“Puossi per si fatto color mostrare Perseueranza …”. I galatei dei colori e la ritrattistica veneziana nel Rinascimento. Oro, argento, azzurro (parte prima)

di Stefania MACIOCE

Si è svolta nei giorni scorsi presso la Fondazione Ernesta Besso di Roma, per il ciclo Salotti D’Arte “Arte al Femminile” a cura di Cecilia Mazzetti di Pietralata, la conferenza I Trattati sul colore tra Moda e Costume nel Ritratto Rinascimentale, tenuta da Stefania Macioce. Siamo lieti di riportare su About Art la prima parte del testo della Prof.ssa Macioce, cui seguirà la seconda parte nel prossimo numero. Ringraziamo gli organizzatori e la Prof.sa Macioce per aver cortesemente concesso la pubblicazione integrale dell’intervento.

Simplice, il bianco mostra puritade,  / fede, se avvien che accompagnato sia, / il turchin, quando / è misto, gelosia, e scompagnato e sol, tranquillitade

Marin Sanudo, Diarii, (1496-1533)

Tra estetica, etica e antropologia, teoria e scienza, un aspetto meno consueto e sfuggente è legato a ciò che nel passato si collegava simbolicamente all’utilizzo dei colori. Il Rinascimento vede Venezia svolgere un ruolo predominante poiché nella città lagunare furono pubblicati diversi trattatelli valorizzati da componimenti poetici sul simbolismo dei colori.[1]

Il termine latino color rimanda al senso di celare poiché, nella sua accezione semantica e lessicale, il colore nasconde ciò che colorato non è. Tra i padri del neoplatonismo, Plotino, nella prima Enneade spiega che così come una casa rappresenta il dominio sulla materia da parte della mente di un architetto, il colore risulta dal dominio sulla materia da parte della forma incorporea che chiamiamo luce.

«La semplice bellezza del colore deriva da una forma che domina l’oscurità della materia e dalla presenza di una luce incorporea che è la ragione e l’idea».[2]

Il filosofo riassume in tal modo la problematicità, legata all’indefinibile contingenza dell’argomento, alla sua inafferrabilità, ma anche all’impossibilità di ridurre il tema a oggettiva e neutrale materia di riflessione. Sulla luce si era espresso anche Aristotele dichiarando:

«si ha infatti il colore dell’oro, quando il giallo ha la luce del sole e molto concentrato, risplende, la lucentezza è continuità e densità di luce».[3]

Le fonti antiche definiscono i colori austeri o floridi, come riporta Plinio:

«l’uno e l’altro tipo si ha per natura o per mistura. Sono floridi il minio, l’armenium, il cinabro, la crisocolla, l’indaco, il purpurissimum, gli altri sono austeri […] alcuni si trovano allo stato naturale, altri si fabbricano».[4]

Questi testi, noti al mondo medievale, sono ripresi dalla propensione tutta rinascimentale verso il recupero delle fonti antiche, che approda a sostanziali avanzamenti attraverso il costante accrescimento della produzione trattatistica.

Il De coloribus, composto tra la fine del IV egli inizi del III secolo, è l’unico trattato antico dedicato esclusivamente ai colori pervenuto integralmente conservato, ritenuto in passato parte del Corpus Aristotelicum. Nel Rinascimento infatti era considerato autografo, mentre nella cultura moderna si tende a considerarlo opera di scuola: l’editio princeps, con testo in greco, fu pubblicata a Venezia per i tipi di Aldo Manuzio nel 1497. Consultato da pittori, il testo interessò Leonardo, nel suo breve e incisivo viaggio nella città lagunare, al momento della caduta del suo principale committente, fu consultato da Ludovico il Moro, ma anche da saggisti e letterati financo, in età moderna, da Goethe.

Il successo dell’edizione veneziana determinò un effetto a catena nei cosiddetti galatei dei colori: 14 vari autori[5] attivi nelle corti di Mantova, Milano, Ferrara, Venezia, diedero vita a diversi trattatelli, i galatei appunto, che, dopo un breve componimento poetico introduttivo, illustravano caratteristiche e proprietà, accostamenti e simboli, dei colori. In essi traspare una mescolanza di saperi, tra astrologia e alchimia, con riferimenti a testi letterari classici posti a confronto con fonti più prossime, con particolare attenzione a Petrarca e Boccaccio. In buona parte, questa tradizione discorsiva cinquecentesca insiste su corrispondenze etiche e comportamentali, più che estetiche offrendo una normativa sull’abbigliamento, con un’attenzione particolare al significato delle tinte, utilizzate singolarmente o in coppia.

