Raffaello e l’antico nella villa di Agostino Chigi; chiude la mostra all’Accademia dei Lincei.

di Costanza BARBIERI

Raffaello e l’antico nella villa di Agostino Chigi, mostra a cura di Alessandro Zuccari e Costanza Barbieri. Accademia dei Lincei, Villa Farnesina, Roma, 30 marzo-2 luglio 2023. Catalogo Bardi Edizioni

E’ Pietro Aretino, la penna più celebre e graffiante del Rinascimento, ad associare e celebrare in termini più che lusinghieri due grandi protagonisti del suo tempo, Raffaello e Agostino Chigi, il “Magnifico” banchiere dei papi. Il 9 settembre 1541 Pietro scrive all’allievo di Raffaello, Giovanni da Udine, che

certamente la consolazione che sentono i nostri animi quando entriamo a ragionare de le qualità divine di Rafaello da Urbino, di cui sete creato, e de le magnificenzie reali d’Agostin Chisi, del qual sono allievo, è quasi simile a quella che essi provavano mentre vedemmo come l’uno sapeva usar le virtù, e l’altro le ricchezze”[1].

Il proficuo rapporto di  fra il pittore e il suo committente si  consolida nella comune passione per l’antico: il banchiere aveva nella sua villa una smisurata collezione, composta da esempi spettacolari di statuaria ellenistica fino a oggetti inestimabili della glittica imperiale, che metteva a disposizione del maestro di Urbino, degli allievi e dei concorrenti, come Baldassarre Peruzzi o Sebastiano del Piombo. Dal confronto con l’arte classica nascono le splendide invenzioni a fresco che oggi, grazie alla mostra allestita nella villa, è stato possibile confrontare con alcuni strepitosi esemplari della collezione Chigi: originariamente il palazzo e i giardini erano ornati da sculture e rilievi, in dialogo con la decorazione a fresco, e apprezzati a tal punto da Raffaello che quei modelli diventavano i soggetti privilegiati, spesso rielaborati, delle sue composizioni. Sono ritornati nella loro originaria collocazione la Psiche Capitolina, il Pan e Dafni  e l’Afrodite accovacciata di Palazzo Altemps, il calco dell’Arrotino della Tribuna degli Uffizi, e le numerose gemme intagliate, cammei e pietre preziose che Agostino raccoglieva nei suoi forzieri.

La Loggia di Amore e Psiche, prima sala di accesso alla mostra , è stata ripristinata come originario ingresso alla villa, e ha accolto i protagonisti delle storie dipinte: la Psiche Capitolina era con certezza nelle raccolte chigiane, come testimonia il disegno nell’Albertina di Vienna, attribuito a Giovanni Battista Cordini da Sangallo, datato al 1520-1521 circa, con l’iscrizione “nel’orto di Agustin Chisi[2]. Lo splendido Eros Farnese era appartenuto alla collezione Del Bufalo e scoperto in una data compatibile con quella della formazione delle collezioni di Agostino, criterio di riferimento per la scelta delle opere (fig. 1).

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Nella Sala del Fregio, a destra dell’ingresso, gli inventari del  novembre 1520 ricordano la raccolta più importante del Palazzo, costituita da otto statue a grandezza naturale. Di queste ben quattro, due maschili e due femminili, erano integre, e forse si accordavano al fregio decorato dal Baldassarre Peruzzi con scene mitologiche. Una statua di Ercole, eroe preferito di Agostino, non poteva mancare, perché gli è dedicata l’intera parete nord con le Fatiche; associati al fregio potevano fare mostra di sé un Apollo, una Diana, e naturalmente Giove, in dialogo con le scene dipinte di Apollo e Marsia, Diana e Atteone, Giove e Sémele. Di certo l’esibizione di solenni statue classiche avrebbe degnamente manifestato ai visitatori la magnificenza e lo status del facoltoso collezionista, nell’anticamera del suo studio.

