Restituita a Giovanni Bellini la “Madonna con Bambino” del Monastero delle Benedettine sull’isola di Pago (Pag, Croazia)

di Beatrice TANZI

Una reliquia di Giovanni Bellini in Dalmazia

In un momento in cui la scoperta di nuovi quadri più o meno di Caravaggio in giro per il mondo – in un vortice di aste, antiquari, soffitte, intercapedini, vecchie aristocratiche misteriose (se mai esistite), selfie e altre amenità – sembra essere diventato quasi un gioco di società, con tutti gli annessi e connessi, posso dire che quanto mi è capitato il 14 luglio scorso è stato davvero un caso incredibilmente fortunato.

Mi sono imbattuta in un dipinto “quasi” sconosciuto proprio nel posto per il quale fu eseguito e, senza sapere niente, l’ho immediatamente attribuito all’unico pittore al quale, secondo me, poteva essere assegnato: il giovane Giovanni Bellini; un’opera che, se non sbaglio – ma prontissima a correggermi –, non è mai entrata nella discussione su quello che Roberto Longhi riteneva «uno dei grandi poeti in Italia».

È stata un’emozione grande trovarmi di fronte questa Madonna con il Bambino nel Monastero delle Benedettine sull’isola di Pago (Pag), in Croazia, nel corso di un viaggio di studio in Istria e Dalmazia con i miei colleghi del progetto ERC AdriArchCult – Architectural Culture of the Early Modern Eastern Adriatic all’interno del corso di dottorato internazionale in Storia delle Arti all’Università Ca’ Foscari di Venezia, guidati dalla professoressa Jasenka Gudelj.

1. Giovanni Bellini, Madonna con il Bambino, Pag, Monastero delle monache Benedettine di Santa Margherita (fotografia scattata il 14 luglio 2021)

Si tratta di una tavola (54,5 x 44,5 cm; superficie dipinta 51 x 32 cm) che, quanto a conservazione, a prima vista, superficialmente, sembrerebbe essere passata sotto a un treno, scorticata, ferita, offesa: nondimeno riesce a toccare vertici di commozione acutissimi, che vieppiù si accendono proprio in considerazione del corpo oltraggiato dell’opera. Uno sguardo solo più attento rivela che il dipinto è sì sofferente, diminuito in varie zone da estese cadute di colore ma, in alcune parti la sua pelle è ancora vergine e riesce a rivelare una stesura di qualità raffinatissima (Gesù Bambino); con abrasioni anche cospicue ma relativamente poco toccato da ridipinture, se non per integrazioni grossolane a rigatino nelle parti più compromesse.

2. Giovanni Bellini, Madonna con il Bambino, Pag, Monastero delle monache Benedettine di Santa Margherita

Bisognoso di un intervento, ma che sia intelligente, responsabile e rispettoso, altrimenti è meglio lasciar stare: un malato grave ma non in pericolo di vita, in poche parole. E questo aspetto è, paradossalmente, ancora più struggente perché non siamo abituati a vedere opere di tale importanza in questo stato di conservazione: credo si debba tornare indietro almeno di un secolo-un secolo e mezzo, quando le tavole dei grandi maestri lasciavano l’Italia dopo un’accurata e spesso pesante cosmesi, che sarebbe stata poi reiterata negli anni chissà quante volte. E quante Madonne di Giovanni Bellini, nelle principali raccolte pubbliche e private di tutto il mondo si trovano, sotto strati di belletto e ridipinture, in condizioni analoghe? Ci sono le radiografie di tante mostre a testimoniarlo.

Giovanni Bellini, Madonna con il Bambino, Pag, Monastero delle monache Benedettine di Santa Margherita
8. Giovanni Bellini, Madonna con il Bambino (Madonna Fodor), collezione privata

La tavola non emerge dal mercato antiquario, non è in un grande museo (o meglio, è nel museino del convento, appena allestito): è stata sempre in un luogo pubblico (o, al massimo, negli ambienti della clausura di un luogo pubblico) e ha subito probabilmente solo le ingiurie del tempo e degli accidenti che possono capitare in una chiesa o in un monastero, spostamenti, cadute, bruciature di candele…

Giovanni Bellini, Madonna con il Bambino, Pag, Monastero delle monache Benedettine di Santa Margherita
10. Giovanni Bellini, Madonna con il Bambino (Madonna Davis), New York, The Metropolitan Museum of Art, Theodore M. Davis Collection

Ha una vicenda critica moderna, ormai, quasi quarantennale che tuttavia non sembra essere mai riuscita a varcare l’Adriatico, nemmeno nell’era di internet: è stata inaugurata dallo storico dell’arte spalatino Kruno Prijatelj, il quale, rimarcando il grado qualitativo sensibilissimo, ne ha dato una lettura fondamentalmente corretta nel contesto squarcionesco, oscillando tra Schiavone, Crivelli e un terzo pittore “padovano” che poteva avere visto da vicino Antonio e Bartolomeo Vivarini – tra Istria e Dalmazia, proprio come sulla sponda italiana, c’è parecchio, a partire dal polittico del 1440 di Antonio nella basilica Eufrasiana di Parenzo (Poreč), passando per quello del 1458 eseguito in coppia per Sant’Eufemia a Campora (Kampor), sull’isola di Arbe (Rab), per arrivare a quello più tardo, 1485, del solo Bartolomeo per Sant’Andrea, sempre ad Arbe, ora a Boston, o alla strepitosa pala del 1475 di Bartolomeo a Lussingrande (Veli Lošinj) – e il primo Mantegna.

