lui, riga per riga, brano dopo brano, l’intero manoscritto.
Gli fece capire, ricorda Carver al suo maestro, l’importanza della posizione delle virgole e dei punti. Elenchiamo qui di seguito i punti fermi e gli insegnamenti di Gardner a Carver:
Messa a fuoco 
Fondamentale per Gardner era l’importanza della revisione, l’attenzione al processo di scrittura, attraverso una messa a fuoco della visione di quello che era stato appena scritto. Carver stesso era per la revisione senza fine, e controllava e ricontrollava più volte gli elaborati successivi dello stesso testo dei suoi studenti.
Informazioni 
Altra regola che Carter fece sua è l’attenzione all’accuratezza e alla precisione delle informazioni per l’esatta articolazione dell’impianto narrativo. Il fatto di sottrarre al lettore importanti notizie, magari per aumentare la sorpresa verso il finale della storia, insegnava Gardner, erano da considerarsi un inganno.
Autostima
Per i soliti sette-otto allievi, Gardner un giorno fece arrivare dei “pesanti raccoglitori neri” che avrebbero dovuti contenere i racconti che Carver e compagni via via scrivevano. Naturalmente il docente utilizzava un raccoglitore analogo, e gli allievi diedero la cosa per scontata. Il fatto di andare tutti in giro con quegli stessi oggetti conferiva all’intero gruppo una grossa spinta all’autostima, rendendoli automaticamente degli esseri speciali, esclusivi, consapevoli.

Onestà
Gardner era convinto, scrive Carver, che se le parole della narrazione rimangono confuse e sfuocate perché l’autore è stato insensibile, distratto o troppo sentimentale, il racconto che ne risulta soffre di un grosso handicap. Ma c’è anche un pericolo peggiore, da evitare a tutti i costi: se le parole e i sentimenti sono disonesti, se l’autore bara e scrive di cose che non gli stanno a cuore o di cui non è convinto, allora non può aspettarsi che qualcun altro mostri interesse per il racconto.

– Pericoli
Per esperienza diretta Carver, come Gardner, cercava di non incoraggiare troppo gli studenti, circa la loro possibile riuscita di scrittori. Nonostante tutto lo stesso Carter, dicono i suoi ex allievi, aveva parole di incoraggiamento anche quando non lo meritavano. E si pregia di un’autocitazione all’interno del libro stesso quale avvio al mestiere di scrittore, quando scrive: “quel che rende questo libro particolarmente prezioso è il tipo di incoraggiamento che infonde tra le righe”.

POESIA-RACCONTO
Carver poi, nel capitolo Occasioni, entra nel vivo dei suoi racconti che prende ad esempio degli insegnamenti sopra riportati, parla del suo primo istintivo approccio ad una rivista letteraria, ad un libro di poesie, al fatto stesso che esista un luogo – la redazione di una rivista letteraria, appunto – dove si possano inviare i propri tentativi, e con la speranza che vengano letti, a magari pubblicati.
Parlando della poesia, e in particolare di poesia-racconto, importante era per Carver l’esaltazione del suo movimento interno, piuttosto della regolare trasmissione strutturale e sequenziale degli eventi. Così come ripeteva spesso che una poesia non era solo un fatto di espressione personale, ma “un atto di comunicazione tra scrittore e lettore”. E metteva l’accento sull’emozione della prima frase, sul lasciar trasparire un senso di bellezza e di mistero, sulla necessità di chiarezza e capacità di mantenere alta l’attenzione del lettore.
In un racconto ogni cosa è importante, ogni parola, ogni segno di punteggiatura.

