Riccardo Lattuada in ricordo di Ferdinando Bologna e Mario Alberto Pavone, due voci del Meridione che hanno onorato tutta la storia dell’arte.

di Riccardo LATTUADA

Abbiamo chiesto a Riccardo Lattuada di ricordare la figura e l’opera di due grandi studiosi, due esponenti di quella cultura meridionale che tanto ha dato in termini di studi, ricerche, pubblicazioni, tantissimo con l’insegnamento, alla storia dell’arte italiana ed internazionale. Ci colpisce la scommarsa di entrambi, ma personalmente non posso non ricordare in particolare quella improvvisa e certamente inaspettata ed immatura di Mario Alberto Pavone, perchè eravamo amici, perchè era sempre un piacere sentirci e parlarci, perchè era entrato da protagonista in un progetto editoriale che poi effettivamente ha visto la luce –Gli Scritti in onore di Claudio Strinati– cui aveva aderito con vero entusiasmo quando glielo proposi, onorando tutti con la sua preziosa partecipazione. About Art ospiterà altri contributi in loro memoria, mentre rivolge alle famiglie ed agli amici le più sentite condoglianze. (P d L)

Per Ferdinando BOLOGNA

È per me particolarmente triste e duro registrare la scomparsa di Ferdinando Bologna; la sua grandezza ha fatto sì che io finissi per includerlo – sbagliando – in quella categoria di persone che riteniamo eterne: per il ruolo che hanno rivestito e per l’importanza determinante che hanno avuto per tanti allievi, fino al punto che poi è difficile credere che non siano più tra noi.

In realtà la loro presenza prosegue nella forma di un inesausto colloquio con la loro figura e con le loro opere. Questo è anche il tempo del rimpianto e della riflessione, certo più ponderata di quanto non fosse possibile fare in precedenza, sulla figura e sul ruolo che ha avuto Bologna relativamente alla  progressione degli studi e delle ricerche di storia dell’arte in Italia e in Europa. Credo di poter dire che sia stato il primo studioso ad aver proiettato in modo sistematico la storia artistica napoletana e meridionale sullo scenario internazionale; uno scenario che tra il 1950 e il 1980 era ben diverso rispetto ad ora: la comunità degli studi sul Meridione era più limitata e vantava soprattutto una lunga tradizione di studi eruditi locali, che però Bologna saltò a pie’ pari per allargare il fuoco della sua ricerca in tutte le direzioni, e mettendo sistematicamente in connessione l’arte di Napoli, dal Medioevo a tutto il Settecento, con il quadro italiano e internazionale.

Come si sa Ferdinando Bologna si laureò con Pietro Toesca, e furono proprio l’apertura, la profondità, lo spessore culturale di quel grande studioso che lo segnarono in modo determinate, a mio avviso forse anche più del successivo rapporto con Roberto Longhi (con il quale collaborò essendo tra i primi redattori, insieme a Raffaello Causa, di ‘Paragone’).

Le ricerche di Bologna, le sue innumerevoli pubblicazioni risultano ancor oggi di una profondità e di un’ampiezza tale che passeremmo l’intera giornata a parlarne. Tuttavia un paio di cose vanno ricordate: ad esempio, il fatto che con poche ma significative parole Rudolf Wittkower giudicava la sua monografia su Solimena – che risale al lontano 1958 – la “Prima monografia moderna con catalogo delle opere e bibliografia”. Di quell’indimenticabile volume l’ampiezza veramente europea del raggio d’indagine – per la prima volta adeguata alla reale portata storica e artistica di Solimena – e la finezza di metodo nell’inquadramento e nella filologia sono rimaste insuperate, anche in recentissimi tentativi laddove si è cercato, a mio avviso senza riuscirvi, di fare i conti con ciò che Bologna – all’epoca poco più che trentenne! – ha costruito su un ventaglio di conoscenze storico-culturali, letterarie e storiche che pochi studiosi e storici dell’arte della sua generazione e di quelle successive hanno saputo esprimere.