Chi ha il merito di essersi dedicato con dedizione allo studio della tavola di Pago è Emil Hilje, professore all’Università di Zara, che l’ha bene illustrata in una serie di contributi a partire dalla tesi magistrale del 1988, avvicinandola dubitativamente ad Andrea Mantegna; mentre nel 2011, in una mostra sulla pittura veneta allestita a Zagabria, Gordana Sobota Matejčič ha spostato il riferimento, in maniera non pertinente, su Bartolomeo Vivarini.

Le notizie più significative sulla Madonna scaturite dagli studi di Hilje riguardano la Visita Apostolica compiuta a Pago nel 1579 dal vescovo di Verona, il veneziano Agostino Valier (la Visita Valier è l’oggetto del mio lavoro di dottorato), nella quale il presule registra, nella chiesa del convento delle benedettine di Santa Margherita, due altari legati alla Vergine: «altare a sinistris S. Mariae […] ornatum cum icona veteri» e «Altare a dextris sub titulo Corone Domini […] ornatum quibusdam iconis et immaginibus presertim S. Mariae». Se dovessi scegliere darei la preferenza al primo dei due altari, quello con l’icona “vetus”. Lo studioso ipotizza poi una possibile relazione  con Benedetto Missoli (Benedikt Mišolić), esponente di una nobile famiglia di Pago, francescano, laureato in utroque a Padova nel 1474, canonico a Roma («menò un gran rumore tra i canonisti di Roma»), astrologo e astronomo, comandante di galea contro i turchi e altro ancora (sempre che ci sia stato un solo Benedetto Missoli, perché le date sono contraddittorie e ho l’impressione che ce ne fossero almeno due, se non tre omonimi): è una candidatura da non sottovalutare per la committenza del dipinto, da verificare meglio, se possibile, su basi documentarie, visto che l’altare della Beata Vergine della Misericordia era stato eretto dalla sua famiglia.

Come si diceva, Emil Hilje ha solo sfiorato il nome di Bellini per la Madonna, abbandonandolo fin troppo in fretta («Izvjesna tvrdća crteža razlikuje ga od Bellinijevih radova», ovvero «Un certa durezza del disegno la differenzia dalle opere di Bellini») e l’ha attribuita con cautela ad Andrea Mantegna, ma la sua intelligente proposta non sembra avere avuto seguito nella letteratura mantegnesca, che pure si è di molto infoltita negli ultimi vent’anni.

Il riferimento al padovano ha due grandi meriti: l’avere ribadito con grande determinazione l’altissima qualità dell’opera e di averla assegnata all’unico pittore che poteva risultare alternativo al Bellini nel preciso momento cronologico e stilistico dell’esecuzione della tavola di Pago: quanti scambi attributivi tra i due cognati scandiscono la loro vicenda critica nella seconda metà del sesto decennio? La Madonna delle benedettine rientra infatti in quella congiuntura sottilissima e affascinante dei rapporti precoci tra i due – ricostruita in maniera a mio avviso così convincente e allo stesso tempo poetica da Luciano Bellosi – che produce le strepitose miniature della Geographia di Strabone ad Albi, la malandata Madonna Fodor in collezione privata (l’immagine è presa dal recente volume belliniano di Antonio Mazzotta, che la riproduce a colori per la prima volta, senza le vecchie ridipinture) e vari altri esemplari di Madonna con il Bambino che ricorderò tra poco. Siamo negli anni 1455-1460 circa – per chi, come me, crede a una certa ricostruzione “precoce” della cronologia di Giovanni Bellini, sulla quale da tempo si è assistito, e si assiste, a una vera e propria guerra di religione con apici davvero imbarazzanti di cattivo gusto – e ci si avvia, con un lieve stacco temporale che coincide con un ampliamento delle forme, verso i trittici della Carità.

Nei prossimi mesi mi dedicherò a un lavoro approfondito del dipinto: credo che lo meriti; mi sembra strano, tuttavia, che la critica sia rimasta del tutto impermeabile alla proposta mantegnesca, per quanto formulata in croato, sia per accoglierla che per smentirla; e che, soprattutto, nel consesso internazionale non si conosca la Madonna di Pago, anche perché gli studi di storia dell’arte provenienti dalla sponda orientale dell’Adriatico nel secondo dopoguerra, da quelli di Grgo Gamulin a quelli di Kruno Prijatelj, solo per fare due nomi “storici”, hanno avuto ampia diffusione in Italia, con numerose pubblicazioni, per esempio, sulle pagine di Arte Veneta, ma non solo.