Non avendo certezza di quali esemplari fossero esposti, si è voluto evocare un possibile allestimento attraverso filtri di realtà aumentata, che restituiscono le statue in 3D, realizzato dallo studio di videoartisti Lumen XR.  Il rilievo del thiasos marino dalla Villa di Adriano a Tivoli, è stato esposto al centro della sala ed è un pezzo molto significativo: evoca i pellegrinaggi a Tivoli, alla ricerca della sancta antiquitate, da parte di Raffaello, Andrea Navagero, documentati dalla celebre lettera di Pietro Bembo al cardinale Bibbiena datata 3 aprile 1513:

“.…rivedrò Tivoli, col Navagero e Beaziano, il signor Baldassar Castiglione e Raffaello. Andiamo a veder il tutto l’antico e il nuovo”[3].

Il rilievo con i mostri marini, splendido esempio in marmo pario proveniente dal Teatro Marittimo della Villa di Adriano a Tivoli e conservato ab immemore nella villa Farnesina, non solo documenta il legame fra Raffaello e le antichità adrianee, ma può anche essere confrontato con il fregio di Peruzzi, raffigurante un analogo soggetto (figg.  2, 3).

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DallaLoggia di Amore e Psiche si passa alla Loggia di Galatea, nota al tempo come Loggia del Giardino perché apriva verso i magnifici orti e frutteti digradanti verso il Tevere; la relazione fra interno ed esterno doveva essere ancora più intensa, con profumi e colori che creavano un insieme idilliaco.

Luogo ideale per il Pan e Dafni di Palazzo Altemps, che riproduce l’originale scolpito dallo scultore di Rodi Heliodoros, reso noto da Plinio nella Naturalis Historia (XXXVI, 29). L’opera era posseduta con certezza dal banchiere, come testimonia di Pietro Aretino, intimo di Agostino:

«E perché li Poeti, e li scultori antichi e moderni sogliono scrivere e scolpire alcuna volta per trastullo de l’ingegno cose lascive, come nel Palazzo Chisio fa fede il Satiro di marmo, che tenta di violare un fanciullo» (fig. 4).
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Baldassarre Peruzzi prende a modello il Pan, come nella testa di satiro sotto i piedi di Perseo, personificazione di Agostino, nello specchio della volta della stessa Loggia della Galatea. Il Satiro Chigi ritorna in moltissime invenzioni anche della scuola di Raffaello, come nella stampa raffigurante Venere e Pan, esposta in mostra e che dimostra la circolazione di idee e invenzioni assimilate dall’antico e nella villa transtiberina (fig.  5).

Capofila della ricezione e rielaborazione dall’antico è precisamente l’affresco della Galatea, che ostenta una conoscenza filologica impressionante dei più vari repertori classici, dalla statuaria ai rilievi dei sarcofagi ai testi latini: la mostra ha ospitato l’Afrodite accovacciata di Doidalsas, nota a Raffaello attraverso la copia di Palazzo Altemps e modello per la nereide abbracciata dal tritone in basso a sinistra (figg.  6, 7), a sua volta ispirato al Torso del Belvedere.

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La sala che segue ha inteso evocare i celebri banchetti di Agostino: celebre è l’aneddoto del lancio nel Tevere dalla loggetta aperta di vasi e stoviglie d’argento a fine pasto, salvo recuperarli grazie a una reste stesa sotto il pelo dell’acqua[4]. La magnificenza ostentata era anche una garanzia della solvibilità delle casse del banchiere: la sontuosa dimora transtiberina risplendeva di scintillante suppellettile d’oro e d’argento e di oggetti preziosi per l’ornamento dei celebri banchetti. Il vaso in forma di drago e il piatto da parata, provenienti dal Tesoro dei Granduchi di Palazzo Pitti, insieme alle incisioni raffiguranti i vasi all’antica prodotti nelle botteghe romane, rievocano i fasti del banchiere senese e sollevano una questione che, in seguito alla mostra, potrà essere ulteriormente sviluppata. I magnifici vasi all’antica, come recita l’iscrizione “Sic Romae antiqui sculptores ex marmore et aere facebant”, incisi da Agostino Veneziano e Marcantonio Raimondi (figg. 8-10), potrebbero essere considerati come la testimonianza di una produzione molto intensa che, da un determinato momento in poi, fu consegnata alle stampe, forse perché era venuto a mancare il principale committente e promotore di quella stagione di invenzioni e innovazioni.