Già nel De Pictura Leon Battista Alberti, fa riferimento alle dinamiche combinatorie dei colori, anche in rapporto alla percezione visiva, ma anche in rapporto alle correlazioni tra colori primari e secondari e sulle convenienti “amicizie” di questi.

Nel De coloribus libellus pubblicato a Venezia nel 1528, Antonio Telesio seleziona dalla selva lessicale dell’antichità soltanto dodici colori: coeruleus (azzurro scuro) (grigio-azzurro), coeruleus (azzurro scuro), caesius (grigio-azzurro), ater (nero) e niger (scuro), albus (bianco), pullus (marrone scuro), ferrugineus (ruggine), rufus(rosso chiaro), roseus (rosa), ruber (rosso), puniceus (rosso fenicio), fulvus (giallo rosso), viridis (verde).

La popolarità del Libro de natura de amore di Mario Equicola del 1525 favorì poi la divulgazione di trattati sul colore in chiave amorosa, ove l’interesse si concentrava sull’abbigliamento come il manuale destinato alle fanciulle intitolato Specchio d’amore di Bartolomeo Gottifredi edito nel  1547 o anche La Philena di Niccolò Franco pubblicato nel medesimo anno che riguarda il colore degli abiti indossati di volta in volta dall’amata: «per iscoprire i cenni amorosi per accorta via a cui vogliono»,[6] e un capitolo sul Significato delli colori figura poi nella raccolta di Eustachio Celebrino ristampata tra il 1525 e il 1547. Ma nel 1535 viene pubblicato a Venezia, da Giovanni Nicolini da Sabbio, uno dei testi che godettero di maggiore fortuna venendo a costituire un prototipo. Si tratta del Trattato del significato de’ colori del mantovano Fulvio Pellegrino Morato, attivo presso i Gonzaga, il cui testo sarà riedito dieci anni dopo con l’aggiunta di una seconda parte relativa al simbolismo dei fiori.

Questa sorta di prontuari, non di rado ricchi di citazioni tratte da autori antichi, ebbero larga diffusione come l’edizione del 1565 del Dialogo nel quale si ragiona delle qualità, diversità e proprietà dei colori di Ludovico Dolce che riprende e rielabora ampliandolo l’ordinamento telesiano; ad esso fa seguito nel 1568 il Trattato de’ colori di Coronato Occolti e quello di Giovanni de’ Rinaldi, pubblicato nel 1584, fino al Discorso de’ colori di Antonio Calli, edito nel 1595.

Nel secolo della “maniera” si assiste dunque ad un improvviso affollamento di opere o capitoli di libri dedicati al colore, oltre i trattati venivano composti sonetti, o testi poetici con particolare riferimento all’elemento simbolico associato al colore.

In particolare da celebri testi come il Cortegiano (1528) di Baldassarre Castiglione, il Dialogo della bella creanza delle donne (1539) di Alessandro Piccolomini e il Galateo (1558) di Giovanni Della Casa, si evince come l’abito acquisisca un ruolo preminente in quanto considerato un indispensabile strumento espressivo di sentimenti e alti valori morali oltre che una efficace barriera di casta, ove al colore è affidata la funzione di pronta identificazione e distinzione di un individuo. La grande fortuna ottenuta da questi scritti nel XVI secolo ed in parte nei primi del XVII, cessò tuttavia nei secoli successivi, quando questi trattati furono considerati del tutto marginali e caddero nell’oblio sia per la scarsa rilevanza letteraria, sia per le obsolete teorie cromatiche.

È interessante sottolineare come a Venezia, la città del colore, viene inoltre pubblicato uno dei libri fondamentali per la storia dei coloranti naturali, ovvero il primo trattato di chimica tintoria. Il Plichto, de l’arte de tentori di Giovan Ventura Rosetti, edito la prima volta nel 1540, il testo ebbe grande fortuna e  ampia diffusione; nella sola Venezia fu ripubblicato nel 1565, 1611 e 1676, e nel 1717 fu tradotto in francese. Il volume contiene ricette per tingere con tutti i prodotti tintori conosciuti all’epoca; l’autore svela sia le tecniche che le ricette dei coloranti, quei segreti del mestiere fino ad allora gelosamente custoditi. Un aspetto importante riguarda poi le materie prime più utilizzate, che venivano poi combinate con altre sostanze, come ad esempio: per il rosso si usavano il chermes, da cui cremisi, ricavato da una cocciniglia (coccus ilicis) da cui vermiglio oppure la radice essiccata della pianta di robbia; per il giallo si utilizzavano ginestra, zafferano o curcuma; per le gradazioni di azzurro, si impiegava la pianta del guado; per il nero, la corteccia di vari alberi. Il successo del Plitcho fu tale che rimase il testo di riferimento dei tintori per secoli, una professione a cui venivano attribuiti onori e rispetto tanto che anche il famoso pittore veneziano Jacopo Robusti si servì di uno pseudonimo legato a questa arte, ossia Tintoretto, in memoria del padre tintore di tessuti di seta.