COME “NON” SCRIVERE
Carver era convinto che un bravo docente riuscisse ad accelerare di molto i tempi di chi mostrava la stoffa di scrittore. E la sua funzione agiva dunque “in negativo”, cioè insegnare ai ragazzi a come “non” scrivere. Nel suo ABC della lettura Ezra Pound afferma che “una fondamentale accuratezza (dice Carver = uso onesto del linguaggio) d’espressione è il solo e unico principio morale della scrittura”. Interessante Carver quando scrive: Pound è stato un insegnante di scrittura per Eliot, Williams, Hemingway (che contemporaneamente prendeva lezioni di scrittura anche da Gertrude Stein), Yeats e dozzine di altri poeti e prosatori meno noti. A sua volta Yeats – per ammissione dello stesso Pound – diventò in seguito maestro dello stesso Pound.

CECHOV
Nel suo ultimo racconto, L’incarico, Carver sceglie come argomento la morte di Anton Cechov, il suo autore preferito. Qui mischia biografia e narrativa con un pathos e un andamento introspettivo profondo, che supera il racconto breve e si avvicina al testo del romanzo.
L’apprestarsi della morte lo avvicina alla parola “Tenerezza” (Tenderness) e al raro uso che se ne fa nella scrittura. Prende in esame il racconto di Cechov Il reparto n.6, in cui il personaggio di nome Mojsèjka, ricoverato tra i malati di mente, tratta quell sentimento, senza nemmeno nominarlo, e riesce a pervadere ogni dettaglio della scena..
Scrive Cechov:

“A Mojsèjka piace rendersi utile. Porta l’acqua ai suoi compagni, li copre quando s’addormentano; promette a ciascuno di portargli un copeco o di fargli un berretto nuovo; ed è lui che imbocca con il cucchiaio il suo vicino di sinistra, che è paralizzato”.

Quei gesti così naturali e umani ci trasmettono la pietas di coloro che, come Carver, hanno agito, vissuto e insegnato per una spinta interiore senza aspettarsi nulla in cambio.

“… e all’improviso tutto gli fu chiaro“.
(Anton Cechov)

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RAYMOND CARVER
Figlio di un operaio di segheria e di una cameriera, nacque a Clatskanie il 25 maggio 1938, un villaggio di taglialegna di 700 abitanti sulle rive del fiume Columbia. Sognava di diventare uno scrittore. Sposato a 19 anni, ebbe subito due figli e per 15 anni si divise tra operaio di segheria, addetto alle pulizie di un ospedale e poi docente di scrittura creativa. Nel ’58, inseguendo il sogno di un’educazione universitaria, si trasferì con la famiglia nella California settentrionale. Prima al Chico State College, sotto la guida di John Gardner, in seguito all’Humbolt State College, dove studiò con Richard Cortez Day e si laureò nel 1963. Nel corso di quella che lui chiamò la sua “prima vita”, Carter dovette affrontare molte delle difficoltà da lui descritte nei primi testi: delusioni, “disagio” domestico che lo portò al divorzio, l’alcolismo acuto che lo portò sull’orlo della morte. Il 2 giugno 1977 cominciò la sua “seconda vita” con la sua compagna di vita e di lavoro Tess Gallagher, poetessa. Smise di bere. Si guadagnò la fama di miglior scrittore di racconti della sua generazione. Lontano dall’America dei grattacieli, è stato il primo a raccontare il Carver Country, un paese dove le bollette non vengono mai pagate, dove le coppie litigano, cercando di tirare a campare, i mariti bevono e le donne si disperano, ma popolato in fondo di “brava gente, gente che ce la mette tutta”. Nel 1983 l’American Academy riconobbe i risultati da lui raggiunti assegnandogli uno dei premi Strauss Living, una borsa quinquennale che gli permise di lasciare l’insegnamento presso l’Università di Syracuse di dedicarsi completamente alla scrittura. Morì a 50 anni, colpito da un cancro ai polmoni, a Port Angeles, Washington, davanti allo stretto spumeggiante di Juan de Fuca. In una delle sue ultime poesie, Pacchia, scrisse: Ho vissuto dieci anni in più/ di quanto tutti si aspettassero.