Restano alcuni significativi documenti della quantità e splendore degli apparati: “la casa era benissimo in ordene di argenti assaissimi”, scrive Marin Sanudo nei suoi Diari [5] a proposito della villa di Agostino, mentre Sigismondo Tizio ricorda come in uno di questi celebri banchetti vennero a mancare undici vasi massicci d’argento che Chigi vietò ai suoi servi di chiedere indietro, dimostrando “non meno prudenza che magnificenza[6].

Vasellame e suppellettili realizzati a Roma erano tenuti in gran pregio: una lettera inviata a un agente di Isabella Gonzaga, datata 19 luglio 1516, testimonia il grande valore che si attribuiva ai vasi realizzati nella città eterna:

“la bacilla et bronzo…e il signor duca no ge li vuole dare per volerli tenere per lui, perché troppo li piace quel garbo e che li ne darà un’altra facta a Urbino, che non ha gran pezzo così bon garbo né così ben lavorati como questi, che son facti a Roma”[7].

La sconfinata produzione grafica di progetti per vasi e suppellettili da tavola, così diffusa a partire da quegli anni nella cerchia di Raffaello, potrebbe forse essere tematizzata anche in relazione alle esigenze di magnificenza per i celebri ricevimenti nel palazzo del giardino in cui Agostino investiva ingenti risorse a scopi di rappresentanza e per attuare i suoi grandiosi disegni di un revival degli splendori di Roma. Lo stesso Raffaello e autore documentato di disegni per piatti da parata destinati ad Agostino e si conservano splendidi disegni per questo genere di progetti a Oxford, a Lille e a Dresda[8].

La Sala delle Prospettive è stata in gran parte dedicata alla produzione letteraria associata a Chigi, testimonianza importante del suo progetto culturale. La costruzione della villa suburbana è al centro delle celebrazioni poetiche da parte degli umanisti amici del banchiere, sostenitore di varie imprese editoriali e di molti letterati, da Pietro Bembo a Pietro Aretino. Il Suburbanum di Blosio Palladio (1512) è interamente dedicato ai fasti del palazzo trasteverino e si apre con le dedicatorie dei principali sodali dell’Accademia romana. L’anno precedente era stato stampato il Viridarium di Egidio Gallo, panegirico sui giardini chigiani, così splendidi da essere eletti da Venere quale dimora primaverile.

Al centro del Viridarium sorge il Palazzo, magnificamente affrescato e ornato da statue antiche e preziosa suppellettile, tali da fargli meritare, come per una reggia, il titolo di “Domo Palatii sumptuosissima” nella redazione del primo inventario, del novembre del 1520, anch’esso presente in mostra, stilato dopo la morte di Agostino e quasi un’istantanea degli arredi del Palazzo.