Mi sembra sinceramente impossibile che a nessuno, tra l’Hertziana e il Kunst, sia venuta almeno la curiosità di sfogliare il catalogo della mostra di Zagabria del 2011, Tizian, Tintoretto, Veronese: con un titolo così, poi. Nell’ultima grossa monografia del 2019 su Giovanni Bellini, per esempio, il nome di Prijatelj non compare da nessuna parte, così non si accenna nemmeno alla Madonna con il Bambino in San Matteo a Dobrota (in italiano Bonentro o Sant’Eustachio, alle Bocche di Cattaro, ora in Montenegro) da lui pubblicata, che è una variante della Madonna Huntington, firmata, già in collezione Lazzaroni; e gli unici dipinti ricordati nella ex Jugoslavia sono i noti – perché musealizzati – e stentati Sant’Agostino e San Benedetto della Galleria Strossmayer a Zagabria; mentre si conoscono le notizie documentarie della pala che Bellini doveva eseguire nel 1497 per Donato Cievalelli in Santa Maria di Zara (un’altra chiesa di monache benedettine) ma non realizzò mai, perché il testamento del nobile zaratino fu rogato a Venezia. Eppure la penetrazione secolare di opere d’arte dal centro della Serenissima sulle coste di Istria e Dalmazia, da Paolo Veneziano a Giuseppe Bernardino Bison, ha una consolidata tradizione di studi che l’Italia, e in particolare Venezia, ha sempre seguito con la dovuta attenzione.

Giovanni Bellini, Madonna con il Bambino (particolare), Pag, Monastero delle monache Benedettine di Santa Margherita
12. Giovanni Bellini, Crocifissione (particolare), Venezia, Museo Correr

Per ora mi limito a dire “Giovanni Bellini, 1458-1460 circa” (o, più prosaicamente, a “mettere il cappello” sull’attribuzione) e a mostrare qualche confronto, a mio avviso, di un certo significato, come il paesaggio, che è quello della Crocifissione del Museo Correr, della fine degli anni Cinquanta, e più ancora quello della già citata Madonna Fodor dopo il restauro che l’ha liberato dalle ridipinture. In quest’ultima il testone del Bambino imbronciato  è vicino, per quanto meno bello, al nostro – che pure ha il muso un po’ rincagnato da carlino –, di una tipologia che si incontra di continuo (per esempio nella Madonna Davis del Metropolitan o in quella del Rijksmuseum di Amsterdam):

14. Giovanni Bellini, Madonna con il Bambino (particolare), Amsterdam, Rijksmuseum

 

il Gesù Bambino di Pago, tuttavia, è tra i meglio conservati tra le opere di questo momento e la sua stesura a brevissime pennellate, con rialzi e colpi di luce anche sulle pieghe della camicina, ha una tecnica raffinata, quasi da miniaturista, tanto che il confronto più pertinente è proprio con il volto di vecchio di Jacopo Marcello nella Geographia di Strabone ad Albi.

Quello della Vergine invece, per quanto più compromesso, soprattutto nella parte destra, ha i tratti resi con le semplificazioni tipiche del momento, a partire dalle figure femminili nella precoce Natività della Vergine della Galleria Sabauda a Torino o nella controversa Sant’Orsola delle Gallerie dell’Accademia, nella Madonna della Pinacoteca Malaspina di Pavia o in altre ancora, quale la già citata Madonna Davis di New York o la Madonna Johnson del Philadelphia Museum of Art, nelle quali si può cogliere ancora l’intreccio con le opere mature del padre Jacopo, tipo la Madonna dei cherubini sempre all’Accademia.

Chiudo su Giovanni Bellini riproponendo una citazione indimenticabile e commovente, come quasi tutto il Viatico longhiano:

«Uomo di meditazioni instancabili, mai pago di evocare l’antico, d’intendere il nuovo e di provarli, egli fu tutto quel che si dice: prima bizantino e gotico, poi mantegnesco e padovano, poi sulle tracce di Piero e di Antonello, in ultimo fin giorgionesco; eppure sempre lui, caldo sangue, alito accorato, accordo pieno e profondo tra l’uomo, le orme dell’uomo fattosi storia, e il manto della natura. Accordo tra le masse umane prominenti e le nubi alte, lontane, e cariche di sogni narrati; tra le chiostre dei monti e le absidi antiche, le grotte di pastori e le terrazze cittadine, le chiese color tortora del patriarcato e il chiuso delle greggi, le rocche medievali e le rocce friabili degli Euganei. Una calma che spazia fra i sentimenti eterni dell’uomo: cara bellezza, venerata religione, eterno spirito, vivo senso; e una pacificazione corale che fonde e sfuma i sentimenti, dall’alba di rosa al tramonto di viola, secondo l’ora del giorno».

Beatrice TANZI  Cremona 25 luglio 2021