1) Giovani Girolamo Savoldo, La Veneziana, olio su tela, 1520-1530 circa, Berlino, Staatliche Museen

Il dipinto del bresciano Girolamo Savoldo, tradizionalmente intitolato La Veneziana e conservato a Berlino, fu probabilmente realizzato tra il 1520 e il 1530 (Fig.1). Si tratta della prima versione di una serie di almeno quattro dipinti analoghi che l’artista replicò con alcune varianti, dato il notevole interesse suscitato nella committenza veneziana. Caso piuttosto raro all’interno della sua produzione, il pittore si firma, sulla pietra dell’arco in basso a sinistra “JOANES JERONIUS / SAUOLDUS D. / BRISIA / FACIEBAT”.

L’efficacia straordinaria dell’opera sta nel manto che cela le fattezze della giovane. I vividi cangiantismi e il trattamento della luce che li fa risaltare soffermandosi tra le pieghe, creano suggestive zone d’ombra, che esaltano la resa serica del tessuto il cui effetto oro è ottenuto con un sapiente uso del giallo.

Tra i colori gialli sia Plinio sia Vitruvio ricordano l’orpimento, un minerale cavato dalle miniere di rame del Ponto; ma il giallo oro era da sempre associato al metallo prezioso che per la sua luminosità era la tinta ideale per rappresentare il divino.  Dai trattatisti emerge che il giallo, quando simile all’oro, ha una valenza positiva a differenza del giallo pallido, simbolo di falsità in quanto privo di tanta luminosità, tinta ingannevole perché imita l’oro.

2) Giovanni Girolamo Savoldo, Maddalena, olio su tela, 1535-40, Londra, National Gallery

Rilucente ed enigmatica è la Maddalena (Fig. 2), che Savoldo realizza circa un decennio dopo, accompagnata dall’ampolla con l’olio per profumare il corpo di Cristo. L’episodio biblico è narrato dal vangelo di Giovanni (20,1-2) e si riferisce alla domenica mattina dopo la Crocifissione, quando la pia donna si reca alla tomba di Gesù trovandola vuota. In un’alba ancora gravata dalla notte, Maddalena è avvolta in un grande mantello di seta cangiante dai riflessi argentei, e guarda con aria furtiva intrisa di una espressione sofferta, velata da una lieve sorriso, memore forse della posseduta malizia. La posa castigata propria di una rinnovata vita spirituale, contrapposta al passato, comunica la sorpresa di aver visto il sepolcro vuoto: sarà lei per prima a vedere Cristo risorto. La luce mattutina sta per riversarsi su Venezia, vista da un’isoletta della laguna, dove sorge una chiesa romanica. Seduce nel dipinto l’intensità quasi magica del momento raffigurato; le cromie ghiacciate, in contrasto con i violetti del cielo, affinano la malia della visione dagli esiti altamente evocativi.

Il manto si ricollega allo splendore lunare dell’argento che nel XVI secolo indicava purezza, innocenza, giustizia, associato alla luna, alle perle, l’argento rimandava al sacramento del battesimo tanto da avere il medesimo simbolismo del bianco cui veniva associato.  Così precisa il De’ Rinaldi:

«l’Argento metallo, essere non di bianco, ma di pallido colore. Quindi fu, che Platonici, chiamarono la Luna Argentea, per hauere li sembianti di questo metallo».[7]

Sovente utilizzato nell’araldica come conferma Sicillo nell’edizione veneziana del 1565 del Trattato de i colori, l’argento come l’oro, non era associato ad una tinta precisa e le sue tonalità variavano dal bianco al grigio anche per quanto concerne il significato. Ancora De Rinaldi sottolinea che l’argento-pallido esprime lascivia, grandezza di desideri, passione, patimento, tormento d’amore, ansioso affanno; per l’autore la luna era fautrice degli incontri amorosi e il suo pallore poteva riflettere le sofferenze d’amore:

«Il cuore ghiaccio manifesto il graue duolo, che consuma, et rode nello interno».[8]

La medesima interpretazione si ritrova nei testi di Fulvio Pellegrino Morato e Ludovico Dolce; in particolare l’argento che vira al grigio era detto argentino per la mescolanza di bianco e nero.