I trattati di Giovanni Gioviano Pontano, dedicati alle virtù sociali, sono un altro importante termine di riferimento per i gusti collezionistici di Agostino, ispirati alle teorie dell’umanista napoletano esposte nel De Splendore, De Magnificentia, e De Liberalitate, pubblicati a Napoli nel 1498. Pontano è stato seguito alla lettera nella scelta delle serie di oggetti per una collezione ideale: dalla glittica alle statue antiche, dai gioielli alla medaglistica, dalla suppellettile in metalli preziosi fino ai destrieri nelle scuderie. Agostino aveva frequentato Pontato nella città partenopea; l’Accademia pontaniana aveva a Roma illustri rappresentanti quali Girolamo Borgia, allievo di Pontano e legato a Francesco Colonna, autore dell’Hypnerotomachia Polifili, e il napoletano Jacopo Sannazaro. Il trattato De Magnificentia, esposto in mostra, si basa sull’Etica nicomachea di Aristotele e costituisce il modello culturale cui Agostino s’ispira per creare la propria immagine pubblica. Il lusso e l’ostentazione perdono con Pontano qualsiasi connotazione moralistica e diventano valori positivi, in un processo di rivalutazione delle potenzialità sociali del denaro che Chigi non poteva non apprezzare.

La statua dell’Arrotino, inamovibile dalla Tribuna degli Uffizi e presente in mostra con il calco del Museo dell’Arte Classica dell’Università “La Sapienza” di Roma (fig. 11), è stata ricondotta alle collezioni del Magnifico grazie alle indicazioni inventariali che la registrano al posto d’onore nella Sala delle Prospettive.

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Anche Baldassarre Peruzzi, nella pianta della sala progettata per il banchetto di nozze fra Agostino e Francesca Ordeaschi, del 28 agosto 1519, segnala il basamento destinato alla sua collocazione. Questa posizione privilegiata—unica statua a figura intera nel salone—era dovuta all’identificazione, sulla base degli Annales di Tito Livio, con l’augure Atto Navio, colui che aveva contrapposto l’autorità religiosa a quella politica. Una vicenda esemplare e quanto mai congeniale al banchiere del papa: la politica deve essere funzionale alla sfera religiosa, non il contrario. Il soggetto sembrava condensare l’umanesimo cristiano della corte papale e può spiegare le numerose copie e derivazioni che ne sono scaturite. Solo in seguito la statua è stata riconosciuta come lo Schiavo scita dello Scorticamento di Marsia.

La collezione di glittica di Agostino era paragonabile a quella di Lorenzo il Magnifico, e le valutazioni post mortem dell’intero palazzo, dei giardini e delle scuderie (30.000 ducati) erano di poco superiori al valore del tesoro di pietre preziose e soprattutto cammei posseduti dal senese, 25.000 ducati) [9]. Le raccolte di gemme e monili avevano secondo Plinio modelli autorevoli: Pompeo allestì in Campidoglio un cabinet ricolmo di pietre preziose già appartenute a Mitridate; Giulio Cesare fece lo stesso nel tempio di Venere; Marcello, figlio di Ottavia, collocò il suo bottino di gioielli nel tempio di Apollo sul Palatino.

Gli inventari di Agostino registrano una quantità sorprendente di cammei, corniole, perle sciolte o raccolte in monili, pietre preziose, anelli con zaffiri, diamanti, smeraldi, rubini; medaglie da berretta, monete antiche e medaglie in oro, argento e bronzo; intagli in pietre dure e semipreziose, quali la «testa grande in cristallo di rocca».  Così, nella tradizione di Roma antica, gli oggetti sontuosi rappresentavano lo sfarzo e il segno della grandezza d’animo del facoltoso proprietario, che si poteva paragonare agli illustri predecessori, in continuità con l’idea della Renovatio urbis.

Durante la dispersione della collezione Chigi alcune di queste gemme sono transitate nella collezione Medici e poi Farnese, soprattutto in seguito ai rivolgimenti scatenati dal Sacco di Roma, ma alcune possono essere identificate con buona probabilità, come il cammeo “dupplicato”, con Venere e Enea sul recto e un’altra coppia sul verso,  riprodotto da Marcantonio Raimondi, o altri ancora come il Fetonte o l’Adonio (la Morte di Adone, figg. 12-15 ).