Infatti: non va dimenticato che Bologna era nato nel 1925 e che prima ancora che su Solimena, ancora giovanissimo, già nel 1951 aveva lavorato con Raffaello Causa su temi importanti dell’arte della Campania come quello della scultura lignea – tema allora letteralmente terra di nessuno – producendo saggi di una modernità e di un’apertura mentale tanto più impressionante quanto all’epoca del tutto priva di termini di raffronto.

Questi caratteri li ritroviamo intatti anche più avanti nel tempo: penso in particolare al libro sui Pittori alla Corte angioina di Napoli, pubblicato nel 1969 da Ugo Bozzi. In questo poderoso volume, partendo da un riesame dell’influsso dell’arte fredericiana nel Meridione e proseguendo con una calibrata analisi della permanenza e della influenza di Giotto a Napoli, Bologna reinserì a pieno titolo la vicenda partenopea dell’artista e dei suoi allievi nel campo degli studi giotteschi del XX secolo; ancora oggi niente di quanto scritto in questo libro si può ignorare, neppure quelle parti che sono state superate o integrate da successive ricerche. Non si può che ripartire da lì per tante altre opere, a cominciare dalla storia della miniatura, in cui tanto ha poi fatto Alessandra Perriccioli Saggese; fino al Pietro Cavallini. Napoli prima di Giotto di Pier Luigi Leone de Castris (arte’m, 2013), e a molto altro; studi che per vari aspetti sono la logica prosecuzione di quanto Bologna ha messo in evidenza in quel libro eccezionale.

Poco dopo Pittori alla Corte angioina, in una fase di creatività impressionante, Bologna pubblicava per Laterza Dalle arti minori all’industrial design (1972). Un libro aspro, polemico e anche contestato in cui, partendo dalla riaffermazione del valore del fare artigianale sintetizzato dalla voce ‘mestiere’ di Diderot per l’Enciclopédie, lo studioso ripercorreva quella che per lui è stata la storia della progressiva svalutazione delle ‘arti minori’ a vantaggio della canonizzazione del primato delle arti ‘maggiori’. In molti passaggi di questo volume, che si pone a valle di sterminate letture, gioca una componente ideologica marxista maneggiata con radicalismo; il ragionamento sulle arti minori corre non solo sul filo di questa corda, ma si tinge anche di una faziosità che va inquadrata nel dibattito culturale degli anni Settanta del secolo scorso. L’idea del lavoro intellettuale come partecipazione attiva ad un conflitto di idee, come ingresso belligerante in un campo di battaglia ideologico; l’avversione nei confronti del lavoro storico-critico praticato lontano dall’impegno politico; la sistematica ricerca, nei passi degli altri autori, delle tesi su cui far leva per le proprie argomentazioni, alle volte fino ad una torsione delle letture critiche. Con passaggi anche ingenerosi verso il fronte italiano della questione, rappresentato da studiosi del calibro di Carlo Ludovico Ragghianti, notoriamente inviso a Roberto Longhi e perciò irriso per il suo presunto interesse (o da altri millantato disinteresse…) verso le “potterie”.

Eppure, oltre a sospingerci verso letture che non avremmo mai affrontato nel chiuso dei nostri specialismi in via di formazione, quel libro acre e per così dire militante portò alcuni fra noi, allora giovanissimi – tra essi di sicuro chi ti parla – a riflettere sull’importanza di quella che Claude Lévi-Strauss chiamava “la bonne distance” nell’analisi dei rapporti tra l’evolversi del corpo sociale e la creatività umana, in quell’ambito che definiamo genericamente estetico, artistico, o in qualunque altro modo lo si voglia denominare.