Sia le tonalità dell’oro che dell’argento nei dipinti di Savoldo sono realizzate attraverso l’uso dei pigmenti gialli e bianchi con l’aggiunta del bianco e del nero, con il fine di imitare lo splendore dei metalli e per questo motivo entrambi non rientravano nella gamma dei colori che i galatei consideravano primari. Tra questi, viceversa, emerge l’azzurro che in età rinascimentale ebbe una notevole promozione dovuta anche al miglioramento delle tecniche di colorazione. Queste permisero infatti di ottenere una tinta brillante, satura e luminosa, assai gradita al gusto dell’epoca.

Michel Pastoureau, che al blu ha dedicato un libro,[9] specifica che a partire dal XV secolo questa tinta diviene in Francia distintiva dei ceti aristocratici avendo il re di Francia scelto per arme tre gigli d’oro in campo azzurro. Nei testi cinquecenteschi, favoriti dalle conoscenze araldiche diffuse dal trattato dell’araldo Sicillo, redatto alla fine del XV ma pubblicato successivamente a più riprese a Venezia, non si parla mai di blu, ma di ‘turchino’ o ‘azzurro’. Quest’ultimo termine era sicuramente noto ai Romani perché utilizzato per indicare una pietra di provenienza orientale dal colore del cielo sereno, il lapis Jazuli.

L’azzurro è un colore freddo ed era associato all’intelletto, all’ingegno sottile, alla nobiltà, alla devozione, alla santità, alla fermezza, alla costanza, alla gentilezza come pure al bel parlare, alla perseveranza:

«Puossi per si fatto color mostrare Perseueranza per esser color del Cielo».[10]

Sicillo in particolare associa all’azzurro la lealtà e Borghini al senso della giustizia e la scienza.

Associate alla tinta del cielo, queste qualità ben si addicevano alla rappresentazione di personalità di levatura sociale e intellettuale. Nei galatei il turchino e azzurro non sono caratterizzati da una differenza tonale e simbolica in quanto gli autori utilizzano entrambi i termini senza specifiche, come esemplifica Borghini:

«rappresenta l’Azzurro, ò diciam Turchino mostra gelosa paura, per hauer’ il color del Mare. Imperò che sicome le onde sue mai non si varcano sì tranquille; che a varcanti non ne risorga sospetto, così anchora tra questi scogli gelosi, per certi che siamo del’altrui fede, non auuiene che ui si passi senza pauri»[11],

o ancora:

«se tutti i sette cieli hanno uno proprio colore et di questi non ue n’è ueruno Torchino, et se noi ne uediamo uno adornato di migliaia di fermissime stelle».[12]

Colore prezioso l’azzurro era associato alla sfera religiosa come confermano anche le parole di Borghini:

«E quale migliore esempio poteva essere portato per dimostrare che, attraverso il blu, si manifestava la grandezza dell’animo virtuoso, se non la Vergine?».[13]

Intessendo su base filosofica e astrologica un sistema di corrispondenze tra gli elementi della natura, la cultura rinascimentale collegava quello che i moderni chiamano blu all’aria:

«l’aere, il più nobile elemento dopo il fuoco, come quello che è per sé stesso sottile, penetrativo et atto a ricevere tutte le influenze luminose, senza le quali sopra la terra non si potrebbe vivere».[14]

Ma la catena delle associazioni si estendeva al pianeta Giove, alla pietra preziosa dello zaffiro, alla stagione autunnale, al tempo della fanciullezza più o meno fino ai 15/16 anni, come precisa Borghini nel Riposo edito a Firenze nel 1584.

L’azzurro le cui qualità sono descritte dai galatei rinascimentali in tutte le diverse sfumature, aveva una specifica accezione simbolica, e non è forse azzardato riscontrare in molti ritratti dell’epoca delle concordanze suggestive.