12 – 13 (recto – verso)
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Al di là delle vicende collezionistiche cosa incide veramente nella vicenda chigiana è la condivisione di questi preziosi oggetti con gli artisti al lavoro nella villa: cammei e intagli venivano presi a modello per la realizzazione delle composizioni e la messa a punto delle iconografie. E’ il caso del Sigillum Neronis (fig. 16),

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la splendida corniola del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, appartenuta anche a Lorenzo il Magnifico e poi passata nelle mani del banchiere senese, che Baldassarre Peruzzi cita accuratamente, fin nelle pieghe schiacciate del mantello, nell’Apollo con la lira che raffigura il segno zodiacale di Agostino, Sole in Sagittario, nel celebre oroscopo nella volta della Loggia della Galatea (fig. 17);

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Raffaello prende a modello la medesima invenzione per l’Apollo nella nicchia della Scuola di Atene, all’incirca dello stesso periodo (fig.  18).

Anche la gemma più preziosa della collezioni Chigi, l’Adlerkameo, un’agata a due strati con l’aquila ad ali spiegate del Kunsthistorisches Museum di Vienna, è stata presa a modello sempre da Baldassarre Peruzzi che l’ha raffigurata sulla corazza di Perseo, mentre decapita la Medusa, nello specchio della volta della Loggia della Galatea, personificazione dell’eroe e rimando alle gesta del padrone di casa (figg.  19-20).

Il grande cammeo con l’aquila, appartenuto con certezza alle collezioni Chigi, rappresenta uno dei simboli più significativi del potere di Roma, vero e proprio concentrato di millenni di storia nei passaggi dall’impero romano d’occidente all’impero romano d’oriente, e poi con la caduta di Bisanzio tornato a Roma.

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Domenico de’ Cammei, agente mediceo a caccia di tesori per il Granduca di Firenze, ricordava il cammeo Chigi come “uno de’ maravigliosi pezzi che abbia mai veduti”. Si trattava di un pezzo veramente eccezionale: donato dal Senato a Ottaviano il 16 gennaio del 27 a.C., rappresentava la  ricompensa per aver salvato Roma dal caos della guerra civile, tributandogli l’onore del titolo di Augusto, la corona di quercia– ‘corona civica’, e la palma, simbolo di vittoria, afferrate dagli artigli dell’aquila.

Un altro intaglio, il Sileno ebbro del Museo Nazionale Archeologico di Firenze potrebbe aver ispirato sia le incisioni con l’omonimo soggetto realizzate da Marcantonio Raimondi e da Agostino Veneziano, sia l’affresco di Peruzzi nella Sala delle Prospettive (figg.  21-22).

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La “magnifica” committenza Chigi non si limitava alla dimora privata, ma si estendeva alla sfera pubblica e religiosa con le cappelle gentilizie in Santa Maria del Popolo e in Santa Maria della Pace, entrambe affidate a Raffaello, e con il santuario di Santa Maria della Sughera a Tolfa, sottoposta a nuove indagini in occasione della mostra (cui dà conto il saggio in catalogo di Alessandro Zuccari).

La cappella in Santa Maria del Popolo, progettata dal Sanzio fra il 1511 e il 1513, costituisce una visione innovativa dell’antico, declinato in forme sontuose e spettacolari. Nella Lettera a Leone X, Raffaello aveva infatti lamentato come gli ornamenti degli edifici contemporanei non fossero “di materia tanto preziosa come gli antichi”, realizzati con “infinita spesa”. Le illimitate facoltà  finanziarie di Agostino consentono a Raffaello di realizzare un progetto ambizioso, ispirato al Pantheon, inserendovi pregevoli marmi analoghi a quelli dei palazzi imperiali, figure di aquile ad ali spiegate per i capitelli, e riproponendo per la cupola la costosa tecnica del mosaico. Anche le statue della cappella sono ispirate ai modelli ellenistici, in particolare il Giona realizzato da Lorenzetto sulla base di un disegno di Raffaello e ispirato all’Antinoo, di cui è stata esposta in mostra una copia cinquecentesca della testa in bronzo (figg  23-25).