Su questa linea di un coltissimo e conflittuale storicismo – e anche qui con continui lampi di straordinaria erudizione – si pongono il saggio su I metodi di studio dell’arte italiana nel primo volume della Storia dell’arte italiana Einaudi (1979) e La coscienza storica dell’arte d’Italia, volume d’apertura della Storia dell’arte in Italia UTET (1982). Secondo me, in un certo senso rientra in tale linea anche il volume su L’incredulità del Caravaggio e l’esperienza delle cose naturali (Bollati Boringhieri, 1992), che a prescindere dalla inesausta battaglia filologica su attribuzioni, datazioni di opere e influssi formali, e ben oltre i cavalli di Frisia posti intorno al concetto di realismo caravaggesco, alle palle incatenate lanciate verso qualunque forma di lettura iconologica delle opere del Lombardo, è un po’ il punto di arrivo di una traiettoria straordinaria. Da questa costola degli studi di Bologna discendono – nei metodi, nelle forme e nelle individualità proprie agli interessi dei suoi allievi – libri in cui storia delle idee e loro peso sulle teorie estetiche si intrecciano con letture critiche di artisti, opere, contesti. Mi riferisco soprattutto, ma non solo, ai libri di Rosanna Cioffi La ragione dell’arte. Teoria e critica in Anton Raphael Mengs e Johann Joachim Winckelmann (Liguori, 1981) e La Cappella Sansevero. Arte barocca e ideologia massonica (Editrice 10/17, 1987).

Ancora molto sarebbe stato prodotto, fin quasi alla fine, ma parlarne in dettaglio sarebbe troppo lungo qui, anche se certamente è ben più che necessario, e non mancherà l’occasione per farlo.

Come suo allievo posso affermare che Ferdinando Bologna faceva parte di quella categoria di studiosi non particolarmente preoccupati dalla maieutica, ma che lasciavano il segno quando lavoravano. Voglio dire che se seguivi le sue lezioni tostissime e piene di riferimenti – che sul momento coglievamo in ben pochi – quando lo sentivi ragionare ad alta voce di fronte a un’opera, se lo vedevi lavorare, venivi posto di fronte ad esperienze così intense e determinanti che certamente imparavi: leggendolo, ascoltandolo, vedendolo esprimersi, provando a seguitare i suoi percorsi. Certamente non è stato, come dire? un maestro amorevole; era un uomo difficile, suscettibile, non amava essere contraddetto, aveva un carattere duro come una pietra, insomma era un vero abruzzese. Ma di certo tutto ciò non era il portato di una mente chiusa o ristretta, ma il frutto di un sedimento sterminato di letture, conoscenze, preparazione, di un intelletto che, avendo ormai io una discreta esperienza di vita e di insegnamento, posso dire di non aver ritrovato in altre persone di quel livello. Un carattere come il suo non facilitava i rapporti interpersonali, e tuttavia oggi nel ricordarlo questo aspetto conta ben poco. Ad esempio, ben noti poi sono i suoi contrasti con Giulio Carlo Argan e con Maurizio Calvesi, al quale, com’è noto, si contrappose in particolare circa la lettura della figura e dell’opera di Caravaggio; su questo tema, peraltro, la mia idea è che dal punto di vista metodologico i loro due approcci alla fine siano complementari; con ogni probabilità questi contrasti nacquero anche in ragione di quello specifico tipo di rivalità che spesso scaturisce tra maestri di questo rilievo, tra personalità tanto forti. Ciò che conta invece, per l’oggi e per il domani, è il fatto che Ferdinando Bologna ha lasciato un segno indelebile nella storiografia artistica del XX secolo.

In ogni caso, oggi non di rado contrasti e polemiche nascono non tra maestri di quel valore ma ad opera di chi si sente autorizzato a parlare d’arte senza averne titolo. Non per riaprire la polemica, ma ripensando al mancato prestito delle Sette Opere di misericordia del Pio Monte alla mostra Napoli Caravaggio da poco apertasi a Capodimonte, ci cadono le braccia se pensiamo in quanti hanno sentito il bisogno di parlare senza sapere ciò che dicevano, e magari hanno firmato petizioni come quella contro lo spostamento di quel capolavoro. È veramente singolare che, a parte gli specialisti in petizioni, la maggior parte dei firmatari contrari al prestito non solo di storia dell’arte non sa nulla, e tento meno cosa significhi spostare un dipinto da una chiesa o da un museo; cosa occorra, chi deve intervenire, quali accorgimenti eventualmente prendere, quali prassi seguire. Non ne ha alcuna contezza eppure firma o parla, e spesso per partito preso, oppure perché pensa che parlare di arte sia un esercizio consentito a chiunque. Come se quando si parla di opere d’arte, di musei o di patrimonio culturale non fosse necessario disporre di quella base scientifica e professionale che è l’unico sostegno delle vere competenze.