3) Tiziano Vecellio, Violante, olio su tela 1510-1515 ca, Vienna, Kunstistorisches Museum

Nel ritratto di Violante riferito a Tiziano (Fig.3), la tradizione vuole identificare la figlia del pittore Palma il Vecchio, forse amata dal maestro di Pieve di Cadore, come connota anche un tipo femminile dalla bionda capigliatura leggermente increspata, ricorrente nelle “belle donne” dipinte dall’artista. La fanciulla, immaginata dietro una balaustra, mostra uno sguardo timido, ma al contempo invitante e sembra richiamare attenzione.  L’abito sontuoso, proprio delle nobildonne veneziane, sfoggia una generosa scollatura che esalta la giovane avvenenza muliebre e la sensualità dell’adolescente. Il candido décolleté è adornato da violette che occultano velatamente un riferimento privato, allusivo al nome Violante. È un ritratto dal carattere intrigante che sembra celare un messaggio, forse un omaggio che Tiziano rende alle virtù dell’amata. La camicia bianca suggerisce un’idea di candore e purezza, mentre la seta azzurra allude alle virtù della giovinetta, la manica tanè, una sorta di castano, evoca le parole di Coronato Occolti che nel colore sottintende il potere di:

«far conoscere quanto sia giovevole all’amante il perpetuamente continuare nel servire arditamente amore».[15]

Nel Ritratto di Laura Dianti (Fig.4) Tiziano raffigura l’amante ufficiale di Alfonso I D’Este dopo la morte di Lucrezia Borgia; citato da Vasari, il dipinto sarà descritto dal Ridolfi nel 1648.

4) Tiziano Vecellio, Ritartto di Laura Dianti, olio su tela 1520-1525, firmato “TICI/ANVS F, Kreuzlingen Collezione Kisters

La donna indossa un sontuoso abito azzurro ricco di pizzi e ornamenti e mostra un’acconciatura complessa sormontata da un vistoso diadema. L’azzurro dell’abito conferisce nobiltà attutita però dalla presenza del giallo, tinta che per i trattatisti era assimilabile ad un oro degenerato, svalutato e come tale allusivo ad una ingannevolezza. Il giallo del resto aveva sovente un’accezione negativa se non infamante. In questo dipinto esso potrebbe alludere ad un atteggiamento superbo, come afferma il De’ Rinaldi:

«Che ne si tosto il biondo Apollo apre con le chiaui d’oro, la luce à questo Clima, che si uede ogniuno diuenir superbo».[16]

Il giallo allude anche alle passioni peccaminose, come confermerebbe Aquilano sulla base di un’antica tradizione:

«El giallo d’aver extrutto ogni suo ardore, Chi veste il giallo mostra ogni suo ardore haver estinto, e senza alcun sospetto in gaudio, e’ n libertate haver il core»;[17]

per Sicillo, infine, azzurro e giallo assieme in coppia nelle livree indicano ‘giocondezza nei piaceri del mondo’.

Un particolare interessante nel dipinto è dato dalla presenza del giovane paggio di colore.

Tra XV e XVI secolo a Venezia si diffonde nel patriziato l’usanza di servirsi di domestici di origine africana; il carattere esotico indica, oltre alla condizione servile, anche una nascita pagana. Si può notare che il paggio indossa un abito a righe verdi e arancione che, come suggerisce Sicillo, esprimono allegrezza, in particolare l’arancione o ranzato, unito al verde della speranza e della giovinezza, manifesta letizia e contentezza.

La rigatura in ambito domestico diventa un’esotica stravaganza propria di personaggi in posizione servile, ad esempio falconieri, musici e subalterni. Come hanno dimostrato gli studi di Pastoureau, l’origine di questa avversione si rintraccia in un passo del Levitico (19,19): «Non indosserai veste tessuta di due».

La sentenza può riferirsi all’accostamento di tessuti diversi, ma anche probabilmente all’unione di tinte diverse. Da ciò derivò forse il divieto di indossare abiti misti di lana e lino, ma anche di colori diversi, destinati a persone emarginate o bizzarre, come i giullari. La rigatura infatti rende impossibile stabilire quale sia il colore di fondo e per questo era ritenuta ingannevole. A ciò si deve aggiungere che in età medievale la tintura con colori diversi era considerata un’operazione diabolica.[18]  Si narra che Luigi il Santo nel 1254 portò con sé dalla Terrasanta alcuni monaci del Carmelo devoti alla Vergine e seguaci dei primi Padri del deserto, questi erano avvolti in mantelli bianconeri, dalla negativa reazione popolare nacque la definizione di costoro come «sbarrati», ovvero bastardi.

Il secolo XVIII vedrà il radicale affrancamento da questa antica avversione, ma l’inizio di questo processo avviene in età rinascimentale; quello che potremmo chiamare il riscatto delle righe sembra avere origine con Beatrice d’Este, la novarum vestium inventrix. Secondogenita di Ercole I d’Este e di Eleonora d’Aragona, la giovane andò in sposa a Ludovico Sforza.  Beatrice fu una delle personalità più importanti del suo tempo e, nonostante la breve vita, trasse le fila della politica italiana. Abile cacciatrice e cavallerizza esperta, fu pratica dell’uso di diverse armi, ma fu anche donna di cultura, mecenate e leader riconosciuta della moda.