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L’ultima sala ha accolto i ritratti dei papi di Agostino Chigi, la cui fortuna inizia con papa Alessandro VI Borgia; decisivo per la sua carriera è il sodalizio con Giulio II, grazie alle vertiginose entrate ottenute con il monopolio dell’allume e alla riuscita missione diplomatica presso la Repubblica di Venezia, alleatasi con il papa nella Lega Santa del 1511.

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Dal 1509 la famiglia Chigi ottiene l’adozione dalla famiglia papale e la concessione di inquartare lo stemma con quello Della Rovere: un riconoscimento dei grandi progetti realizzati dal papa grazie alle risorse finanziare messe a disposizione dal banchiere senese. C’è da chiedersi se, senza l’intraprendenza economica del Magnifico, il volto di Roma rinascimentale sarebbe stato lo stesso, in considerazione di tutti i grandiosi progetti con cui Giulio II sconvolse l’urbe, a partire dalla ricostruzione di San Pietro.

Con il successore Leone X Agostino ottiene la conferma del monopolio sull’allume, le dogane del Sale e del Patrimonio; inoltre anticipa al papa 75.000 ducati per le spese della cerimonia del possesso, ricevendo in pegno il pettorale e il triregno. La familiarità e le frequentazioni con il papa Medici non sono inferiori a quelle con Giulio II, come documenta l’assidua presenza di Leone X nella villa transtiberina. Accanto alle copie coeve del celebri ritratti di Raffaello di Giulio II e Leone X con i suoi cardinali, è esposta in mostra la medaglia celebrativa con il ritratto di Agostino Chigi, conservata nel Museo del Bargello, raffigurante sul verso l’emblema della Comitas (Liberalità) con il volto bifronte, simbolo di prudenza—dote necessarissima a un audace imprenditore (fig. 26).

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Così come Pietro Aretino si dice “resuscitato” alla corte di umanisti e artisti radunati dal banchiere senese presso la sua villa, che brillava dei fasti e dello splendore del suo anfitrione, l’antico viene “resuscitato” e prende nuova vita nelle invenzioni di Raffaello e della sua cerchia: la mostra ha offerto l’opportunità di toccare con mano questo dialogo.

Costanza BARBIERI  Roma 2 Luglio 2023

NOTE

[1] P. Aretino, Lettere. II, a cura di Paolo Procaccioli, Roma 1997-2002, p. 291.
[2] Rimando in generale al catalogo Raffaello e l’antico nella villa di Agostino Chigi con bibliografia, e in particolare a B. Cacciotti, scheda n. 2, pp. 478-479. Cfr. R. Bartalini Due episodi del mecenatismo di Agostino Chigi e le antichità della Farnesina, «Prospettiva» 67 (1992), pp. 17-38: 23; A. Cremona, Felices procerum villulae: il giardino della Farnesina dai Chigi all’Accademia dei Lincei, «Atti e Memorie dell’Accademia Nazionale dei Lincei», Serie IX vol. XXV, Roma 2010, p. 584; C. Barbieri, Le “Magnificenze” di Agostino Chigi: collezioni e passioni antiquarie nella Villa Farnesina. «Atti e Memorie dell’Accademia Nazionale dei Lincei>>, Serie IX vol. XXXV, Roma Roma 2014, pp. 211-219.
[3] J. Shearman, Raphael in Early Modern Sources, 2 vols., London 2003, I, pp. 238-240.
[4] G. Cugnoni, Il Magnifico Agostino Chigi, Roma 1879, p. 67
[5] Sanudo, XXV, 1969, p. 386.
[6] Cugnoni 1879, p. 67.
[7] Shearman 2003, I, pp. 264-265.
[8] Barbieri 2014, pp. 78-81.
[9] Barbieri 2014, p. 88.