In questo circo mediatico Ferdinando Bologna non è mai voluto entrare, forse perché percepiva il rischio delle strumentalizzazioni che esso porta con sé. È questa una delle ragioni per cui non ha avuto la stessa notorietà pubblica di personaggi che ebbero una loro forza mediatica senza peraltro piegarsi alle ragioni della propaganda e del glamour. Penso, ad esempio, al Longhi documentarista, a Zeri in televisione, a Briganti critico d’arte di ‘Repubblica’, per parlare dei casi di eccellenza. Ma ciò non toglie che, a mio avviso, Bologna sia stato uno studioso determinante allo stesso modo e ugualmente profondo. Egli era il prodotto della civiltà del libro, la ragione prima su cui per lui si fonda lo studio e la ricerca; la sua scomparsa, come quelle di Gillo Dorfles e ancor più di recente di Andrea Emiliani, ci fa capire come sia necessario raccoglierne al più presto il testimone per non affondare ancor più in una crisi di valori che non può non preoccuparci tutti.

Un Pensiero per Mario Alberto

Mentre rileggevo questa intervista è giunta la notizia della scomparsa, improvvisa e particolarmente dolorosa, di Mario Alberto Pavone. Ordinario di storia dell’arte moderna nell’Università degli Studi di Salerno, Mario Alberto era uno dei più apprezzati studiosi di storia dell’arte del Mezzogiorno. Ricercatore a Napoli dal 1981 presso l’Istituto di Storia dell’Arte allora diretto da Ferdinando Bologna, Mario Alberto fu chiamato come Professore Associato dall’Università di Trieste, e poi dall’Università di Salerno a partire dal 1994, e qui conseguì l’ordinariato nel 2005. L’intensità del suo lavoro di docente e di coordinatore di ricerche di ampio respiro lo hanno fatto seguire e amare da molte generazioni di studenti. I suoi lavori sulle arti a Napoli e nel Meridione tra Seicento e Settecento – Angelo e Francesco Solimena, Francesco Guarino, il Barocco a Napoli e nel Meridione – sono confluiti in pubblicazioni imperniate anche sui rapporti di Napoli con Genova e Venezia, e sulle presenze della pittura barocca napoletana in Italia e in Croazia.

Vice presidente del Centro Studi sulla Civiltà Artistica dell’Italia Meridionale ‘Giovanni Previtali’, Mario Alberto ha avuto una stella polare per tutto l’arco della sua traiettoria troppo breve: l’attenzione amorevole ai suoi studenti, la cura per la loro formazione e per il loro lavoro scientifico. Un maestro sorridente e amabile, capace di affetto e di incoraggiamento verso tutti e ciascuno dei suoi allievi, e senza mai essere né un gigione né un personaggio distante o altero: sono valori esemplari per chiunque consideri inscindibile l’insegnamento dal profilo di un vero studioso accademico. I frutti di questa generosità sono sotto gli occhi di tutti: basterà citare qui le dense monografie di Simona Carotenuto su Francesco Solimena. Dall’attività giovanile agli anni della maturità (1674-1710) (Nuova Cultura, 2015) e di Manuela D’Angelo su Matteo Bottigliero. La produzione scultorea tra fonti e documenti (1680-1757) (Nuova Cultura, 2018).

Chiunque abbia conosciuto Mario Alberto Pavone ne ricorderà il garbo, la mitezza, il gusto per la vita, il buon senso, la fedeltà nelle amicizie, la bonomia nel trattare i troppi oneri fastidiosi che sempre più il lavoro universitario comporta. Ad ottobre sarebbe andato in pensione; progettava viaggi, letture, nuove esperienze che un destino assurdo gli ha strappato. Perché il destino, si sa, non ha quasi mai niente a che fare con la natura e la bellezza interiore di certe persone.

Riccardo LATTUADA    Roma 1° maggio 2019