La nobildonna mostrò infatti un vero talento inventivo nella creazione di nuovi abiti, che furono una delle sue più grandi passioni, tanto che ebbe ben poche rivali nelle altre corti. Fu seguendo il suo esempio che numerose nobili italiane adottarono l’acconciatura detta coazzone, nota anche come treccia alla catalana o treccia alla spagnola; le scollature ardite, non frequenti all’epoca, sorpresero i cortigiani francesi al seguito di Carlo VIII e il lusso di Beatrice viene ricordato dal poeta André de la Vigne nella sua opera inversi Le Vergier d’honneur.

La Pala Sforzesca (Fig.5), portata a termine tra il 1494 e il 1495, ritrae Beatrice e il figlio in qualità di donatori ai lati della sacra conversazione.

5) Maestro della Pala Sforzesca, Pala Sforzesca, tempera e olio su tavola, 1495-1496, Milano, Pinacoteca di Brera
Maestro della Pala Sforzesca, part.

La nobildonna e il fanciullo indossano inconsueti abiti a righe, una vera novità che potrebbe segnare l’inizio di un cambiamento nella moda del tempo.

Alcuni anni dopo, attorno al 1533, il genio inquieto di Lorenzo Lotto dipinge il Ritratto di gentildonna nelle vesti di Lucrezia (Fig.6), visibile oggi nella National Gallery di Londra.

È possibile che si tratti di Lucrezia Valer, sposa in quell’anno a un componente della famiglia Pesaro. La donna solleva un disegno che ritrae l’omonima eroina romana da lei indicata con l’altra mano; il suo sguardo è rivolto direttamente allo spettatore. Sul tavolo appare un foglio con una scritta che rimarca il valore morale della vicenda storica in cui Lucrezia sacrificò se stessa dopo aver subito l’onta disonorevole della violenza: «Nec ulla impudica Lucretiae exemplo vivet», ovvero non debba alcuna donna impudica sopravvivere all’esempio di Lucrezia.

6) Lorenzo Lotto, Ritratto di Gentildonna nelle vesti di Lucrezia, olio su tela, 1533, Londra, National Gallery
7) Tiziano Vecellio, La Bella, olio su tela, 1536-1538, Fiurenze Galleria Paladina

Il ritratto celebra, dunque, le virtù della castità e quelle coniugali: il mazzolino di violette sul tavolo è infatti simbolo di castità. La sontuosa veste, la capigliatura arricchita da fiocchi e gioielli ricordano l’alto status sociale dell’effigiata che indossa un abito bicolore, verde e “ranciato”, simbolo di letizia. L’accostamento delle due tinte era ritenuto congruo poiché, come scrive Occolti, oltre alla positività del verde, anche il cosiddetto ranciato aveva una valenza positiva.[19] Grazie alla brillante intensità dei toni, la stoffa rigata enfatizza le virtù coniugali di cui l’effigiata è modello. L’arancione era infatti suggerito per sottolineare i valori positivi del matrimonio e del vincolo nuziale.

Tornando all’azzurro, la tinta sembra essere particolarmente amata da Tiziano, come si può osservare ne La bella del 1536 (Fig.7), oggi nella Galleria Palatina di Firenze.Il ritratto dovette avere successo, dato che risulta citato in una lettera indirizzata al  suo agente a Venezia, il  2 maggio 1536, da Francesco Maria I della Rovere che, evidentemente, ne vuole una replica e cita: «quel retratto di quella Donna che ha la veste azurra desideriamo che la finisca bella». Di azzurro vestirà anche la Bella Nani, oggi al Louvre, dipinta nel 1560 da Paolo Veronese.

L’azzurro compare anche nei ritratti maschili come emblematicamente nel cosiddetto Ariosto (Fig.8), oggi alla National Gallery di Londra, dipinto da Tiziano attorno al 1510.

8) Tiziano Vecellio, Ritratto di Ariosto (?), olio su tela, 1510, Londra National Gallery

L’identificazione tradizionale è oggi sostituita con quella di Girolamo Barbarigo, podestà di Chioggia e di Bergamo, come conferma Vasari riferendo trattarsi di

«un gentiluomo da Ca’ Barbarigo amico suo, che fu tenuto molto bello, essendo la somiglianza della carnagione propria e naturale, e sì ben distinti i capelli l’uno dall’altro, che si conterebbono, come anco si farebbono i punti d’un giubone di raso inargentato, che fece in quell’opera; insomma fu tenuto sì ben fatto e con tanta diligenza, che se Tiziano non vi avesse scritto in ombra il suo nome, sarebbe stato tenuto opera di Giorgione».[20]

I riflessi lucidi del raso, di un azzurro aristocratico e rilucente, creano un capolavoro cromatico e decantano la sfuggente intensità psicologica dell’affascinante ritratto. La gonfia manica di raso, che domina come un vero capolavoro cromatico la rappresentazione, ha un effetto di virtuosismo nel comporre i riflessi del materiale, lucidi sul raso, opachi sulla pelliccia che borda il mantello nero.

9) Palma il Vecchio, Ritratto di giovane donna in abito blu con ventaglio, olio su tela, 1528 circa, Vienna, Kunstistorisches Museum Gemaldegalerie

Nel Ritratto di giovane donna in abito blu con ventaglio (Fig.9), che Palma il Vecchio dipinge entro il primo trentennio del XVI secolo, e oggi conservato nella Gemäledegalerie del Kunsthistorisches Museum di Vienna, il pittore realizza invece un gioco di colori.

Al bianco che indica candore virginale si aggiunge l’azzurro aspirazione alla purezza; ma nel dipinto prevalgono il verde scuro e il marrone che, in realtà, è un verde-giallo. La compresenza di più tinte diverse era vivamente sconsigliata dai galatei.

Morato infatti riferisce:

«volendo l’huomo accoppiare insieme colori che dilettino all’occhio, non havendo rispetto al significato, ma alla convenientia et adherentia de’ colori (…) Et se più che dui o tre o quattro ne porrà insieme, dee guardare di piacere all’occhio sopra il tutto»[21].

Una considerazione analoga è riportata da Contile che, quarant’anni dopo, così ribadisce:

«che le vestimenta fatte alla diuisa usate e anticamente e modernamente, seruiuano e seruono per uso di coprirsi con vaghezza e non per convenienza di virtuosi disegni come si richiede alle imprese».[22]

Da queste affermazioni si può forse arguire che l’effigiata è una donna comune non appartenente ad una classe sociale elevata in cui si poneva maggiore attenzione alle norme suggerite dai galatei.

Stefania MACIOCE   Roma 23 Aprile 2023

NOTE

[1] Questo testo rielabora il testo di una mia conferenza dal titolo Salotto veneziano. I trattati sul colore tra moda e costume nel ritratto rinascimentale, tenuta il 14 aprile 2023 alla Fondazione Besso; sul tema si veda principalmente M. BRUSATIN, [a cura di] Galatei dei colori, a cura di con la collaborazione di C. BENVESTITO, A. BRUNI E M. MAZZARIOL, Venezia, Biblioteca Marciana, 05-12 Febbraio 2013; mi è particolarmente gradito fare menzione della bella tesi di laurea di cui sono stata relatrice di Maddalena Mariani, Studi sul colore: trattatistica e consuetudini sociali del XVI secolo, Sapienza Università di Roma a.a. 2013-2014.
[2] Enneadi I, 6, 3.
[3] M. F. FERRINI, [a cura di]De coloribus, in Aristotele. I colori e i suoni, Milano Bompiani, 793a, 2008, p.79.
[4] PLINIO IL VECCHIO, Naturalis Historia,trad. ital. A.CORSO,R.MAGELLESI, G.ROSATI, [a cura di]Torino, 1988, libro XXXV, par.12.
[5] ANDREA ALCIATO, Amore ,nei colori, in Emblemi di Andrea Alciato, huomo chiarissimo, dal latino nel vulgare italiano ridotti, CXVIII, Padova, Tozzi, 1626; SERAFINO AQUILANO, Si come il verde importa speme e amore (fine XV secolo), in Lerime, Bologna, Romagnoli, 1894; GIACOMO BEFFA, S’Io vesto negro, ogn’hor son fermo e gramo (XVI secolo), in A. CALLI,  Discorso de’ colori, Padova, Pasquati, 1595; RAFFAELLO BORGHINI, Il Riposo di Raffaello Borghini, in cui della pittura e della scultura si favella, de’ più illustri pittori e scultorie delle più famose opere loro si fa menzione; e le cose principali appartenenti a dette arti s’insegnano, Firenze, Marescotti, 1584, libro II; LUCA CONTILE, Delle divise, e de colori, in Ragionamento di Luca Contile sopra le proprietà delle imprese con le particolari degli Academici Affidati et con le interpretazioni et croniche, Pavia, Bartoli, 1574; GIOVANNI DE’ RINALDI, Il mostruosissimo mostro di Giovanni de’ Rinaldi, diviso in due trattati, nel primo de’ quali si ragiona del significato de’ colori, nel secondo si tratta dell’erbe e fiori. Di nuovo ristampato, e dal medesimo riveduto e ampliato, Ferrara, Caraffa, 1588; LUDOVICO DOLCE, Dialogo di M Lodovico Dolce nel quale si ragiona delle qualità, diversità e proprietà dei colori, Venezia, Sessa, 1565; MARIO EQUICOLA, Libro de natura de amore di Mario Equicola secretario del illustrissimo S. Federico II Gonzaga marchese di Mantua, Venezia, 1525, libro V; FULVIO PELLEGRINO MORATO, Del significato de’ colori, Venezia, Nicolini da Sabbio, 1535; CORONATO OCCOLTI, Trattato de’  colori di messer Coronato Occolti da Canedolo. Nuovamente composto e stampato con l’aggiunta del significato di alcuni doni, dal medesimo data in luce, Parma, Viotti, 1568. MARIN SANUDO (il Giovane), Simplice, il bianco mostra puritade, in Diarii (1496-1533), in R. FULIN, F. STEFANI, N. BAROZZI, G. BERCHET, M. ALLEGRI, [a cura di], Venezia, Visentini, 1879-1902; ARALDO SICILLO (Jean Courtois?), Trattato de i colori nelle arme, nelle liuree, et nelle diuise, di Sicillo araldo del re Alfonso d’Aragona, Venezia, Giorgio de’ Cavalli, 1565; ANTONIO TELESIO. De colori bus libellus, Venezia, 1528.
[6] N. FRANCO, 1547, p. 55 r.
[7] G. DE’RINALDI, 1588, p .53.
[8] ID., 1588 pp. 54-55.
[9] M.PASTOUREAU, Blu. Storia di un colore (Bleu. Histoire d’une couleur, 2000), trad. di F. Ascari, Collana Libri illustrati, Milano, Ponte alle Grazie, 2002, Collana Saggi, Ponte alle Grazie, Milano, 2008-2018, 
[10] N. FRANCO, 1547, libro II, pp. 56v-57r.
[11]  R. BORGHINI, 1584, libro II, par. 235; A. SICILLO, 1606, p. 8r
[12]  INCERTO AUTORE, 1567, pp. 23-24; L. CONTILE, 1574, p. 22v
[13]  R. BORGHINI, 1584, libro II, par. 235; si vedano anche A. SICILLO, 1606, p. 8r, 20; C. OCCOLTI, 1568, p. 16v, in L. DOLCE, 1565, p. 57; in F. P. MORATO, 1535, p. 67
[14]  R. BORGHINI, 1584, libro II, par. 235
[15] C. OCCOLTI, 1568, p. 27v.
[16] G. DE’ RINALDI, 1588, p. 24:
[17] F. P. MORATO, 1535, pp. 59-60: «Gli Hebrei aspettando le pristine sue forze ricoverare con la venuta del già venuto Messia, oggidì in molti luoghi di tal colore il capo suo adombrano, et se quello rifutano, fannolo perno n essere conosciuti et vituperati dalli Christiani».
  1. AQUILANO: «Ai bramosi conviensi il color giallo, atto agli amanti, et ale meretrici»; altra versione del sonetto dell’Aquilano è citata in A. CALLI, 1595, pp. 32-33; M. SANUDO: «il giallo accompagnato, contentezza, e sol, disperazion d’ogni favore»; in V. CIAN, Del significato dei colori e dei fiori nel Rinascimento italiano, in “Gazzetta Letteraria”, n.13-14, Torino, 1894, p. 165.
[18] M. PASTOUREAU, La stoffa del diavolo. Una storia delle righe e dei tessuti rigati, Genova, Il Nuovo Melangolo, 2016.
[19] Il verde era spesso consigliato alle spose e per le simbologie cromatiche del ‘ranzato’ si vedano in proposito A. SICILLO, 1606, ad vocem; G. DE’ RINALDI, 1588; R. BORGHINI, 1584, libro II, par. 238.
[20]  G. VASARI, Vita di Tiziano da Cador in Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori, 1568.
[21] F. P. MORATO, 1535, p. 75; lo stesso in L. DOLCE, 1565, p. 63.
[22] L. CONTILE, p. 23r.